Nuova Sinistra

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E’ un titolo provocatorio, lo so. Guardando alle cose reali, non c’è niente di nuovo a sinistra. Se ne sono accorti in molti che la sinistra in Italia è scomparsa. Se ne sono accorti specialmente gli esperti del marketing politico. C’è un mercato. C’è un bisogno frustrato. Il prodotto politico è tutto da costruire e qualcuno intenderebbe costruirlo a partire da una personalità, poiché partire dal contenuto (la proposta politica) è sempre un po’ pericoloso e mette a rischio l’investimento.

Invece la personalità funziona bene come proxy di contenuti che ancora non esistono: una personalità forte, che appaia “di sinistra” – nel linguaggio, nella microstoria personale – aiuta a creare immedesimazione e, nel lungo periodo, conformismo. La personalità accelera il processo di coagulazione di una rete politica: se carismatica, determina la cancellazione del contenuto nonché la sua totale sostituzione. La personalità diventa contenuto politico.

Questo, diciamo, è il lato patologico. Una Nuova Sinistra non potrebbe però nascere senza personalità politiche e al tempo stesso dovrebbe tendere alla dimensione collettiva organizzata e orientata al raggiungimento di obbiettivi. Per questo, quando sento parlare di operazione DiBa (che sarebbe poi un’operazione di marketing messa in opera da Casaleggio, tramite Di Battista, per intercettare la fetta di mercato elettorale che il Pd di Renzi starebbe per consegnare definitivamente al proprio destino), il senso di ‘imballo vuoto’ si fa massimo.

Sinistra non è una etichetta che si possa applicare su confezioni industriali. La nuova Sinistra, se mai nascerà, è il recupero di una identità politica condivisa. E’ un metodo. Non è retorica del fare, e certamente non tende alla poiesis, alla mera produzione di cose, obbligata in rigide pianificazioni ove la discussione è minaccia, è perdita di tempo. La nuova Sinistra dovrebbe nascere in un contesto di confronto onesto e trasparente. E’ ideologica, nel senso che detiene un logos della idealità. Certamente non pone la meta in un futuro idealtipico, bensì la integra in un progetto discorsivo e insieme immanente.

Cos’è invece Di Battista?

Francisco I come Francisco Jales (e Orlando Yorio)?

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Jorge Mario Bergoglio è papa Francesco I. Ha settantasette anni, troppi per non aver potuto avere un ruolo nella Chiesa argentina durante la dittatura di Jorge Rafael Videla, fra il 1976 e il 1981. Non è retroscenismo o complottismo. La storia è stata scritta da un giornalista, Horacio Verbitsky, in un libro dal titolo L’isola del silenzio – Il ruolo della Chiesa nella dittatura argentina, Fandango Libri, collana Documenti.

Vi rimando all’ampia trattazione in rete. Qui riporto due fonti, una del 2006 e l’altra, più recente, del 2011. In una di esse si racconta molto sommariamente la storia di due preti gesuiti, che disobbedirono alla Chiesa e continuarono ad aiutare i poveri nelle barrios, sorta di ghetti di Buenos Aires, e che per questa ragione furono denunciati ai militari golpisti. Uno di essi si chiamava Francisco.

