Rosy Mauro e il Sindacato Padano che non era un sindacato

Proseguo a rovistare nell’Archivio de La Stampa nella convinzione che quanto stia accadendo oggi non sia casuale, non sia frutto di una malattia che ha colpito uno spregiudicato segretario di partito, bensì sia il prodotto di un’anomalia accettata come tale e lasciata crescere a dismisura sapendo che aveva le radici marce, completamente marce. Per anni molti di voi si sono fatti incantare dal bel teatrino del Bossi e dell’indipendentismo padano. Dietro il palco si faceva mercimonio delle vostre convinzioni al solo scopo di arricchimento personale. Null’altro.
La figura di Rosy Mauro è emblematica. Così come lo è quella del Sindacato Padano. La storia di Rosy Mauro nella Lega Nord è la storia del Sindacato Padano. La sua avventura comincia nel 1990. Rosy Mauro fonda insieme a Antonio Magri il Sindacato Autonomo Lombardo (SAL). Poi il SAL si trasforma in Confederazione, come tutta la Lega Nord, e diventa Sin.pa. E’ chiaro fin dall’inizio che il Sin.pa. è diretta emanazione della Lega Nord. E’ organo della Lega Nord. I suoi iscritti sono un mistero, ampiamente documentato su molti giornali (qui ne parla La Stampa).
Nel 1993 il SAL era chiaramente presieduto da Rosy Mauro. La Telecom si chiamava ancora Sip. La Sip di Milano escluse il SAL dalla possibilità di ricevere la trattenuta diretta in busta paga ai dipendenti che risultassero iscritti al sindacato leghista. Il pretore diede ragione alla Sip: il SAL «E’ un movimento politico, non può incassare le trattenute».
Secondo il pretore, il Sal, nel suo statuto, faceva "riferimento esplicito al «perseguimento degli interessi nazionali del popolo lombardo» e afferma di voler «realizzare l’autentica solidarietà e la giustizia sociale fra il popolo lombardo»" (La Stampa, Archivio Storico, 18/06/1993, p. 9).

Conclude così Cecconi, in risposta al ricorso del Sal contro la Sip. «Il vostro sindacato afferma – sembra perseguire legittime finalità politiche non qualificabili però come semplici attività a carattere sindacale. Per questo motivo non si può garantire al Sai nemmeno la tutela privilegiata prevista dalla Costituzione». Addirittura, conclude il decreto: «Le finalità evidenziate fanno mettere in dubbio anche il requisito della nazionalità del Sai». Insomma, non solo il Sai non è un sindacato, ma una forza politica camuffata. Ma il sindacato leghista, addirittura, si mette fuori dalla comunità italiana innalzando la bandiera dei lumbard (La Stampa, cit.).

Che razza di sindacato è il SAL, poi Sin.pa.? Non ha mai partecipato ad alcuna contrattazione né ha avuto grande visibilità, a parte una volta, a Cuneo nello stabilimento della Michelin di frazione Ronchi, quando nel 2000 conquistò il 40% dei voti alle elezioni della RSU. Non è mai intervenuto nel dibattito sui contratti collettivi. Nulla. E pretendeva la trattenuta diretta in busta paga.

Promotori con interessi troppo diversi, nessuna organizzazione di scioperi di stampo sindacale, nessun intervento nei contratti collettivi… Insomma, quello è il Carroccio sotto altre spoglie e nulla più. […] il Sai non fa attività sindacale ma politica allo stato puro (La Stampa, Archivio Storico, 18/06/1993, p. 9).

Per anni tutto ciò è stato tollerato. Un sindacato che non era un sindacato ha intascato le Vostre trattenute in busta paga. Era – ed è – un organo di partito costituito per distrarre i soldi del finanziamento pubblico, poi rimborso elettorale. Uno strumento come altri, fatto apposta per drenare denaro pubblico. E, quel che è più grave, sapevamo tutto. Tutto. Sin dall’inizio. Ma l’inerzia, la stupidità, la nostra stupidità, hanno permesso che questo raggiro durasse venti anni. Venti lunghissimi anni.

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