Venerdì l’ufficializzazione. Fino a quel momento, le nuove regole per il congresso del Partito Democratico resteranno scritte sulla sabbia. Verranno presentate dal segretario Epifani alla Direzione Nazionale, quindi dovranno passare il vaglio finale della commissione speciale per il Congresso, quindi ritornare in Direzione (31 Luglio, 1 Agosto; cfr. Il Sole 24 Ore), infine essere votate da ciò che resta dell’Assemblea Nazionale entro la prima decade di Settembre (evento tutt’altro che scontato). Questo lungo e tortuoso procedimento dovrebbe portare ad un piccolo stravolgimento nell’ordine dei lavori congressuali: prima si effettueranno i congressi locali, nell’ordine cittadini, provinciali, regionali; soltanto dopo inizierà il congresso nazionale. Sembra che questo aspetto significhi, nella strategia renziana, una partenza ad handicap. Vediamo perché.
Secondo quest’ottica, lo status quo del partito punterebbe letteralmente a congelare le posizioni attuali grazie al minor coinvolgimento popolare che gli organismi locali riescono a suscitare. L’obiettivo: mettere il futuro segretario (Renzi) nella condizione di essere ostaggio del partito. Di fatto sarebbe impiegata una logica di non coinvolgimento tutta fondata sull’anonimia del fatto locale, così distante dai luoghi che contano, quei luoghi (caminetti?) dove vengono decise le sorti nazionali. D’altro canto, una mozione congressuale che non prendesse in esame le varie situazioni locali (così urgente e necessario il riassetto di potere nelle regioni meridionali), finirebbe per agire – in termini di rinnovamento – in maniera asimmetrica, causando di per sé una afasia fra la testa e il corpo del partito (‘corpaccione’, per meglio dire).
Questa analisi non prende però in esame la realtà delle cose. La realtà narra di alcune regioni o province che coltivano una dura avversione verso la strategia politica del governissimo (penso soprattutto a Emilia-Romagna, in parte la Toscana). L’afasia è già fra noi, e non a causa delle regole congressuali. La scelta di un congresso ‘local’ potrebbe avere perciò effetti paradossali: potrebbe incrementare la domanda di cambiamento, specie se espressa in contrapposizione ribelle alle Larghe Intese. Il congresso si gioca nelle province, ha detto Pippo Civati. Le province, in cui non cambia mai nulla, si pretende ora che siano congelate. E non è molto razionale tentare di congelare qualcosa che è più simile ad un permafrost.
Così, dopotutto, queste nuove regole (che fra l’altro lascerebbero immutate le primarie aperte) impongono ad una mozione seria di incidere profondamente nella classe dirigente del partito quasi circolo dopo circolo. In questo tentativo di sabotaggio è forse ravvisabile una opportunità: quella di esercitare una vera e propria mobilitazione dal basso, occupando non più solo temporaneamente i circoli. Una strada difficile, che si può compiere forse solo sull’onda di una indignazione profonda; di una volontà diffusa di ribaltamento delle posizioni dominanti.
E’ forse un fatto eccezionale, quello che qui io evoco. Ma ad essere eccezionali sono prima di tutto i tempi che viviamo. L’eccezionalità impone scelte personali, di partecipazione diretta. E il rifiuto alla formule precostituite deve cominciare sin da ora nel modo di raccontare che abbiamo adottato – e forse subito – da diversi anni a questa parte. Dobbiamo avere il coraggio di chiamare le cose con il proprio nome. Se il Partito Democratico, al sud, è governato da una ciurma di cacicchi, di capibastone, di ras locali, di signori delle tessere (cfr. F. Nicodemo, Europa Quotidiano), ebbene, diciamo di chi si tratta, chiamandoli per nome e cognome. Cominciamo a far cadere, in primis, le nostre perifrasi. Anche se questo dovesse costarci ore ed ore di lettura di infiniti elenchi:
NB: data presunta del congresso, 15 dicembre 2013! Vi ricorda qualcosa?