Gli oscuri legami tra i militari e la «chiesa nera» di Bergoglio

HORACIO VERBITSKY – Il Manifesto, 24 marzo 2006

La prima edizione di questo libro, alla quale ho lavorato per oltre quindici anni, è andata in stampa a Buenos Aires nel febbraio del 2005, quando a Roma era ricoverato in ospedale papa Giovanni Paolo II, che poi morì il 2 aprile. Secondo i quotidiani italiani, il cardinale argentino Jorge Bergoglio fu l’unico serio avversario del tedesco Joseph Ratzinger, che venne eletto il 19 aprile e assunse il nome di Benedetto XVI. In quegli stessi giorni, il vescovo castrense di Buenos Aires disse che il ministro argentino della salute meritava di essere gettato in mare con una pietra da mulino al collo per aver distribuito preservativi ed essersi espresso a favore della depenalizzazione dell’aborto.(…) Quando il vescovo Baseotto appese la biblica pietra da mulino al collo ministeriale, il presidente Néstor Kirchner invitò il Vaticano a designare un nuovo titolare della diocesi militare. Quando il Nunzio apostolico comunicò che non ve n’era motivo, il governo revocò l’assenso prestato alla nomina di Baseotto e lo privò del suo emolumento da segretario di Stato per aver rivendicato i metodi della dittatura. Il Vaticano disconosce sia «l’interpretazione che si è voluto dare alla citazione evangelica» sia l’autorità presidenziale di revocare la designazione del vescovo castrense.
Di motivi per dubitare che Baseotto abbia scelto ingenuamente una citazione biblica riguardante persone gettate in mare, ve ne sono in abbondanza. Il suo primo atto da Vicario fu la visita alla Corte suprema di Giustizia nella quale sostenne la necessità di chiudere i processi relativi alla guerra sporca dei militari contro la società argentina. Il suo segretario generale nell’Episcopato castrense (lo stesso incarico che nel 1976 rivestiva Emilio Grasselli) è il sacerdote Alberto Angel Zanchetta, che fu cappellano della Esma negli anni della dittatura e del quale è comprovata la conoscenza dettagliata di quanto vi accadeva. (…) Dopo aver acceso la polemica pubblica con le sue parole, Baseotto si riferì ai voli come a uno dei «fatti avvenuti, a quanto si dice, durante la famosa dittatura militare». Nessun membro dell’Episcopato ebbe da eccepire su quella frase provocatoria, perché tutta la Chiesa argentina continua a trincerarsi nell’isola del suo silenzio.

[…]

Come scrive Verbitsky, tra le nefandezze di cui Bergoglio si rese complice, ci fu la denuncia ai militari golpisti di due gesuiti vicini alle idee della Teologia della liberazione, che avevano avuto la colpa di continuare ad aiutare e difendere i diritti della gente dei barrios più poveri di Buenos Aires, nonostante la chiesa argentina avesse ordinato loro di abbandonarli al proprio destino. Orlando Yorio e Francisco Jales furono rapiti da militari in borghese, portati alla famigerata Scuola di Meccanica della Marina, centro clandestino di detenzione e tortura durante la dittatura militare, oggi Museo della Memoria, dove vennero torturati per mesi e lasciati incatenati al suolo in mezzo alle loro feci. Se conosciamo questa storia è solo perché i due si sono salvati, probabilmente da qualcuno che nella Chiesa argentina, non aveva perso completamente l’identità umana (Dazebao.it)

Sallusti arrestato, è già evaso

Lo annuncia Nicola Porro su Twitter:

http://twitter.com/CesareOrtis/status/274851320920408065

Questa la homepage de Il Giornale, proprio adesso:

ilgiornale

I retroscena della liberazione di Rossella Urru

Saharamedia.net rivela in un articolo che la liberazione di Rossella e dei cooperanti spagnoli è avvenuta soltanto dopo la liberazione dei due presunti rapitori, arrestati a Dicembre 2011 presso la località di Nouadhibou, nel nord-ovest della Mauritania. Si tratta di Maminna Alaaguir Ahmed Baba, nato nel 1982, che attaccò direttamente il campo" nei pressi di Tinduf e aveva prelevato i tre cooperanti; il secondo uomo, Hamady Aghdafna Ahmed Baba, nato nel 1979, secondo le autorità mauritane, diede"un grande aiuto durante il rapimento". I due sarebbero entrati clandestinamente in Mauritania, provenienti dal fronte Polisario, nel sud dell’Algeria, probabilmente a fine Novembre 2011. I servizi di sicurezza della Mauritania ritennero il loro comportamento – durante il soggiorno in Nouadhibou – particolarmente sospetto. In sostanza i due avrebbero eseguito il rapimento, quindi avrebbero venduto gli ostaggi a AQMI o Mujao. Una volta concluso “l’affare”, si sarebbero spostati in Mauritania. La liberazione dei due è stato l’elemento che ha appianato le ultime difficoltà nelle trattative.

Le autorità spagnole avevano inviato già Martedì pomeriggio un aereo alla volta della capitale mauritana. Poi il luogo del ritiro degli ex ostaggi è stato spostato nella capitale del Burkina Faso, Ouagadougou, dove i tre dovevano arrivare già ieri sera, ma una tempesta di sabbia ha imposto ai mediatori italiani e spagnoli il ritorno nella città di Gao.

