Ucraina sospesa fra Mosca e il caos

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Dopo le dimissioni del premier Mykola Azarov, sostituito ad interim dal  vice premier Serhiy Arbuzov, dopo l’abrogazione delle leggi “liberticide”, sembra, e si spera, che l’Ucraina abbia trovato un compromesso che metta fine alla crisi politica e agli scontri violenti  tra i dimostranti più estremisti e la polizia. Per ora solo gli attivisti del movimento nazionalista Spilna Sprava sono stati convinti a lasciare il ministero dell’Agricoltura. Dopo laboriose trattative, il Parlamento (Rada), con l’astensione delle forze di opposizione, ha approvato un’amnistia che permetterà il rilascio di manifestanti antigovernativi.

La Russia terrà certamente conto dei cambiamenti nel governo dell’Ucraina predisponendo, o meno, un calendario per il sostengo finanziario del Paese. Nel contempo, ha confermato l’esecuzione e il mantenimento degli impegni presi, ma l’andamento delle contrattazioni richiede una discussione ulteriore.

L’Ucraina, in occasione del  vertice sul Partenariato orientale, tenutosi a  Vilnius, in Lituania, avrebbe avuto la possibilità di sottoscrivere un accordo di associazione con l’Unione Europea  per la creazione di un’area di libero scambio con Bruxelles e per chiedere l’alleggerimento dei termini di un possibile prestito da parte del FMI. Chiedeva anche la  concessione di  un sostanzioso  pacchetto di aiuti economici per il suo Paese, ma il presidente della Commissione UE, Josè Manuel Barroso, ha rifiutato il dialogo trilaterale tra Ucraina, Russia e Unione Europea ed ha chiesto a Yanukovich di impegnarsi direttamente a firmare un accordo. Nei mesi scorsi Mosca aveva concesso un bailout all’Ucraina: l’offerta della Russia comprendeva gas a buon mercato, finanziamenti per una quindicina di miliardi di dollari, rimozione di tutti i problemi sanitari riguardanti le merci da esportare in Russia. Se l’Ucraina avesse rifiutato, la Russia avrebbe preteso il pagamento dei debiti pregressi per le forniture di gas, oltre ad un ritocco del prezzo a 450 dollari. Putin aveva inoltre minacciato di revocare il proprio appoggio a Yanucovich in occasione delle presidenziali ucraine del 2015.

L’Europa, invece, offriva 500 milioni di euro di risparmi doganali, 186 milioni per portare a compimento le riforme e 610 milioni a riforme avvenute, ma l’adesione al Mercato Comune comportava il rischio che le merci europee inondassero l’Ucraina, penalizzando la sua bilancia commerciale.

Yanucovich,  per non pregiudicare un complesso sistema di relazioni politiche ed economiche che legano il Paese alla Russia, in primis in materia di forniture del gas, ha preferito l’offerta russa, nonostante l’Ucraina aspiri all’indipendenza energetica, che secondo i suoi piani avrebbe in grado di raggiungere solo nel 2020 (negli ultimi anni si sono verificate ben sei crisi del gas tra Ucraina e Russia).

Lo scenario in Ucraina è quindi pieno di variabili.

Negli Oblats (ripartizioni amministrative regionali) della parte occidentale dell’Ucraina, erano in corso occupazioni nelle sedi dei governatori, dove i partiti dell’opposizione hanno il maggior numero di voti. Nuove norme, approvate a gennaio dal Parlamento ucraino, limitavano sia il diritto a protestare che la libertà di stampa, e trasformavano in reato qualunque tentativo di dissentire dal governo, dando alla polizia la possibilità di usare violenza e inasprendo le pene contro chi esprimesse la propria opposizione: leggi che portano alla via dell’autoritarismo e in primis agevolano la discrezionalità di un potere incancrenito.

Yanucovich  è sostenuto da gruppi di estrema destra privi di organizzazione: i cosiddetti Tituski, giovani che sarebbero stati pagati dallo Stato per infiltrarsi nelle manifestazioni e compiere gesti violenti.

La rivolta vive tra le aspettative di una trattativa in corso e la spinta ad un cambiamento radicale. Oggi a Kiev stanno operando molte piccole organizzazioni di milizie semi-clandestine radicali, ognuna delle quali persegue il proprio obiettivo. A scatenare gli scontri erano taluni gruppi estremisti di destra, i cosiddetti Pravij Sector, un gruppo di militanti nazionalisti che si definiscono gioventù rivoluzionaria: non hanno un leader e sono pronti  a passare dalle parole ai fatti senza alcuna discussione o votazione. E’ un gruppo sorto in seno alle manifestazioni di Euromaidan: ha una pagina su Facebook ma non ha alcuna sede fisica.

Il movimento ha cercato di addestrare una milizia organizzata, ma non c’è riuscito per mancanza di disciplina. Non hanno una struttura democratica e non prendono decisioni con il voto.  Questi estremisti sono affiancati dagli ultrà del calcio, anche loro delusi dalla debolezza dell’opposizione.

Coinvolte negli scontri sono anche altre organizzazioni come il “Il Tridente”, “Patriota dell’Ucraina”, “Il Martello Bianco”, l’Assemblea Social-Nazionale, la Una-Unso, e altri. La maggior parte di queste è in pessimi rapporti con le forze dell’ordine; i loro membri sono stati coinvolti in omicidi e nella preparazione di atti terroristici. La più importante organizzazione nazionalista radicale ucraina è “Patriota dell’Ucraina”, cioè la parte militante del partito “Libertà”. Al tempo di Yuščenko, questa godeva del sostegno pubblico, ricevendo ottimi finanziamenti, e i suoi militanti venivano formati ufficialmente in diverse regioni dell’Ucraina, ed erano ben equipaggiati.

Il gruppo “Patriota dell’Ucraina” ha una vasta rete. La cosa più sorprendente è che il suo centro si trova nella parte orientale dell’Ucraina, nella città di Charkov, che è di lingua russa. Desta stupore il fatto che una organizzazione ucraina ultranazionalista sia composta principalmente di nazionalisti ucraini di lingua russa.

Il movimento Euromaidan, esercito insurrezionale ucraino, un gruppo semi-underground, è nato nel novembre 2013 e si compone dei rappresentanti di un numero imprecisato di organizzazioni più piccole che una volta erano unite nella cosiddetta Assemblea Social-Nazionale e sono considerate affini ai nazionalsocialisti, di cui espongono e indossano i simboli.

A Kiev stanno operando molte piccole organizzazioni di milizie semi-clandestine radicali, ognuna delle quali persegue il proprio obiettivo. Nessuno di questi gruppi ha un peso significativo e il coordinamento dei militanti avviene attraverso i social network russi. Spesso, dietro a molte di queste organizzazioni, ci sono uomini d’affari che hanno bisogno di proventi illegali: metodo molto popolare di arricchirsi in Ucraina. Costoro “affittano”, di volta in volta, “mercenari”, per le lotte di potere. Verso il paese vengono indirizzate ingenti quantità di denaro generalmente di provenienza estera che vanno ad alimentare i gruppi estremistici che hanno dichiarato guerra all’establishment.

Oggi, il Consiglio d’Europa ha approvato una risoluzione sull’Ucraina ma il suo contenuto è deludente: L’Assemblea ha deciso di non considerare la possibilità di sospendere il diritto di voto della delegazione ucraina, tuttavia potrebbe applicarlo nella sessione di Aprile, se il movimento di protesta su Maidan verrà sciolto con la forza.

La risoluzione, basata su un rapporto di Mailis Reps (Estonia, ALDE) e Marietta de Pourbaix-Lundin (Svezia, EPP/CD) invita la polizia e i manifestanti ad astenersi da qualunque forma di violenza o azioni che sono chiaramente rivolte a provocare reazioni violente nell’altra parte, e sottolinea che un utilizzo eccessivo e sproporzionato della forza da parte della polizia, e altre presunte violazioni dei diritti umani “devono essere pienamente e imparzialmente indagate, affrontate e risolte, e gli esecutori portati davanti alla giustizia”. L’Assemblea accoglie favorevolmente l’iniziativa del Segretario generale del Consiglio d’Europa di stabilire un gruppo di esperti indipendenti per indagare gli eventi violenti avvenuti durante le proteste Euromaidan (Newsroom Consiglio d’Europa).

