Se possiamo intendere i corpi intermedi della società – partiti e sindacati – come indispensabili alla comunicazione di domanda e sostegno dalla società civile al sistema politico (si faccia riferimento alla teoria sistemica della società e in particolar modo a David Easton), altrimenti non possiamo intendere il sistema politico come un circuito parzialmente chiuso, con una modalità di reclutamento dei soggetti incaricati alla sua funzione solo ed esclusivamente correlata al legame fiduciario, o di fratellanza o tantomeno di genitorialità. Un sistema politico che non ha criteri di reclutamento oggettivi, fondati sul merito, legittimati dal consenso sociale, allora è un sistema con un forte deficit democratico: quella che giornalisticamente chiamiamo “la Casta” e che ha a che vedere con la mancata circolazione delle élite (Pareto) o per meglio dire, con una società priva di mobilità, è il vizio storico della nostra democrazia rappresentativa.
L’esigenza emersa negli ultimi quattro anni di una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita politica tende ad evolversi in una volontà di essere attori del sistema politico proprio in quanto cittadini. I sostenitori del modello della e-democracy, di una forma di democrazia diretta che impiega la tecnologia del web per smettere di essere utopia, ritengono che dalla sostituzione delle istituzioni rappresentative con l’agorà virtuale sempre connessa possa scaturire solo del bene. La Casta è individuata negli occupanti del sistema politico, che amministrano per nome e per conto di interessi di parte. La legittimazione del voto popolare non è più sufficiente. Essi reclamano che il “deputato” sia completamente assoggettato alla volontà del gruppo di elettori di riferimento. Tramite il mandato imperativo, essi trasformano il deputato in un mero portavoce, un incaricato che esprime la volontà altrui raccolta con una sorta di plebiscito quotidiano. Il cittadino è “cittadino totale”, pienamente politico. La sfera pubblica è primaria e coinvolge tutto. La sfera privata smette di esistere in questa estrema pubblicizzazione dell’io. L’individuo non ha senso di essere nel mondo ipersociale della iperdemocrazia (M. Prospero, l’Unità 01/06/12): esso è immerso nella rete virtuale dei rapporti sociali, costantemente sotto la luce del pubblico poiché osservato e monitorato; dalla téchne del web 2.0, dai “netizen” concittadini dell’agorà virtuale, da sé stesso.
In questo contesto l’individualità non ha senso di esistere. La libertà di non essere connessi, di non essere avvinti nella trama della Rete, la libertà di non essere “politico”, non è permessa. Devi avere un’opinione. Devi esprimere un voto. La macchina della iperdemocrazia è obbligata ad alimentarsi con la perpetua deliberazione pubblica. Il tuo voto può essere il voto decisivo. In quanto produttore di opinione e di voti, servi alla macchina e non puoi essere escluso. In questo senso, l’iperdemocrazia è alla stregua di una ideologia totalitaria “che sussume e cancella gli individui e gli eventi particolari, il rilievo dato alla singolarità e alle differenze” (S. Forti, 1994).
Perché proponiamo alla nostra società bloccata, in deficit democratico, guidata da élite vecchie e maleodoranti e che pretendono di essere insostituibili, di passare all’estremità opposta di una democratizzazione assoluta e totalitaria? Perché dimentichiamo la politica della libertà? La necessità di riaffermare l’interesse pubblico rispetto alla ingerenza della sfera privata, che in Italia negli ultimi diciassette anni ha di fatto privatizzato il pubblico, non può passare dalla erosione della sfera delle libertà individuali. Il meccanismo della democrazia diretta può funzionare soltanto come elemento di un sistema che è per forza rappresentativo, non potendo prescindere dal problema della complessità delle società di massa. I corpi intermedi sono i principali responsabili della malattia che si chiama “Casta” e che in un primo momento era etichettata come “berlusconismo”. Essi sono “i guardiani” (o gatekeepers) del sistema politico. Presiedono al sistema democratico senza essere democratici. Obbligare partiti e sindacati ad avere regole democratiche di selezione delle classi dirigenti potrebbe essere la giusta proposta di riforma per questo paese. In tal modo non si rischierebbe nessuna deriva iperdemocratica, ma più semplicemente si provvede ad aggiustare il deficit attuale aprendo le porte alla società civile (e così smontando il grumo di posizioni dominanti che la caratterizza). Non che sia sufficiente promuovere e organizzare liste elettorali fittizie di candidati superstar (come nel caso della lista Scalfari/La Repubblica). Un partito politico deve essere esso stesso permeabile alla società: dalla definizione delle cariche organizzative interne, alla definizione delle politiche. Non può essere cooptato da interessi particolari, ma deve consentire alla competizione delle opinioni in un quadro di libertà comunicativa e partecipativa. Perché è possibile non essere interessati alla vita pubblica, è possibile essere ripiegati completamente nell’ombra della sfera privata; è possibile, in definitiva, esser sé stessi, e scegliere da chi esser visti (e giudicati).