Il mistero del rogo alla Polizia Scientifica e i reperti dell’attentato di Brindisi

Sarà un mistero oppure no, ma lo scorso lunedì alle quattro di notte il laboratorio della Polizia Scientifica a Roma, sulla Tuscolana, è andato a fuoco, pare per cause accidentali, distruggendo alcuni reperti facenti parte di casi di cronaca “nera importanti”, come scrive il Corriere. Quasi certamente è andato distrutto un reperto della bomba di Brindisi. Forse anche dell’attentato al manager dell’Ansaldo.

La notizia è rimasta praticamente nascosta fino a ieri, quando il Corriere ne ha pubblicato un resoconto che ha dell’incredibile. Innanzitutto, secondo Massimo Sideri, autore dell’articolo, non si sarebbe trattato di un semplice incendio ma di un incendio conseguente ad una esplosione. Causata dal caldo. Da Caronte. Sapete, in quei giorni vi era il picco dell’afa e “il ponentino non si era ancora alzato come negli ultimi giorni” (testuale).

Esplosione – causa il caldo: http://www.corriere.it/cronache/12_luglio_08/esplosione-centro-polizia-scientifica_0e8c5b4c-c911-11e1-8dc6-cad9d275979d.shtml

Oggi il bestiario giornalistico si è arricchito di altri campioni. Su Fanpage ci tranquillizzano: il reperto andato distrutto è già stato analizzato e protocollato e la sua distruzione non determinerà intralci alle indagini. Ora resta da chiarire di che tipo di reperto si tratti. Se è l’innesco della bomba o una parte di essa, come per esempio un frammento delle bombole, in sede processuale non potranno più essere oggetto di perizia.

Incendio, cause accidentali: http://www.ilmessaggero.it/primopiano/cronaca/fuoco_nel_laboratorio_polizia_scientifica_distrutto_un_reperto_di_brindisi/notizie/207144.shtml

Il Messaggero sembra raccontare un altro episodio. Si tratterebbe non di una esplosione ma soltanto di un incendio. E la causa? Un corto circuito.

Incendio, causa corto circuito: http://www.fanpage.it/brucia-il-laboratorio-della-polizia-scientifica-distrutti-reperti-di-brindisi/

A nessuno è sorto il sospetto di cause dolose. Anzi, i giornalisti tendono acriticamente ad escluderle.