La delegazione russa ha votato contro. La risoluzione è unilaterale e superficiale, ha dichiarato il rappresentante russo Slutskij. Un chiaro esempio di politica dei doppi standard.

Alexis Tsipras, il rischio calcolato

Alexis Tsipras

L’Europa è in una impasse.

Essa non è solo un effetto collaterale della crisi, ma è il risultato di un processo perverso che ha avuto come obiettivo la socializzazione delle perdite e la privatizzazione di tutto ciò che può generare profitti. I bail-outs, i piani di salvataggio che impongono “austerità” ai popoli che li subiscono – non si parla solo di PIIGS ma di tutti i Paesi facenti parte della zona euro –  sono in realtà piani di salvataggio delle banche creditrici.

“I leader europei devono abbandonare l’attuale strategia di austerità”, ha scritto recentemente Frank Hollenbeck, docente Finanza ed Economia presso l’Università Internazionale di Ginevra. Questo non è certo un giudizio idealista, tanto è vero che anche il mondo più scettico della finanza internazionale è arrivato a tale conclusione. Così, il nuovo governo tedesco di Larghe Intese si è potuto formare sulla base del presupposto che, senza una progressiva riduzione del debito e un aumento degli investimenti soprattutto nella periferia meridionale d’ Europa, stremata sia dal punto di vista economico che da quello sociale, non si riuscirà a modificare questa tragica situazione di crisi.

L’interventismo della Troika ( FMI, BCE, Commissione europea) con l’ imposizione dei Memorandum di austerità e di riforme strutturali in direzione di privatizzazioni in settori strategici, ha portato alla distruzione dei servizi pubblici e dei diritti dei lavoratori. Ed è sulle macerie dello Stato Sociale che cambiano gli scenari politici. L’ ascesa  del partito Syriza in Grecia, guidata da Alexis Tsipras, è dovuta alla sua  determinazione a lottare per una nuova strategia economica e sociale a livello europeo, rifiutando le politiche neoliberiste ma senza uscire dalla UE, né dall’euro.

Può essere che nelle Elezioni Europee di quest’anno vi sia un forte astensionismo con una contemporanea affermazione degli euroscettici, i quali auspicano  il ritorno alla sovranità nazionale e la reintroduzione delle monete nazionali. L’Europa, però, ormai esiste ed è irreversibile. Nel maggio scorso Alexis Tsipras, in una intervista  alla CNN, aveva detto che, a causa del memorandum e dell’austerità che impone, “i Greci stanno andando direttamente all’inferno”. Tsipras ha anche detto che il suo partito vuole mettere fine all’austerità tenendo la Grecia nell’eurozona e allacciando nuove alleanze per superare la crisi. “Faremo tutto quel che possiamo per muoverci in questa direzione, per trovare la soluzione alla crisi, che non è un problema solo greco, ma europeo”.

Oggi  constatato che  il piano di salvataggio della Grecia è fallito […] Bisogna fermare immediatamente l’austerità e convocare una conferenza europea sul debito, per la Grecia e gli altri paesi della periferia, come quella di Londra del 1953 in cui si ammise che il conto post bellico tedesco era troppo alto. Servirebbe una clausola sui rimborsi legati alla crescita: se il pil è positivo, paghiamo; sennò, no. Infine ci vorrebbe un «new european deal», un grande pacchetto di investimenti per la crescita – soprattutto nel mezzogiorno d’Europa – che finanzi la ripresa (La Stampa.it).

Tsipras ha affermato che vorrebbe trovare partner a questo fine tra i paesi del sud e del centro Europa. Con tale obiettivo, lo scorso 14 gennaio si è svolto a Roma l’incontro tra una delegazione del partito greco Syriza e i dirigenti nazionali del Movimento Federalista Europeo (MFE). La delegazione greca ha condiviso in pieno gli obiettivi fissati dall’ICE (Iniziativa dei Cittadini Europei, promossa dal MFE) nel New Deal 4 Europe – Per un Piano europeo straordinario per lo sviluppo sostenibile e l’occupazione, già presentato alla Commissione Europea. Il progetto prevede la costituzione di comitati promotori nazionali in otto paesi diversi dell’Unione europea, e Syriza  si è impegnata a considerarlo una delle proprie priorità politiche nella prossima campagna per le elezioni europee.

La delegazione italiana ha informato che sono in corso contatti anche con altri movimenti e forze politiche europee per allargare e dare forza alla coalizione per un New Deal 4 Europe. Anche il Partito della Sinistra Europea (SE) ha lanciato la candidatura di Tsipras, leader della Syriza, al Congresso che da poco si è tenuto a Madrid, auspicando che ciò contribuisca alla ricostruzione della sinistra. Oggi la parola “sinistra” è equivoca per molti: se è diventata una forza politica in ascesa in Grecia, in Italia non lo è più.

Tsipras,  che è stato raffigurato come un radicale estremista, è invece un freddo stratega che intende portare avanti con l’Europa un rischio calcolato, in particolare nei confronti di Angela Merkel, il cui governo di Grande coalizione nato dal patto con la Spd, è adagiato su una posizione mediana.  I socialdemocratici avrebbero potuto inserire punti di programma più forti, come quelli del sindacato DGB per un Piano Marshall per l’Europa. Invece  hanno confermato la loro contrarietà a qualsiasi europeizzazione del debito.

Parlando di Tsipras, bisogna far riferimento alla sua intelligenza di  politico e alla sua posizione politica che vuole un’ Europa  radicalmente cambiata: un’ Europa che sia un’unione, un’ Europa non imperiale, ma solidale e democratica. Un’ Europa “che cancelli il Fiscal Compact e modifichi i trattati di Maastricht e Lisbona”. Che riapra il processo costituente e lo rimetta nelle mani dei popoli.

Non  più metodo, ma contenuti […] Un’ Europa che abbia una Banca Centrale interamente pubblica, i cui soci siano le Banche centrali pubbliche dei Paesi membri […] Un’ Europa che svolga un ruolo autonomo e  sovrano nel contesto internazionale e sia una interlocutrice non più  più subalterna con gli USA e promotrice di una posizione strategica nei confronti della Russia (libreidee.it).

L’ Europa attuale, scrive Barbara Spinelli, è invece un equilibrio di potenze  basato sugli egoismi nazionali e sul dominio dei più forti sui più deboli.

Le forze della sinistra italiana nelle elezioni europee del 2009 non hanno eletto alcun rappresentante nel Parlamento perché non hanno raggiunto la percentuale minima richiesta (la legge elettorale italiana ha una soglia di sbarramento del 4%).

Nel corso della giornata del 14 Gennaio, la delegazione di Syriza, guidata da Nikos Pappas, persona molto vicina a Tsipras, ha incontrato personalità appartenenti alla galassia delle forze politiche della sinistra italiana: certamente SEL e Fausto Bertinotti. L’obiettivo esplicito era tastare il terreno onde valutare la praticabilità di una lista italiana che appoggiasse la candidatura di Tsipras alla Commissione Europea.

Il partito di SEL, che da un lato sembra voler costruire una sinistra unita, plurale ed euro-federalista, forse si affiancherà nuovamente all’Alleanza progressista dei Socialisti e dei Democratici , dove sono rappresentati anche la SPD tedesca, il PD e il PS francese, i laburisti inglesi, piuttosto che confluire nella Sinistra Europea unita con la candidatura di Tsipras.

In Italia è stata proposta una Lista civica sovranazionale e transnazionale di adesione alla canditatuta di Alexis Tsipras. La lista autonoma è promossa da personalità della cultura (Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Luciano Gallino, Marco Revelli,  Guido Viale ) dell’arte e della scienza e da esponenti di comitati, associazioni, movimenti e organismi della società civile che ne condividono gli obiettivi e i contenuti. Non verrà contrattata con alcun partito, per segnare una netta discontinuità con il passato e per marcare  diversamente la proposta: nella volontà dei proponenti, l’adesione a questa lista elettorale non dovrebbe essere confusa con l’apparentamento ad alcuno dei partiti esistenti o di nuova formazione.

