PD | Congresso chiuso come una scatoletta

Immagine

Renzi ha recentemente affermato di non essere interessato alla corsa per la segreteria del Partito Democratico. Nella sua idea, la premiership (di coalizione?) non va più di pari passo con la leadership di partito. Che strano calcolo è mai questo?

Che il sindaco di Firenze osteggiasse quella regolina dello Statuto, quella che assegna al segretario del partito, eletto con primarie aperte, la candidatura alla presidenza del Consiglio, era cosa nota sin dai tempi delle consultazioni per Italia Bene Comune, alle quali si è potuto presentare proprio in virtù di una deroga concessa – non senza dilemmi – da parte di Pierluigi Bersani. Quella norma, che in altri paesi è regola condivisa, veniva all’epoca dipinta come un ostacolo antidemocratico poiché era usata dall’entourage del segretario per scongiurare la sua partecipazione. 

Il chiamarsi fuori dalla partita del congresso ha un suo significato che non è così immediato: Renzi intende risparmiarsi per il momento in cui il governo Letta subirà il peggiore di killeraggi politici da parte dei poco onesti compagni di viaggio che si è cercato. Renzi non vuole mescolarsi, non vuole sovrapporre la propria immagine di rottamatore della vecchia politica alla formula del partito pesante.

Mi sembra che questo genere di raziocinio abbia poco a che fare con il bene collettivo nonché con l’interesse medesimo del partito, che necessita senz’altro di esser rimesso sulla carreggiata giusta di una selezione democratica (perché aperta agli elettori) delle leadership nonché delle linee politiche da perseguire. Insieme alla scelta di appoggiare la soluzione-pacchetto Napolitano-Letta, l’avversione verso la formula congressuale aperta e specie verso i bizantinismi delle Direzioni o delle Assemblee nazionali, fanno apparire il rottamatore scaltro e machiavellico ma chiaramente orientato al perseguimento del proprio successo personale nella prossima competizione elettorale che lui medesimo pronostica fra dodici-diciotto mesi circa. Nulla di più.

Per mettere in atto questa strategia, oltre alla macedonia in salsa lettiana, Renzi sarebbe propenso ad accettare altre tre soluzioni alquanto sbrigative:

  1. assegnare la reggenza ad un ex DS, purché sia un neutrale e non sia quindi un nome spendibile sia al congresso che per la premiership della coalizione;
  2. dividere per sempre la funzione del segretario del partito da quella del candidato premier;
  3. chiudere il congresso ai soli iscritti, eliminando la fase delle primarie aperte.

Questo sarebbe il contenuto di una sorta di armistizio fra l’ala centrista, di cui il sindaco è punto di riferimento, e gli ex DS. Un patto che dovrebbe consentire di gestire la fase congressuale ad Ottobre, senza fretta, con il minimo grado di coinvolgimento. Le personalità politiche storicamente contrarie alle primarie (specie i dalemiani, che sempre vivono e lottano in mezzo a noi) trovano così una inconsueta spalla in chi nelle primarie aveva costruito tutta la sua popolarità e credibilità.

Così si è espresso Marco Campione, democratico del PD lombardo, sul suo blog, qdR (Qualcosa di Riformista):

Il prossimo congresso sarà utile se i tanti apprendisti stregoni che hanno gestito il PD dimostreranno di essere in grado di governarlo facendo a meno non tanto delle generazioni precedenti quanto dei fantasmi del passato. Il PD è nato scommettendo sul consolidamento dell’assetto bipolare, sulla competizione tra partiti a vocazione maggioritaria, sul riconoscimento reciproco delle forze in campo. Pensiamo sia ancora quella la sfida?

Solo in questo contesto il PD ha senso di esistere. Per questo preoccupa che gli stessi apprendisti che ci hanno portato al disastro oggi mettano in dubbio una delle intuizioni fondative del PD. Nel PD il segretario del partito è il candidato premier non per una bizza di chi ha scritto il nostro Statuto, ma perché nella coincidenza tra premiership e leadership sono concentrate alcune caratteristiche fondamentali. La già richiamata vocazione maggioritaria, l’essere un partito di iscritti ed elettori (che “pesano” allo stesso modo, dunque), l’idea che chi vuole conquistare il paese debba prima convincere il proprio partito, l’accountability del gruppo dirigente e la contendibilità della leadership. Far saltare quell’identificazione vuol dire mettere a rischio tutto questo, non solo cambiare un assetto organizzativo o un modo per eleggere il segretario (@marcocampione, qdR).

Premiership e leadership, vocazione maggioritaria, orientamento agli elettori (l’auctoritas promana dal basso), sono intimamente correlati e pertanto smontare questo impianto significa de facto liquidare il Partito. E’ una vera e propria restaurazione. A cui possiamo soltanto opporci.