Il racconto del terremoto a Ferrara nel 1570

GLI EVENTI ALLA FINE DEL 1570.
Alle 7.00 p.m. del 17 Novembre 1570 si verificò il culmine di un periodo sismico preceduto da altre grosse scosse e che terminò solo alla fine del 1574, il cui principale epicentro fu la città di Ferrara. La scossa del Novembre 1570 fu la più intensa e raggiunse il nono grado della scala Mercalli. La storia di tale periodo ed in particolare della scossa principale fu ben documentata negli archivi estensi ed ebbe grande risonanza nelle altre corti europee ed italiane per il ruolo di primo piano politico e culturale dell’allora Ducato Estense. Nonostante ciò la Segreteria Ducale minimizzò l’ evento per il timore di una perdita di prestigio politico (vedi comportamento dei paesi dell’est), mentre certi rivali ne esagerarono l’entità. La popolazione inoltre interpretò il terremoto Come un fenomeno di origine sovrannaturale il che portò all’esodo di oltre 1000 persone dalla città per oltre un anno. In tale contesto si inserirono testimonianze di cittadini privati e personaggi di corte, come Pirro Ligorio, architetto e antiquario di corte, Ippolito de Robertis, procuratore, Buonaiuto dei Rossi, fisico e umanista ed altri ancora. Vennero compilati tre diari con dati precisi sulle scosse, due dei quali coprirono un periodo di quattro anni. Vi furono inoltre sull’argomento frequenti corrispondenze tra l’ ambasciatore Bernardo Canigiani per il Granduca di Toscana e Livio Passeri per il Duca di Urbino, nonché tra la corte di Ferrara ed i suoi ambasciatori a Venezia, Torino e Roma. Gli Autori di tale ricerca (FERRARI, GUIDOBONI, POSTPISCHL) hanno così potuto effettuare considerazioni critiche sull’entità dei danni dovuti alle varie scosse, soprattutto nella città di Ferrara, poichè nelle aree limitrofe i dati sono inferiori; l’ aspetto del territorio era molto diverso da ora: due terzi del ducato erano coperti da paludi, i villaggi erano ubicati sugli allora argini naturali del Po e la maggior parte delle abitazioni di agricoltori e pescatori era fatta di legno e fango. Tre anni dopo inviati pontifici sopraggiunsero a Ferrara e zone limitrofe per valutare i danni alle opere ecclesiastiche. Dai dati disponibili gli Autori hanno potuto effettuare le seguenti considerazioni. All’inizio del novembre 1570 furono uditi rumori intensi come di acque scroscianti e “rombanti” verso Ravenna, nell’antico corso del Po di Primaro. Alla mattina del 16 novembre piccole scosse furono avvertite tra le 3,15 p.m. e le 5,15 p.m. Il terremoto causò collassi dei camini, apri fessure nelle case e provocò grande panico nella popolazione. Il 17 novembre alle 1,45 a.m. un’ulteriore scossa causò il crollo di 5-600 piccole terrazze, causando ulteriori danni alle strutture e seguirono numerose altre piccole scosse. Alle 11,45 a.m. una successiva scossa causò altri danni. Altre piccole scosse avvennero fino alle 4,15 p.m., quando una forte scossa seguita un’ ora dopo da un’ altra causò il crollo di ulteriori manufatti. Alle 6,15 p.m. venne avvertito un ulteriore movimento,che tuttavia risultò essere meno intenso dei precedenti. Alle 7,00 p.m. il “Big One”,di più lunga durata ed effetti devastanti. Fu prima avvertito come un’ oscillazione in direzione est-ovest, poi nord-sud. Fu seguito da scosse circa ogni quarto d’ ora, per tutta la notte. Venne redatta una carta dei danni alle chiese ed ai palazzi: quelli più danneggiati e rasi al suolo erano ubicati alla fine delle strade o isolati. La parte medievale della città, la più abitata, era seriamente danneggiata. Furono rinforzati quindi colonnati ed edifici in genere con la costruzione di muri di contenimento, proseguita fino alla fine del secolo. Durante la scossa principale l’ acqua del castello tracimò e il Po vicino a Stellata subì una brusca variazione di livello: furono notati fenomeni di luminescenza dell’aria (“aria rubiconda”) e liquefazione dei terreni. Si aprirono fessurazioni nelle mura della città anche di un chilometro di lunghezza in direzione N-W. Si notò anche l’ affiorare improvviso di terreni neri maleodoranti. Le carte redatte dagli Autori sopracitati riguardanti l’ intensità MCS del fenomeno mostrano un preciso allineamento degli eventi con la Dorsale Ferrarese. Con la formula di Blake, l’ipocentro del terremoto risulta a 7 Km di profondità. Venne avvertito anche a Venezia, Mantova, Bologna, Modena e Pesaro. Applicazioni della formula di Galanopoulos danno una magnitudo di 5,6. Citiamo in fine che l’ evento catastrofico del 1570 non é comunque stato l’ unico nelle vicinanze di Ferrara: ad esso é infatti seguito il terremoto di Argenta nel 1624, ed è stato preceduto da un altro evento sismico sempre a Ferrara nel 1561: il primo, secondo le ricostruzioni (POSTPISCHL, 1983) fu del settimo grado della scala Mercalli-Cancani-Sieberg, mentre il secondo arrivò addirittura al nono. Risulta quindi fuori di dubbio che storicamente Ferrara è stata teatro di importanti eventi sismici, anche se risalgono a secoli fa; è quantomeno improbabile che le “forze” che hanno causato tali eventi si siano esaurite, ed infatti sono noti ai sismologi terremoti con lunghissimi “tempi di ritorno” , considerati molto pericolosi perché l’energia accumulata in un lungo periodo di tempo e mai rilasciata può liberarsi in uno o pochi eventi sismici di grande magnitudo, quindi altamente pericolosi. E emblematico che gli abitanti di San Francisco, abituati a convivere con i terremoti causati dalla Faglia di San Andreas, si preoccupino se non avvertono le solite deboli scossette settimanali, segno di una graduale liberazione dell’energia elastica in continuo accumulo. Non si possono comunque fare paragoni con Ferrara poiché è possibile che qui i tempi di accumulo di energia siano estremamente lenti, a differenza delle sopracitate zone molto attive. Bisogna quindi senza creare falsi e sciocchi allarmismi accettare l’idea che Ferrara è tutt’altro che una zona priva di rischio, come si può desumere sia dai suoi trascorsi storici sia dagli studi attualmente in corso.
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Attentato #Brindisi: la chiave dell’enigma è il preside?