Artico, la nuova frontiera dell’Energia

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[post aggiornato]

Nel dicembre scorso, la nave russa Akademik Shokalskiy è rimasta incagliata nei ghiacci dell’Antartide. Trasportava turisti e ricercatori scientifici che sono stati salvati da una rompighiaccio australiana.

Non deve stupire la presenza di ricercatori in questa zona remota e poco ospitale. Sono infatti numerosi i Paesi impegnati ad approfondire le modalità di sfruttamento delle risorse energetiche che si trovano sia sotto l’Antartide che sotto l’oOceano Artico, nonché gli effetti che tali attività potrebbero avere sull’ambiente. In questo post si prende in esame la situazione geopolitica dell’Artico.

Otto Stati (Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia, Russia, Stati Uniti e Svezia) hanno istituito il Consiglio Artico per collaborare a livello scientifico, diplomatico e militare per la difesa di un territorio dove il rapido scioglimento dei ghiacci consentirà di accedere ad una immensa quantità di risorse ancora intatte. Si parla di circa 90 miliardi di barili di petrolio e 44 miliardi di gas naturale liquido, distribuiti in 25 aree geologicamente esplorabili, di cui circa l’84% in mare aperto.

Nei prossimi 120 anni l’Artico diventerà l’area più contesa da tutti gli Stati per la sua ricchezza di energia e, mentre l’obiettivo dichiarato è quello della cooperazione per la salvaguardia dell’Artico, grandi potenze, come gli USA, hanno già dichiarato di voler prevenire e dissuadere i conflitti nella regione e si preparano a rispondere ad ogni eventualità. La Danimarca, per parte sua, ha fondato recentemente il Comando della Difesa per il Polo Nord a Nuuk, capitale della Groenlandia. D’altro canto, Cina, Giappone, Corea del Sud e Unione Europea hanno fatto di tutto per essere ammessi nel Consiglio, tanto che, dal maggio 2013 sono stati compresi tra i membri osservatori permanenti.

Tra gli Stati che si affacciano sull’Artico, solo il Regno Unito non è uno stato membro.

Il Consiglio Artico è ormai un’istituzione di rilievo politico, ma non ha poteri decisionali significativi. Sotto la sua egida, peraltro, sono stati sottoscritti numerosi trattati giuridicamente rilevanti.

Anche le compagnie petrolifere sono in gara, dall’Alaska al Chukotka, per non perdere l’occasione: Statoil, Exxon mobil, Eni, Total, Shell e le russe Gazprom e Rosneft sono in cerca di alleati, perché esplorare e sfruttare tutte le ricchezze dell’Artico non è facile.

Per la Russia, l’Artide rappresenta il secondo filone operativo della propria politica di sviluppo energetico (il primo è il bacino mediterraneo,verso il quale ha progettato di far confluire i gasdotti dal Caucaso). Per la messa in funzione di una piattaforma nell’Artico, l’incarico è stato affidato a Gazprom, la quale ha cominciato ad estrarre petrolio dal giacimento di Prirazlamnoge. Le riserve di petrolio del giacimento raggiungono i 72 milioni di tonnellate, mentre il livello di produzione previsto dopo il 2020 è di circa 6 milioni di tonnellate.

Tutti gli Stati che si affacciano sul mare artico avrebbero interesse ad estendere la loro sovranità oltre la linea costiera. Per disciplinare la materia, la convenzione di Montego Bay ha stabilito che il tratto di mare che si estende fino a 200 miglia sulla piattaforma continentale costituisce la cosiddetta zona economica esclusiva (ZEE) dei Paesi che si affacciano su un determinato braccio di mare. In essa il paese costiero detiene la potestà esclusiva sulle risorse marine e minerarie, nonché i relativi diritti di sfruttamento.

Nel 2001 la Russia aveva tentato un primo approccio all’ONU reclamando una estensione del proprio territorio artico, ma la richiesta era stata respinta. In quest’ultimo periodo, ha sollecitato nuovamente le Nazioni Unite affinché riconoscano i nuovi confini della piattaforma artica, fatto che accrescerebbe il suo territorio di oltre di 1,2 milioni di kmq. La presenza militare russa nell’Artico, da un lato, è una condizione che permette a Putin di reclamare per la Federazione Russa il controllo della zona economica esclusiva, dall’altro è una risposta alla minaccia rappresentata dai sottomarini americani, armati di missili balistici nucleari in grado di colpire il territorio artico russo in pochi minuti. Per questo motivo Putin dà la priorità al rafforzamento delle forze di difesa che vigilano sull’Oceano Artico. E’ stata rinforzata la difesa aerea e sono state ammodernate basi avanzate sulle isole del mare artico (isole nuova Siberia).

Considerato il progressivo scioglimento dei ghiacci – anche se negli ultimi 3 anni c’è stato un leggero segnale di ripresa nella crescita del pack, dopo il minimo assoluto raggiunto nel settembre 2007 – l’Artico interessa anche per il “passaggio a nord-est” (Northern Sea Route): la nuova rotta, che mette in comunicazione Atlantico settentrionale e Pacifico attraverso il mare Glaciale Artico. La Cina, per esempio, potrebbe risparmiare migliaia di miglia marine utilizzando il passaggio a nord-est per il trasporto marittimo dal nord Europa, e Pechino vorrebbe iniziare al più presto un servizio commerciale su questa rotta. L’Artico non interessa alla Cina solo per le nuove rotte, ma ovviamente anche per il petrolio. A tal fine ha sottoscritto un importante accordo di cooperazione energetica con la Russia per consentire al China National Petroleum Corp di effettuare esplorazioni offshore nell’Artico, con la eventuale collaborazione di Exxon, Statoil ed Eni.

Vista così, lo scioglimento dei ghiacci del Mar Artico sarebbe da intendersi come una opportunità per questi governi al punto che i movimenti politici ambientalisti – i quali vedono questa ipotesi con grande preoccupazione e sostengono la necessità di mutare radicalmente il paradigma energetico, dal petrolio alle energie rinnovabili – sono trattati con l’arma della repressione. Contrari allo sfruttamento energetico, dalla pesca intensiva del Mar Artico, Greenpeace ha lanciato una petizione per la salvaguardia e la creazione di un ‘Santuario Globale’ (http://www.savethearctic.org/). Gli Arctic 30 si sono resi responsabili di un attacco alla piattaforma della Gazprom. Il loro atto dimostrativo è stato inteso dalle autorità russe come ‘teppismo’. Gli attivisti sono così stati denunciati, arrestati e quindi amnistiati (nell’ambito di una generale liberazione di ‘nemici’ politici di Putin in vista delle Olimpiadi di Sochii. Il teppismo era in realtà protesta pacifica. “Proprio come negli scorsi anni”, scrivono sul sito degli Arctic 30, “la determinazione e il coraggio necessari per avere un futuro migliore per i nostri figli richiedono un sacrificio personale, un sacrificio che gli Arctic 30 stanno ora facendo. Nell’interesse di tutti noi” (www.greenpeace.org).

Ma almeno per i prossimi 100 anni, il petrolio continuerà ad essere la materia prima più ricercata, e non solo come fonte energetica ma anche come strumento per agire relazioni di potere. Il suo controllo è nelle mani di pochi governi, i quali per giunta considerano pace, libertà e democrazia come piccolezze da sacrificare agli interessi economici dei poteri emergenti. In questo contesto, l’Artide, come lo stretto di Hormuz, il Mar cinese meridionale con l’arcipelago delle isole Paracelso e Spratly, le isole Falkland, la zona del mar Caspio, le aree mediorientali ed europee attraversate dai gasdotti, saranno le zone più a rischio di conflitto.

Iran, il compromesso

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L’intesa di Ginevra da una parte frena, in via temporanea (6 mesi), il programma nucleare iraniano, sospettato di finalità militari, e dall’altra consente a Teheran di ottenere alcuni allentamenti alle sanzioni che avrebbero potuto avere gravissime ripercussioni sulla sua economia.
In modo specifico l’Iran si è impegnato a interrompere l’arricchimento dell’uranio sopra il 5% e a non aggiungere altre centrifughe; Teheran non aumenterà le sue riserve di uranio arricchito e non saranno costruiti impianti in grado di estrarre plutonio dalle scorie di combustibile. Sarà interrotta la costruzione del reattore ad acqua pesante di Arak, potenziale generatore di plutonio utilizzabile a scopi militari.
Teheran, inoltre, permetterà all’Aliea (l’Agenzia internazionale dell’ energia atomica) un “approccio strutturato” ai suoi siti di ricerca nucleare per i dovuti controlli. L’Iran avrà cosi a disposizione i 4,2 miliardi di dollari, provenienti dalla vendita del petrolio, bloccati a causa delle sanzioni, attualmente depositati in banche asiatiche. Ulteriori misure sono state adottate nei confronti del commercio dell’oro e dei metalli preziosi, nel settore delle auto e delle esportazioni iraniane di prodotti petrolchimici.

