Una sconfitta di Marino, lo dico onestamente, mi avrebbe francamente sorpreso. Quando qualche giorno prima delle primarie per la scelta del candidato sindaco di Roma, leggevo di improbabili sondaggi attestanti il vantaggio di Sassoli, oppure di improvvisi endorsement per il pur onesto – ma navigato e renziano! – Gentiloni, non riuscivo a credere alle mie orecchie. Ignazio Marino è stato per il PD, per via del Congresso 2009 e del fallimento della Terza Mozione, la grande occasione perduta. Il Partito Democratico nel 2009 soffriva ancora – ancor più di oggi – della dicotomia fra Popolari ed ex DS e personaggi scomodi, impopolari e soprattutto minoritari come Paola Binetti, dettavano la linea del partito sui temi eticamente sensibili, specie quando si spesero mesi a impedire ad un padre, Beppino Englaro, di liberare la propria figlia, in stato vegetativo da più di quindici anni, dalla schiavitù delle macchine.
Marino era là, ad esprimere ciò che tutti volevano fosse detto e che invece nessuno, nel PD, diceva. Spesso si trovava da solo.
Ignazio Marino perse quelle primarie ma il suo progetto politico era un archetipo assoluto: era il primo programma politico democratico, non di mera sintesi fra le posizioni dei diesse e quelle dei popolari, ma di pieno superamento di quella storica contrapposizione su cui si è deciso di fondare il partito. Fu Marino per primo a parlare di ‘salario minimo’ e di flexsecurity e di metodo del layering (idee mutuate dal discusso Pietro Ichino, il giuslavorista renziano e poi transfuga verso Scelta Civica), di peer review e merito nella ricerca, di no al nucleare, di testamento biologico, di unioni civili, di una televisione pubblica non più diretta dai partiti, di antiberlusconismo fatto di argomenti e proposte e non di ospitate televisive. Argomenti e progetti che oggi sono finiti, più per dabbedaggine del PD che per merito degli altri, in mano ai 5 Stelle. E pensare al capitale politico rappresentato dalla Terza Mozione mentre ci troviamo in questo sciocco e inutile stallo, fa un po’ strano.
Il Partito allora non cambiò. Votò Pierluigi Bersani, che era un uomo di apparato, grigio, distante anni luce da quello odierno, a suo dire ultimo baluardo contro l’inciucio PD-Pdl. Allora parlava di centro-sinistra con il trattino o senza il trattino, per dire. Parlava di alleanza con l’UDC, senza mai citare l’UDC. Beppe Grillo cercò di inserirsi in quel dibattito provocatoriamente chiedendo di potersi candidare alle primarie. Gli fu negato. In realtà, stava già preparando il Movimento. All’epoca si chiamava Movimento per la liberazione nazionale. Grillo subodorava di sinistra, raccoglieva consensi dalla sinistra. Di Marino disse che era già compromesso (con il sistema dei partiti). Non si espresse mai sul suo progetto politico. Ma non è un caso se molta parte di quegli argomenti ora costituiscono l’asse portante della retorica grillina.
Voi che vi siete lamentati sinora della politica, pensate che nel 2009 c’era un chirurgo in grado di poter cambiare le cose. Oggi ha vinto le primarie per Roma. Se Roma non vuol fare la fine del PD, è meglio che si accorga del suo valore e lo scelga come sindaco. Ai democratici, specie a quelli che si ispiravano alla Terza Mozione, posso solo dire di continuare a combattere affinché questo partito smetta di essere guidato da tendenze oligarchiche e scelga, pienamente, la via della partecipazione dal basso.