Angelo Rampino è il preside della scuola Morvillo-Falcone di Brindisi. La scuola di Melissa. L’uomo è tutto un fiorire di dichiarazioni, alcune delle quali erano fasulle ed hanno costretto la procura a frettolose smentite. Il suo comportamento è “al di sopra delle righe” e non si spiega il perché. A meno che il teorema delle minacce alla scuola sia fondato. Allora tutto cambia: se così fosse in un colpo solo decadrebbero tutte le ricostruzioni giornalistiche e para-giornalistiche della prima ora. Forse infatti Rampino è un “uomo avvisato”. Era avvisato cioè del fatto che qualcuno stava minacciando una strage. E tutto quello che ha fatto è stato… farsi installare una porta blindata in ufficio (Go Bari).

Ma torniamo al giorno della strage. Rampino è in ritardo. Ha fatto gasolio. Poi si ferma a prendere un caffè. Si trova a circa tre chilometri dalla scuola. Sente distintamente un boato e lui a cosa pensa? Potrebbe essere successo di tutto, ma lui si preoccupa immediatamente della Morvillo-Falcone:

«Se fossi arrivato prima, probabilmente sarei morto io e non i miei ragazzi» (Corsera).

Il preside dice che sarebbe morto lui, se fosse arrivato prima. Ma gli inquirenti sostengono che l’attentatore aveva un telecomando e che ha premuto quel telecomando guardando a pochi metri quelle ragazze appena scese dall’autobus. In ogni caso il preside, già il 19 Maggio, inizia a diffondere a mezzo stampa le sue teorie sul movente della strage:

IPOTESI n. 1, Mafia: “«Sta per arrivare – ricorda – l’anniversario della morte di Falcone. La scuola è posizionata nel centro di Brindisi, a poca distanza dal tribunale e si trova in viale Aldo Moro, angolo via Galanti: è tutta una coincidenza? A me non sembra. Segnali che abbiano potuto mettere in allarme nei giorni scorsi non ce ne sono stati, la nostra è una scuola tranquilla»” (Corsera).

La scuola non c’entra nulla. La scuola non c’entra nulla. Sembra un mantra. Qualcosa da ribadire, comunque, anche quando non richiesto. La scuola, dice Rampino, non c’entra nulla. Potrebbe essere invece colpa di un arabo, sì, un arabo. Glielo riferiscono alcuni studenti, e lui prontamente ne parla alla stampa.

IPOTESI n. 2, Terrorismo internazionale: “C’è un misterioso uomo arabo che, nei giorni precedenti all’attentato, è stato visto diverse volte seduto su una panchina di fronte alla scuola «Morvillo-Falcone» con un computer sulle gambe. Lo ha riferito questa mattina ai giornalisti il preside dell’istituto professionale colpito dall’attentato di sabato scorso” (Corsera).

Badate bene a questa frase, perché è emblematica: c’era un arabo, non il giorno della strage ma nei giorni precedenti, che era misterioso poiché sedeva su una panchina e teneva sulle ginocchia un computer. Il preside aggiunge che del presunto attentatore – già circolavano i fotogrammi sfocati ripresi dalle telecamere del chiosco – vi erano altre immagini:

«La persona che si vede nell’atto di spingere il tasto di un telecomando nei pressi del chiosco di fronte alla scuola, è stato ripreso «anche prima dell’esplosione – ha detto il preside – e circolava nel quartiere». Le immagini sono state fatte vedere al preside dagli investigatori e si riferiscono – presumibilmente – a riprese fatte dalla telecamere dopo le cinque del mattino (Corsera).

Il giorno dopo la procura ha smentito. Perché i magistrati dovrebbero far vedere in anteprima proprio al preside le immagini dell’attentatore? Comunque la scuola non c’entra nulla, ”non mi risulta”, dice Rampino – “che ci siano state discussioni ne’ con me ne’ con personale Ata, docenti o altri collaboratori” (AdKronos).