Il patto raggiunto a Ginevra rappresenta un grande risultato dopo trenta anni di stallo e quattro giorni di serrati negoziati. L’Onu, a luglio, aveva aggiunto ulteriori sanzioni all’Iran, proprio in relazione al commercio del petrolio, anche in risposta alle voci che si erano sparse alla fine dello scorso anno sulla possibile chiusura, da parte dell’Iran, dello stretto di Hormuz.

La società iraniana non è più governata da anziani teocrati, ma dai giovani.  Nel 1978, subito prima della rivoluzione islamica, l’Iran  aveva 38 milioni di abitanti, oggi ne ha il doppio, e i giovani, che sono la maggioranza della popolazione, non hanno mai condiviso l’ideologia dell’islam politico e ritengono che il presidente Hassan Ruhani sia in grado di intavolare un negoziato per far revocare le sanzioni internazionali contro l’Iran.

 Quanto alle esigenze di difesa, Teheran ha la sensazione di essere oppressa da potenze ostili: è circondata dalla regione nucleare pakistana e dai taleban afgani, dalle dinastie sunnite wahabite dell’Eurasia saudita e degli stati circostanti, dalle navi da guerra statunitensi sulla costa meridionale e dagli instabili paesi nati dopo il crollo dell’Unione Sovietica a nord.

Poco più a ovest c’è Israele. Per questo molti iraniani anche giovani, considerano il programma nucleare, con tanto di possibilità di costruire la bomba atomica, come garanzia contro le invasioni. Negli ultimi 1500 anni i persiani sono stati invasi a più riprese dagli arabi, dai mongoli fino ai sovietici, ai britannici, all’Iraq di Saddam Hussein. Il programma nucleare era considerato come un simbolo.

Se non ci fosse l’embargo, l’Iran sarebbe il primo paese produttore mondiale di petrolio e il secondo produttore di gas naturale. Siamo di fronte a due questioni aventi la stessa matrice: una puramente energetica e l’altra geopolitica. Il petrolio è lo strumento attraverso il quale l’Iran esercita il proprio leverage politico e se nel lungo periodo venissero adottate soluzioni alternative, cioè l’approvvigionamento di queste risorse fosse fornito da altri paesi, le ripercussioni potrebbero essere gravi.

Gli USA si erano già guadagnati il dissenso da parte d’Israele quando hanno siglato un patto con Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar ,Kuwait, Brunei, promettendo loro la nascita del “Grande Medio Oriente” non sottoposto al controllo della Lega Araba ma subordinato alla vigilanza degli stessi Paesi con i quali hanno concluso l’intesa, appartenenti tutti, più o meno, alla stessa famiglia, sia in modo diretto che indiretto.
La Francia, che in un primo momento, durante i vari vertici tenutisi a Ginevra, aveva preso una posizione di negatività nei confronti dell’accordo, si è ravveduta e durante il vertice di pochi giorni fa ha raggiunto un’intesa sul programma. La Francia è Il primo committente iraniano, a sua volta fornisce Silos per centrali nucleari e ottiene dall’Iran dei vantaggi economici consistenti in primis dalla riduzione sul prezzo di acquisto di petrolio e gas. Viene poi la Germania, che ha commesse con l’Iran per 75 miliardi di euro.

Un attacco nei confronti dell’Iran avrebbe aperto scenari imprevedibili per la stabilità e la sicurezza mondiale. Il paese, infatti, oltre ad avere l’appoggio di Mosca, è membro osservatore della SCO (Shanghai Cooperation Organisation) che unisce in un patto di reciproco sostegno economico e militare, Russia e Cina.

Secondo quanto rivelato da alcuni organi di stampa britannici,  infatti, i due governi di Israele e Arabia Saudita avrebbero stretto un’intesa per impedire che l’Iran si doti della capacità nucleare. Già il 27 giugno scorso il quotidiano “The Sunday Times” aveva parlato dell’esistenza di una base aerea saudita concessa all’Aeronautica militare israeliana. A rompere gli indugi tra israeliani e sauditi avrebbe contribuito soprattutto il fallimento della politica americana in Medio Oriente oramai avviata verso l’appeasement nei confronti dell’Iran. Dal canto suo il governo saudita avrebbe concesso il proprio spazio aereo ai caccia-bombardieri di Israele in caso di attacco sulle centrali nucleari iraniane. Secondo Israele infatti per l’Iran le trattative sul nucleare sarebbero solo un mezzo per guadagnare tempo ed arrivare alla costruzione della bomba nucleare. D’altronde, nessuno Stato potrebbe mai affrontare in modo soddisfacente i danni conseguenti allo scoppio di una bomba nucleare, ciononostante gli armamenti continuano ad essere una voce sostenuta dei loro bilanci.

L’azione invasiva di Nsa contro il Brasile: il caso Petrobras

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Il Brasile è importante snodo di comunicazioni per tutta l’America latina ed è stato al centro di una vasta rete di intercettazioni illecite relative a  informazioni industriali e politiche riservate che comprendeva tutta la fascia del Sudamerica. Gli  Usa e i suoi alleati avrebbero usato anche le sedi diplomatiche delle capitali asiatiche come centro di raccolta dati, secondo un programma, denominato”Stateroom,” che coinvolgerebbe 80 tra ambasciate e consolati in tutto il mondo (Der Spiegel e Sydney Morning Herald). La Nsa ha spiato anche  la vita privata della presidente Dilma Rousseff e, in particolare, l’andamento economico dell’impresa petrolifera di stato, Petrobras, che recentemente ha annunciato un piano di investimenti di 237 miliardi di dollari per progetti in acque profonde.

La risposta brasiliana alla violazione della privacy ad opera degli Stati Uniti è avvenuta su più livelli. Dal punto di vista della sicurezza informatica, il governo brasiliano ha già promosso per il 2014 una conferenza mondiale che avrà come tema principale l’identificazione di nuove pratiche antispionaggio. Nel contempo la Presidente ha annullato l’incontro che doveva tenere negli Stati Uniti con Obama e i negoziati per l’acquisto di aerei multi-funzioni, pari a 4 miliardi di dollari.

E ancora, la presidenta ha fatto rilevare che sono state intercettate informazioni industriali riservatissime, sollecitando le Nazioni Unite a mettere a punto un protocollo che regoli la condotta degli stati membri per quanto riguarda internet e le tecnologie informatiche. Il Brasile chiede che,in tempi brevi, sia attivato un piano per la memorizzazione locale dei dati per internet attraverso i grandi social network e Google, per cercare di  mantenere le informazioni industriali tra gli utenti brasiliani senza l’intromissione della NSA, contrastando così  lo spionaggio USA .

Germania e Brasile, grazie all’appoggio di altri 19 paesi, hanno dato vita a una bozza di risoluzione dell’Assemblea Onu in modo che stabilisca maggiori diritti alla privacy su Internet.  Il Brasile è una potenza energetica politicamente sospetta agli occhi delle élite politiche di Washington e l’aumento del profilo energetico di Petrobras ha destabilizzato le compagnie petrolifere statunitensi. Già nel 2007, per esempio, le imprese statunitensi, come la Exxon-Mobil, si erano lamentate del Brasile per il “clima inadeguato agli investimenti esteri” e della ”dominanza Petrobras”.

Penetrando nelle reti informatiche di Petrobras, la NSA potrebbe aver acquisito preziose informazioni circa la tecnologia offshore che potrebbe drasticamente trasformare le fortune economiche del paese.

Attualmente lo Stato brasiliano sta concludendo anche un accordo con la Russia che prevede la creazione di imprese miste specializzate nella fabbricazione di grandi turbine per l’estrazione del petrolio e del gas. La multinazionale russa Gazprom si assocerebbe con la brasiliana Petrobras per lo sfruttamento del giacimento gasifero di Santo Basin. Attualmente l’holding Gazprom è già operativa in Venezuela, associata alla statale PDVSA nell’imponente riserva della Fascia petrolifera dell’Orinoco, nella fase preliminare del GasodottoTrans-Americano Venezuela-Brasile.

È evidente che la misura adottata dal governo brasiliano è legata allo sviluppo e al potenziamento del settore petrolifero brasiliano in relazione all’alleanza dei paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, China, Sud Africa) e ad un apertura agli scambi con il mercato energetico occidentale. In termini maggioritari, si può teorizzare che i paesi del BRICS, anche in seguito all’alleanza, continueranno a detenere la maggioranza nella gestione del campo Libra (Petrobras e le due imprese cinesi insieme controllerebbero il 60% del giacimento Libra).

In Venezuela, già Hugo Chàvez aveva previsto la realizzazione di un gasdotto Venezuela-Brasile per soddisfare la domanda latino-americana attraverso un accordo tra la multinazionale russa Gazprom e la venezuelana PDVSA.

Inevitabilmente, la sorveglianza informatica della NSA si intreccia con la trama degli interessi commerciali degli Stati Uniti. La tecnologia di spionaggio massivo viene strumentalmente giustificata dalla minaccia terroristica. I politici sono convinti di potere fermare la mercificazione delle informazioni ma è pia illusione. La sorveglianza di NSA e PRISM sono illecitamente attivate e, fino a quando non avremo spiegazione esauriente dei motivi per cui un dato non dovrebbe essere messo sul mercato, non potremo illuderci di proteggerlo poiché, anche con severe regolamentazioni, le agenzie di intelligence si limiterebbero a comperare sul mercato quello che oggi ottengono segretamente ed in maniera illecita.

Questa  rete spionistica che sta coprendo la Terra fa riferimento ad una sorta progetto di controllo assoluto del mondo da parte di élite ben identificabili, alla creazione di una dittatura globale, de facto se non de jure. Difficilmente però il raffreddamento dei rapporti tra i due giganti del nord e del sud America avrà come epilogo la sospensione delle relazioni tra i due paesi.Tanto più che il Brasile fa la sua parte in termini di spionaggio. I diplomatici di Russia, Iran e Iraq sono stati sotto il controllo dell’Agenzia brasiliana di intelligence (Abin), i servizi segreti del Paese sudamericano, durante il 2003 e il 2004. L’operazione di spionaggio si chiamava “Scrivania” e includeva anche alcune sale affittate dall’ambasciata americana all’ultimo piano di un centro commerciale nel quartiere Mansôes Dom Bosco in Brasile.

Il sospetto di Abin, che ha portato all’attività di spionaggio, è che all’interno delle stanze gli americani avessero piazzato strumenti di comunicazione e computer. Dieci anni dopo quelle sale sono ancora chiuse con le inferriate, le uniche protette nel palazzo.

L’economia è più forte di qualsiasi attività di spionaggio ed è facile dimostrarlo con l’attività spionistica messa in atto proprio in Brasile dall’impresa mineraria Vale ai danni degli attivisti delle organizzazioni sociali. I contractors che lavoravano per l’impresa mineraria avevano messo a punto un vero e proprio archivio dei “sovversivi”: ciascuno aveva un proprio dossier personale, a partire dai leader del Movimento Sem Terra e del Movimento do Atingidos por Barragens.

L’impresa mineraria teneva sotto controllo anche i sindacalisti.
Tutto questo per dire che la protesta del Brasile in sede internazionale contro gli Stati Uniti è sacrosanta, e lo spionaggio Usa è un fatto gravissimo, ma la governance brasiliana  dovrebbe occuparsi anche dello spionaggio interno ai danni dei movimenti sociali: nel paese verde-oro, invece, l’infiltrazione e il monitoraggio delle organizzazioni popolari non sono considerati illegali e finora l’unica voce levatasi per denunciare la Vale è stata quella dei parlamentari  del Psol (PartidoSocialismo e Libertade), che hanno chiesto la costituzione di una commissione parlamentare sulle attività della Vale.

Occorrerebbe un approccio più equilibrato tra sicurezza e privacy. Anche per il Brasile.

Merkel for President

angela-merkel

Angela Merkel è la persona giusta per guidare la Germania e l’Europa, politicamente pochi possono competere con lei (The Economist).

A tre settimane dal voto, Angela Merkel non è ancora in grado di formare il nuovo esecutivo. Nelle ultime ore ha cercato di sondare l’orientamento del Grunen (i Verdi) mentre è previsto un incontro fra la rieletta Cancelliera e il presidente della SPD, Sigmar Gabriel. Gabriel ha dichiarato che la Grosse Koalition CDU-SPD si farà solo se il nuovo governo metterà al primo posto la stabilizzazione dell’Europa senza appesantire sempre i contribuenti, la riorganizzazione del mercato del lavoro con buoni salari e la garanzia di una pensione decente dopo decenni di lavoro; il rilancio degli investimenti per infrastrutture e istruzione. Non vogliamo andare al governo solo per ottenere qualche ministero, ha detto.

La Cancelliera, durante la campagna elettorale, ha parlato poco dell’Unione europea. In verità ha mostrato due facce: una, interna, verso i tedeschi, accomodante e più attenta alle politiche sociali; una esterna, verso i Paesi dell’Eurozona, molto liberista, in cui ha preferito puntare a politiche di austerità e rigore senza dare spazio ad un piano di sviluppo europeo per rilanciare la sviluppo e l’occupazione. Merkel ha parlato poco di Europa, mentre i partner europei erano attentissimi al dibattito in Germania ed in ansia per i risultati elettorali tedeschi, pensando ad un risvolto anche nei loro confronti. Molti cittadini europei avrebbero voluto votare in Germania, come hanno evidenziato alcune iniziative come “Egality Now” and “I vote in Germany” volte a far sentire la voce dei cittadini europei sulle elezioni tedesche.

Ma Merkel ha dato molta importanza soprattutto al fattore “fiducia”: il suo messaggio è stato che la Germania è un paese rigoglioso dove la disoccupazione è diminuita e la crisi dell’euro è stata controllata.

Molti parlano della Merkel come di una donna politica tenace, superiore a Obama, a Cameron e allo stesso Hollande. Potrebbe ora sollecitare riforme che portino l’economia europea alla competitività ma, nonostante ciò, esiste un rovescio della medaglia: la Germania, sebbene la sua economia sia forte, ha diverse fragilità interne, fra cui la limitata crescita della popolazione, l’eccessivo affidamento sulle esportazioni, la bassa crescita della produttività, i troppi lavori sottopagati.

L’occupazione , dopo una serie di regolamenti iniziati nel 2002 e favoriti da alcune piccole riforme (Agenda 2010), ha raggiunto un buon livello con un apparente aumento dei posti di lavoro. In realtà i veri contratti di lavoro non arrivano al 50%.

I “mini jobbers”, cioè coloro che devono accontentarsi dei contratti da 450 euro al mese, sono in forte aumento. Prevale il lavoro a tempo determinato con salari minimi, tanto che viene favorito il lavoro in nero. Anche internamente alla Germania i servizi devono essere più competitivi, la formazione ha bisogno di più risposte, le infrastrutture e la ricerca hanno bisogno di più investimenti. Anche i prezzi dell’energia devono essere tagliati e il settore pubblico diventare più produttivo.

Per quel che riguarda il capitolo Europa, la Merkel deve comunque impegnarsi a rendere più forte l’intera Unione europea, a partire dall’unione fiscale.

La cancelliera è la sola leader in Europa ad essere rimasta al potere dopo la crisi economico –finanziaria iniziata nel 2008 e che ha portato alla stagnazione di tante economie europee: Spagna, Francia, Portogallo, Italia e Grecia. Ma il rigore nei confronti di questi paesi Paesi non ha portato ad un risanamento del bilancio e tanto meno allo sviluppo economico.

Per citare il caso della Grecia, proprio in questi giorni i giornali riportano i verbali della drammatica riunione del 9 maggio 2010 in cui il Fondo Monetario internazionale (FMI) ha dato via libera al primo piano di aiuti per il Paese.