Insomma, questa persona sta andando oltre le sue competenze. Un uomo che è  preside di una scuola femminile, ma che è anche pregiudicato: fu condannato nel 2003 ad un anno e mezzo di reclusione per violenza sessuale. Accade in Italia:

Il preside Rampino, che qualche tempo fa ha fatto installare una porta blindata nel suo ufficio, nel 2003 ha rimediato una condanna ad un anno e mezzo per violenza sessuale. Il dirigente scolastico del professionale femminile aveva patteggiato la pena dopo la denuncia presentata contro di lui da una vicina di casa. La donna che all’epoca aveva 30 anni, stando a quanto sarebbe emerso dalla documentazione (ormai agli archivi del Tribunale di Lecce) si sarebbe rivolta ai carabinieri dopo essere stata avvicinata dall’allora nei pressi della sua abitazione dal professore di lettere il quale – sempre stando alle accuse – avrebbe in qualche modo abusato di lei. Stando a quanto trapelato dallo stretto riserbo che avvolge la vicenda, Rampino avrebbe sempre rigettato le accuse. Sta di fatto che poi il suo legale aveva chiesto e ottenuto di patteggiare la condanna: un anno e sei mesi con pena sospesa. Grazie alla sospensione della pena e alla «non menzione», Rampino ha poi avuto la possibilità di fare il concorso per preside (La Gazzetta del Mezzogiorno).

#Brindisi, l’attentatore era vicinissimo alla zona dell’esplosione

Se davvero le telecamere citate dal Procuratore Generale di Brindisi, Di Napoli, sono quelle nelle fotografie pubblicate da Repubblica.it, allora l’attentatore che ha ucciso Melissa era molto vicino al luogo dell’esplosione, anzi era dall’altro lato del marciapiede, nei pressi del chiosco verde. Era lì ed è probabile che qualcuno lo abbia notato.

Notate nella foto sopra il bidone giallo della raccolta differenziata e il tubo pluviale di scarico delle acque piovane. Tramite questi due particolari ho rintracciato l’area del chiosco verde sulle fotografie di Google Street View. Ecco cosa ne è uscito (cliccate sulla prima immagine e fate scorrere la foto sequenza):

In sostanza ho puntato la zona dell’esplosione (vi ricordo che le immagini di Google Street View risalgono al 2009) riconoscibile per la presenza del cartellone pubblicitario, ed ho compiuto una rotazione di180 gradi. Alle spalle di chi guarda c’è il bidone giallo (penultima immagine). Siamo ancora all’angolo di Via Oberdan. Il chiosco evidentemente nel 2009 non era stato ancora costruito (se qualcuno di Brindisi legge queste parole, può darne conferma nei commenti).

L’uomo, con tutta probabilità, era lì, ed ha potuto fuggire indisturbato lungo Via Giuseppe Maria Galanti, che poco più in là, curva leggermente a sinistra, dove ci sono le piante.

#Brindisi, com’era la scuola prima dell’attentato

Immagini tratte da Google Street View dalle quali potete notare la collocazione dei bidoni e la presenza quasi odierna del venditore ambulante con il suo camioncino.

  1. Il bidone impiegato per collocare la bomba era un bidone di colore blu;
  2. il venditore ambulante ieri non era sul luogo (è stato detto perché multato spesso per mancanza di autorizzazione).

Capire l’attentato di Brindisi

No, non ci riesco. Non riesco a capire l’attentato di Brindisi. Non capisco l’obiettivo, la modalità, il luogo. Dannazione, perché a Brindisi? Perché davanti ad una scuola, che pur porta quel nome importante, Morvillo-Falcone? Perché colpire delle studentesse di sedici anni?

Se in un primo momento mi è sembrato fosse inequivocabilmente una “cosa” di mafia, un attentato in stile terroristico con il medesimo modus operandi del 1992-93, per giunta davanti all’unica scuola in Italia che porta quel nome (ve n’è una seconda, ma è un asilo) e in concomitanza con l’anniversario di Capaci, il ventennio di Capaci. Poi ho compreso che tutto quanto è accaduto è irrazionale e la mafia non è mai irrazionale. La mafia è potere e il potere si basa sul consenso. La mafia non è così stupida (e nemmeno la Sacra corona Unita). Stanno lì, a curare i loro traffici, a corrompere giudici e politici, a riscuotere il pizzo, ad ammazzare qualche avversario, ma mai e poi mai potrebbero versare sangue inutilmente. Solo una volta la mafia ha causato vittime innocenti, in Via dei Georgofili, nel 1993, ma fu un “danno collaterale” non previsto, non preventivato. Un errore nella strategia dei mafiosi trattativisti che ha causato in seguito il pentimento di Spatuzza. E il fallito attentato dell’Olimpico aveva nel mirino i Carabinieri, non persone innocenti. In tutte queste occasioni, la mafia ha impiegato il tritolo. Il tritolo è la firma della mafia. Non il Gpl.