Quei verbali, pubblicati dal Wall Street journal, contenuti in documenti classificati come riservatissimi e segreti, parlano chiaro: più di 40 paesi, tutti non europei e pari al 40% del board, erano contrari al progetto messo sul tavolo dai vertici del FMI. Il motivo? Era “ad altissimo rischio”, come ha messo a verbale il rappresentante brasiliano, perché “concepito solo per salvare i creditori, nella gran parte banche del Vecchio continente e non la Grecia” (Investire oggi).

In realtà, basta guardare i numeri della recessione, ancora in corso in taluni paesi del sud Europa, per capire che la vittoria della Merkel non è affatto un buon segnale sia per l’ Eurozona, che tanto spera in nuove riforme che rilancino la competitività, sia per il sistema Italia che dovrà, secondo la Merkel, promuovere misure strutturali per la crescita, ridurre le tasse e la disoccupazione.

La Merkel dà priorità alle politiche di austerità in primis nei confronti dei paesi UE, giustificando l’ insofferenza alle riforme imposte a questi paesi: queste politiche, invece di portare ad una reale diminuzione del debito pubblico, stanno portando ad una vera stagnazione economica.

La Germania dimentica di essere stata il “debitore” più inadempiente del XX secolo. La Germania di Weimar aveva grossi debiti con gli USA e, dopo la fine della 2° guerra mondiale , non ha pagato quasi nulla per restituire ai Paesi Europei (1940-1944) le risorse economiche che la Germania nazista aveva prelevato. La Grecia intende presentare un conto da 220 miliardi di euro (Il Sole 24 Ore).

Neppure bisogna tacere il fatto che il salvataggio di importanti banche interne ha fatto aumentare considerevolmente il debito pubblico tedesco, che risulta essere oggi il terzo debito lordo più alto al mondo.

Anche l’asimmetria nel campo occupazionale tra i vari Paesi dell’Unione, specie quelli del sud Europa, Grecia, Portogallo, Spagna e Cipro, è una delle cause dell’attuale impasse politico europeo: i poteri finanziari tedeschi, falchi dell’austerità, hanno esteso la depressione dell’occupazione e dei redditi soprattutto nei Paesi dell’Europa meridionale, creando enormi squilibri tra Paesi della zona euro.

Un “falco” tedesco è certamente il ministro all’economia,  Wolfgang Schäuble. La politica economica europea che ha sposato impone solo rigore e, sul lato degli investimenti, il nulla. Così la struttura economica europea ne ha risentito. Ora si spera che, col semestre di presidenza italiano nel 2014, si ponga l’accento più sugli investimenti che non sul rigore. La vittoria della Merkel potrebbe significare la vittoria della linea di rigore duro ma ciò sarà più difficile con la presidenza italiana.

Gli italiani, anche i moderati come Letta, sanno cogliere gli aspetti profondi della politica europea e non possono non comprendere che la costruzione europea è in uno stallo proprio per il fatto che alcuni paesi sono sull’orlo del disastro. Bisogna rilanciare l’Europa. Il nuovo governo tedesco, basato sul compromesso tra CDU-SPD saprà porvi rimedio?

I Turchi, gruppo etnico molto consistente i Germania, terranno sotto pressione la Merkel, avendo votato in maggioranza SPD, e potranno influire sull’atteggiamento tedesco nei confronti della Turchia, quale sempiterno candidato membro dell’Unione Europea. La riforma del sistema finanziario e quella della politica monetaria e fiscale sono indispensabili per dare il via ad un piano di investimenti pubblici e privati. La “dottrina” dell’austerità espansiva ha accentuato la crisi, provocando un tracollo dei redditi , anziché favorire la fiducia dei mercati e l’espansione della crescita, anziché portare ad un – per ora solo accennato – nascente dinamismo dei paesi della UE, ha accentuato la crisi e reso più opaca la situazione attuale. La riduzione dei redditi ha innescato ulteriori difficoltà nel rimborso dei debiti, sia pubblici che privati e di ciò è consapevole lo stesso Fondo monetario internazionale. Ma quali strumenti potranno essere utilizzati?

Merkel è contraria agli Eurobond, per i quali la Germania dovrebbe offrire le maggiori garanzie, avendo il miglior bilancio nell’Eurozona; viceversa, sostiene la necessità di “riforme strutturali” in tutti i Paesi della UE. Tali riforme dovrebbero ridurre costi e prezzi e aumentare la competitività e quindi le esportazioni, ma una caduta dei prezzi e dei salari con conseguente crollo dei redditi porta con sé il rischio concreto di nuove crisi bancarie e la “desertificazione” produttiva di intere regioni europee. Merkel dovrà cedere su qualche punto per far sì che la situazione dell’UE non giunga al collasso. La sua politica è in grado di lavorare molto bene sui compromessi e parte da una posizione di forza rispetto ai partner europei . Hollande, Letta – per non parlare di spagnoli e greci – non hanno il suo consenso. Ma hanno un disperato bisogno che la Merkel lanci a loro un ancora di salvezza. Lei darà questo aiuto ma soprattutto per i suoi fini strategici. Per molti anni gli stati dell’Eurozona hanno goduto di benefici del welfare state senza affrontare il tema della sostenibilità dei costi nel tempo. Spetta a tutti i Paesi lavorare con tenacia e rigore affinché l’Europa mantenga, anzi rafforzi il suo ruolo politico ed economico nell’attuale sempre più vasto e complesso panorama mondiale: l’Unione Europea ha ancora molta strada da fare e ha bisogno dell’impegno e della collaborazione di tutti gli Stati perché si rafforzi in termini di ‘democrazia delle decisioni’ e di rispetto delle diversità e della storia di ciascuno. Non deve prevalere un paese sugli altri, né deve essere ascoltata solo la voce della “finanza”. Diritti e doveri degli Stati e dei singoli cittadini sono l’obiettivo da difendere e su cui misurare i successi dell’Unione.

Siria, futuro plurale

Siria, futuro plurale – di Vanna Pisa

Il labirinto siriano è formato da numerosi percorsi che si intrecciano nello spazio e nel tempo. Questioni religiose, geopolitiche, economiche, sociali e culturali.
Come sappiamo USA e Russia stanno spostando ingenti forze militari nello scacchiere siriano: Assad per certi versi è un pretesto, lo scontro è mosso anche da potenti fattori economici.
Da una parte Russia e Iran, ambedue sponsor del regime di Assad. Nelle alleanze che coinvolgono gli attori del medio Oriente il rapporto tra SIRIA e IRAN rimane forte, hanno in comune l’interesse a depotenziare l’influenza delle monarchie del Golfo e dell’asse arabo – sunnita formato da Giordania, Egitto, Arabia Saudita.
Dall’altra gli Usa, che devono sostenere il primato del dollaro. Secondo questo dogma, le materie prime non devono essere commerciate in valute diverse ed è per questo che gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse a mantenere la forza in questo senso e ad evitare che i commerci diventino sempre più indipendenti dal signoraggio del dollaro.
Le petromonarchie, dopo le cosiddette “primavere arabe”, sono assai preoccupate: la possibilità, seppur remota, di una democratizzazione dei loro paesi le sconcerta e mette in pericolo il monopolio da loro esercitato sulle fonti energetiche.
Non è il caso di fornire per l’ ennesima volta l’elenco delle ragioni della crisi siriana. In questo periodo sulla carta stampata, in rete, nelle televisioni è possibile trovare innumerevoli liste che dettagliatamente, in maniera più o meno approfondita, danno informazioni in proposito. Quello che però assai spesso manca è la profondità temporale, intendendo con ciò quello che lo storico francese F. Braudel chiamava “la lunga durata “: vanno esclusi, è chiaro, gli interventi di parte, in malafede o scritti per autocompiacimento.
Quello di cui non si vuole tenere conto nell’analisi condotta nei mass-media mainstream sulla crisi siriana sono dunque i fattori strutturali legati a durate temporali di lungo periodo. Le battaglie, i re e le imprese certo contano e per noi, la cui vita comunque passa in un soffio, sono decisivi, ma, considerati per sé stessi gli avvenimenti che vorticosamente si susseguono, rischiano di accecarci e di produrre un rumore bianco nel quale nessuna linea melodica è più distinguibile.
Che ci sia o meno un’intervento armato non è certo cosa senza importanza. Lo vediamo in questi giorni di frenetica attività diplomatica, l’abile proposta russa di consegnare le armi chimiche siriane a una terza parte neutrale , il solito ONU tanto per capirci. Ma non sarà un percorso facile .
Il direttore generale dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, l’ambasciatore Ahmet Üzümcü, ha accolto come significativo l’accordo sulle armi chimiche in Siria, annunciato a seguito di colloqui a Ginevra tra il Ministro degli Esteri della Russia, Sergey V. Lavrov , e il Segretario di Stato John Kerry.
A seguito saranno adottate le misure necessarie per attuare un rapido programma per verificare la distruzione completa delle scorte di armi chimiche della Siria, impianti di produzione e altre funzionalità importanti. Della Opwc non fanno parte altri sei Paesi oltre la Siria: Israele, Birmania, Angola, Egitto, Corea del Nord, Sud Sudan (tratto da Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons).
La proposta russa è rafforzata, poi, dall’opinione avversa alla guerra della maggioranza dei cittadini dei paesi che dovrebbero intervenire per sanzionare Assad. Ed è una cosa che conta in primis per la popolazione che, già massacrata e martoriata da entrambe le parti in lotta nella guerra civile siriana, vedrebbe aumentare le sue spaventose sofferenze. E’ utile ricordare un fatto: la resistenza siriana è quanto di più frammentato si possa immaginare.
Se per prendere una scorciatoia vogliamo suddividerla in democratica e jihadista, bisogna aver chiaro che tali termini forniscono solo delle etichette assai approssimative, comunque qualche barlume lo danno, si pensi all’appello diffuso in questi giorni da Al-Zawahiri, il capo di Al-Qaeda, alle formazioni jihadiste di non stringere assolutamente alleanze con le formazioni “miscredenti”.
Chi andrebbero a favorire allora gli USA e i suoi partner? Altri Stati stanno facendo giochi non lineari. Viene in evidenza il ruolo francese e tedesco. La Germania è in “lotta” con la Francia per la supremazia in Europa, Parigi e Berlino concorrono per diventare perno dell’UE. Sono inoltre significative le immagini apparse nei social network di soldati americani che espongono cartelli nei quali affermano di non voler combattere per far vincere Al-Qaeda. Non possiamo poi dimenticare che l’ ultimo intervento in ordine di tempo delle potenze occidentali, in Libia, si sta rivelando un vero e proprio disastro, il paese è in preda all’anarchia. Centinaia di formazioni armate basate sulle più svariare motivazioni clanite, tribali, religiose, cittadine, si combattono ogni giorno alle volte per questioni di mera sopravvivenza.
Un potere centrale ed unitario, uno Stato, non si scorge all’orizzonte.
Che dire d’altronde dei risultati ottenuti in Iraq e Afghanistan?
E perché gli Stati che giustamente prendono posizione contro un dittatore qual è, senza dubbio, Assad, non intervengono concretamente per soccorrere i milioni di profughi siriani che strabordano nei paesi limitrofi, per andare a vivere in condizioni allucinanti nei campi profughi che crescono senza sosta?
Oppure che dire del confronto tra Israele e l’ Iran? Quest’ultimo tiene sotto pressione Israele, impedendole , o almeno cercando di ritardare i programmati raid contro i suoi siti nucleari, attraverso i suoi alleati sciiti, la Siria, Hezbollah, Hamas, rifornendoli di armi, soprattutto missili.

Dunque, va ripetuto, non è indifferente se vi sarà un attacco o meno, ma, quello che rimane  indubitabile, è che non risolverà nessuna delle questioni alla base della crisi siriana, perché nelle vicende storiche, per citare il verso di Stephane Mallarmé: “giammai un colpo di dadi abolirà l’ azzardo”, ovvero assai difficilmente un’intervento modificherà nel profondo una situazione storica. I cambiamenti, ci piaccia o meno, avvengono lentamente, dolorosamente e non sono guidati da nessuna legge.

Siria: un gioco a somma zero

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Siria: un gioco a somma zero – di Vanna Pisa

“Edward Luttwak con la solita lucidità ha voluto dare un consiglio a Barack Obama: non intervenire, non ti conviene. Un’azione militare americana in Siria è contraria agli interessi strategici degli Usa” (dal Corriere della sera, 27 giugno 2011). Le considerazioni di Edward Luttwak possono anche essere tacciate di cinismo e facile machiavellismo, ma sono anche il segnale di una realpolitik che miscela impotenza e tracotanza: infatti neanche gli USA, ad oggi la maggior potenza militare, sono in grado di decidere i destini della Siria, anche se fossero convinti di avere come obbiettivo la trasformazione di quel paese medio orientale in una nuova terra della libertà e democrazia.

Ma USA e Siria non sono gli unici attori sulla scena mediorientale.

I regimi di polizia mediorientali sono travolti dalla contestazione, a sua volta incapace di costruire nuove architetture istituzionali negoziate, giacché le culture sociopolitiche dominanti nelle comunità in rivolta si fondano sulla delegittimazione reciproca . Inoltre gli unici veri Stati nella regione non sono arabi: Israele, Iran e Turchia (Limes marzo 2013).

Vi sono poi le potenze globali : oltre agli USA, Cina e Russia, schierate nel modo conosciuto, vale forse la pena di fare due brevi notazioni. Gli anglo – francesi, benché potenze nucleari, sono al più dei revenants, che, indipendentemente dalle iniziative assunte, non sono in grado di condurre una politica da potenza globale. Russia e Cina, nei confronti della Siria, sembrano al momento dalla stessa parte, ma fino a che punto? Solo in comune opposizione agli Usa?

Etnie, movimenti politici religiosi e militari, organizzazioni terroristiche, Stati, alleanze interstatali, potenze militari nucleari si fronteggiano o si alleano con obiettivi e forze diverse.

Inoltre vi è una stratificazione temporale di cause e motivi che si sono intrecciati fra loro e continuano a interagire anche a distanza di decine e decine di anni. Nel 1916, per esempio, a seguito della dissoluzione dell’Impero Ottomano, il medio oriente venne diviso in due zone d’influenza: britannica, comprendente gli attuali Israele, Giordania e Iraq; e francese, comprendente gli attuali Siria e Libano.

Altre alleanze risalgono alla guerra fredda, quando l’allora URSS ” dominava ” il Mediterraneo del Sud, dall’Algeria alla Siria passando all’Egitto di Nasser. Altre ancora risalgono alle guerre o campagne militari che hanno consentito la crescita di Israele come potenza regionale (nel 1948 l’URSS era schierata a fianco di Israele).

L’Iran, che è un’altra potenza della regione, non ha certo dimenticato che il colpo di Stato del 1953 contro il presidente Mossaeq era stato favorito dagli anglo-americani per difendere gli interessi delle loro società petrolifere minacciate di nazionalizzazione.

Le petromonarchie sunnite si trovano su una riva dello stretto di Hormuz, serratura del Golfo Persico da cui passa un quinto di tutto il petrolio prodotto nel mondo. Sull’altra riva, l’Iran. Come reagirebbero gli USA e suoi alleati se l’Iran decidesse di intervenire nello stretto per difendere la Siria sua alleata?

Dettare condizioni è in primis dettarle a sé stessi; nulla è più deleterio nella vita privata come in politica, di non essere in grado di mettere in atto ciò che si minaccia, per quanto vago sia, qualora le condizioni non siano rispettate.

Obama, con la linea rossa sull’uso delle armi chimiche, si è messo in un angolo: non fare nulla significherebbe perdere la faccia e indebolire ulteriormente un impero sempre più in bilico. Così, forse, verranno lanciati missili Tomahawk dalle navi schierate nel Mediterraneo, potrebbero essere utilizzati droni e bombardieri di alta quota. La morte dal cielo comunque: non un soldato USA metterà piede nelle infide terre siriane, e alla fine quella che risulterà – di fatto – vincente, sarà la” dottrina Luttwark”.

Al-mifr, capire l’Egitto

Egitto, continuano le proteste

Al-mifr, capire l’Egitto – di Vanna Pisa.

Al-mifr significa “il mondo” ed è il nome dell’ Egitto nell’universo arabo. La valenza simbolica di tale nome è più che evidente. L’Egitto
non è nei paesi arabo – islamici un paese come gli altri poichè molti sono gli attori impegnati nel gioco della conquista del potere: i principali sono l’ esercito e i movimenti dell’ ISLAM politico: Fratelli musulmani e Salafiti, le tribù beduine del Sinai,  i movimenti giovanili democratici . Dietro e accanto a questi protagonisti  ci sono,  inoltre, a complicare la partita, paesi e movimenti non egiziani. SI potrebbe procedere, come di solito viene fatto ed è indispensabile fare,  ad esaminare le alleanze e le forze in campo.

Per ricordare le incongruenze nei vari schieramenti, si prenda ad esempio l’islam politico.
Detto che in un paese musulmano come l’ Egitto – tenuta  in debito conto la numerosa minoranza cristiana dei  Copti –  non esiste , neanche come termine, quel campo che in Occidente viene definito laico (sono in linea di massima tutti credenti), è certamente utile adottare la definizione sopra richiamata.
Non va dimenticato che la nascita e lo sviluppo dei movimenti islamici attivi in ambito sociale e politico è legata, tra l’altro, al dissolversi dell’ impero ottomano e all’ espansione coloniale europea.
Questo campo è però, limitandosi anche al solo Egitto, diviso, i Salafiti e il loro braccio politico Al-Nour hanno appoggiato il golpe militare contro i Fratelli Musulmani e il loro braccio politico Partito Libertà e Giustizia. I due gruppi sono poi appoggiati da Stati arabi sunniti diversi: solo per rimanere  tra le petromonarchie, il Qatar sostiene i Fratelli Musulmani, l’ Arabia Saudita, i Salafiti.

Non ci si può però  dimenticare dei movimenti jihadisti, più o meno collegati alla galassia di Al-Qaeda e dei loro legami con le tribù beduine del Sinai, regione nella quale, con interventi militari più o meno mascherati da parte di un ampiamente preoccupato Israele, è in corso una feroce guerriglia che vede contrapposti Jihadisti e alcune tribù beduine e l’esercito egiziano. A livello anedottico ha un certo interesse che colui che viene indicato come il numero uno di Al-Qaeda, Al-Zahawiri, a seguito della morte di Osama bin Laden. sia di origini egiziane e abbia militato in gioventù nei Fratelli Musulmani.
Il Sinai è anche la regione che confina con la Striscia di Gaza, dove governa Hamas, costola palestinese del movimento dei Fratelli; Hamas sostenuta, quando si dice il caso, dal Qatar e dalla Turchia, paese quest’ ultimo che è uno dei più fieri oppositori nel regime militare egiziano ed è governato da uno dei partiti di maggior successo dell’ Islam politico, non arabo però, e che coltiva sogni neo-ottomani.
Questo senza aver ancora tirato in ballo U.S.A, Europa, Russia e altri Stati, non perché tutto ciò non abbia una sua indubbia rilevanza in sede di analisi, ma perché qui si vuole richiamare l’attenzione su una questione troppe volte e troppo spesso ignorata quando si interpretano gli avvenimenti egiziani: la questione economico sociale.
Il momento fusionale, unitario che porta ad abbattere i regimi dispotici e tirannici è ben noto in sede di studi storico-politici, da ultimo si rimanda allo stimolante articolo di S. Zizek ” Morte sul Nilo” (n. 1014  Internazionale). Nello stesso articolo, Zizek aggiunge che, una volta abbattuto il tiranno, inevitabilmente  ci si divide e una delle linee di faglia della divisione è quella economico-sociale. Tutti gli attori coinvolti sul tragico palcoscenico egiziano sono portatori di interessi economici, rappresentano sezioni,  parti, settori della società egiziana, hanno programmi, progetti, visioni di politica economica e di modelli sociali.

” Il colpo di Stato è guidato dal ministro della Difesa e capo dell’esercito, Generale Abdel Fattah al-Sisi. Significativamente, al-Sisi è stato definito da Morsi il generale più giovane e devoto musulmano, lo scorso anno. Si è anche addestrato ed è ben considerato a Washington, dalla leadership del Pentagono. Gli autori del colpo di Stato indicano la profondità del rifiuto verso la confraternita in Egitto. Al-Sisi aveva annunciato, la sera del 3 luglio, che il capo della Corte Costituzionale agirà da presidente provvisorio e formerà un governo ad interim di tecnocrati per governare il Paese fino alle prossime elezioni presidenziali e parlamentari. È’ stato affiancato dai leader dell’opposizione laica, cristiana e musulmana. Al-Sisi ha detto che l’esercito avrebbe fatto ogni sforzo per avviare il dialogo e la riconciliazione nazionale, accolti da tutte le fazioni ma respinti dal presidente Morsi e dalla sua Fratellanza musulmana.” (Rete-Voltaire 2013).

L’Egitto è un paese sprofondato in una terribile crisi economica che vede sempre più vaste masse di disoccupati e poveri. Accanto alla lotta per le libertà civili e politiche quella contro la povertà all’insegna del motto “pane e lavoro”, è stata ed è uno dei motivi e dei motori della rivoluzione, termine da usare con cautela, che ha portato alla caduta di Mubarak.

La tematica economico-sociale rimane centrale anche per spiegare il fallimento e la caduta di Morsi e dei Fratelli  Musulmani. Non dimentichiamo che essi hanno costruito negli 80 anni della loro storia una sorta di Welfare State parallelo rivolto ai ceti più poveri e disagiati, con particolare attenzione a quelli delle periferie e delle campagne. L’ esercito egiziano è d’altronde la più importante holding del paese: dai panifici ai resort sul Mar Rosso non c’ è settore economico di peso che non lo veda coinvolto.

Entrambi i soggetti, di fondo, condividono l’ approccio neo-liberista. Quello che è in corso è dunque anche uno scontro per conquistare il potere tra chi ha e chi non ha, all’interno delle regole capitalistiche.

In Turchia gli Islamisti hanno avuto successo: Erdoğan, fondatore del partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP), e i suoi sono riusciti, per ora, a relegare l’esercito nelle caserme, anche attraverso clamorosi processi, montati o meno che siano (si veda il caso Ergenekon, gruppo terroristico autore di numerosi golpe dal dopo guerra oggi).

Analogia interessante tra i due eserciti, quello turco e quello egiziano: in modi e forme diverse sono comunque gli alleati delle forze che non vogliono l’islamizzazione dello Stato e della società.

In Egitto l’ esercito ha potuto godere del fallimento del governo Morsi, che economicamente non ha fatto pressoché nulla per alleviare le condizioni delle classi popolari più esposte alla crisi, e politicamente ha intrapreso in maniera molto goffa e rozza un percorso di accentramento autoritario del potere e di applicazione della Sharia. I giovani, le donne, larghe sette delle classi medie cittadine non hanno per ora la forza e la capacità organizzativa per costituire una reale alternativa. D’altronde queste forze manifestano i bisogni e le esigenze di una società civile che vuole dire la sua e non ha intenzione di farsi togliere la parola dalle Istituzioni.

 Il Retroterra dello scontro: primi anni 90, Algeria.

Il Fronte Islamico della Salvezza, vincitore di regolari elezioni democratiche, va al potere. L’esercito algerino, uno degli eredi del Fronte di Liberazione Nazionale, che costrinse i francesi a far fagotto, non accetta il risultato; l’esercito, dalla fine della guerra di liberazione, è diventato il vero dominus del paese, anche in campo economico .

Sradicare il terrorismo islamico è stata la sua parola d’ordine. Una delle più terribili, brutali e atroci guerre civili che proseguirà per oltre dieci anni con centinaia di migliaia di morti, è stata la conseguenza.

La scelta militare ha radicalizzato sempre di più i movimenti islamici, sempre che si possa usare tale termine, forse anche attraverso accordi tra i servizi segreti algerini e i movimenti armati jihadisti. Questi ultimi, in cambio di una sorta di mano libera nel Sahel, si impegnano a non agire in Algeria.

Quello che sta accadendo in Mali è uno dei frutti avvelenati di questa storia, storia che forse non si ripete ma ama molto le variazioni sul tema. L’Egitto, per sua sfortuna, fa parte del tema.