Melissa e le compagne nel 1992 non erano neanche ancora nate. Chi ha ucciso Melissa ha ucciso l’innocenza. Ha strappato l’innocenza che era l’unica speranza per questo maledetto paese. Chi ha colpito Brindisi voleva ottenere il massimo dello sdegno. Questo è nichilismo puro. E’ volontà di distruzione. E’ desiderio di annientare il vivere insieme e in comune. In questo contesto simbolico, la mafia non c’entra nulla.

Chi ha piazzato le bombe davanti a una scuola lo ha fatto tenendo all’oscuro la Sacra Corona Unita. È gente spietata che si è infiltrata nel territorio pugliese. La scelta di usare bombole del gas rende poi difficile rintracciare la provenienza di un eventuale esplosivo. Quindi anonimato assoluto. Tracce zero (Brindisi, le bombe sono della Cupola Nera).

Quando nel 1992 iniziò il periodo delle Stragi terroristiche mafiose, il Ministro dell’Interno Scotti comparve in anticipo dinanzi alle telecamere ventilando la possibilità di una fase di destabilizzazione delle istituzioni. Le stragi di mafia sono sempre, in un certo qual modo, preannunciate. Prima arrivano gli avvertimenti. In questo caso non abbiamo avuto nessun avviso. Nessuno, tranne uno: la rivendicazione dell’attentato ad Adinolfi da parte del FAI. Chi ha sparato al manager dell’Ansaldo ha avvisato che sarebbero state messe in atto altre azioni di tipo terroristico. Almeno sette.

Adinolfi, rivendicato l’attentato
Anarchici informali: “Altre 7 azioni”

Il documento: “Abbiamo riempito con piacere il caricatore. Impugnare una pistola, scegliere e seguire l’obiettivo, sono stati un passaggio obbligato. Un piccolo frammento di giustizia”. Il procuratore di Genova conferma l’allerta: “Non si possonio escludere nuovi attentati” (La Repubblica.it).

Allo stato attuale, affermare che Brindisi sia una delle sette azioni minacciate dalla Federazione Anarchica Informale, è pura illazione. Ma provate a considerare il simbolo impiegato nella lettera di rivendicazione dell’attentato ad Adinolfi:

La stella dell’anarchia si unisce ad un altro simbolo. Suggerisce la congiunzione fra due mondi, fra due distinti gruppi terroristici, aventi matrice politica differente. Le frecce convergenti sono il simbolo delle Cospirazione delle Cellule di Fuoco greche. La A è l’anarchismo. Le frecce convergenti sono una simbologia che ha qualcosa a che fare con il neonazismo. E naziosmo è volontà di distruzione allo stato puro.

Il simbolo utilizzato dagli anarchici informali per rivendicare l’attentato a Roberto Adinolfi è stato ‘adottato dal gruppo greco Cellule di fuoco da parte del Fronte rivoluzionario internazionale che lo ha completato con un nuovo elemento. Secondo gli investigatori, la stella a cinque punte con inscritta la ‘à di anarchia aggiunta al mezzo cerchio con le cinque frecce che è il simbolo delle Cellule di fuoco apporta una «novità non solo formale ma anche sostanziale» (Il Manifesto).

Cosa intendevano per sette azioni? Hanno a che fare con quanto successo oggi? Domande, domande. Ma l’idea terribile che un attacco come quello di Brindisi sia inutile, che si volto solo a distruggere, che sia in definitiva aberrante e mostruoso e motivato solo da una volontà di mettere a fuoco il paese, di farlo bruciare finché non ne rimanga nulla, è piuttosto evidente, sia esso opera della mafia o dell’eversione internazionale. O di tutt’e due.

Cosa dicono quei minutissimi frammenti di vita sparsi per la strada? Sono come i corpi straziati di Utoya. Ma ad Utoya, come a Tolosa, il killer è visibile, si mostra a volto scoperto e rivendica immediatamente il bagno di sangue. Addirittura redige, esegue un report dettagliato del massacro filmandosi. L’attentatuni non ebbe bisogno di rivendicazione, poiché era fin troppo chiaro che ad ammazzare Falcone e Morvillo e la scorta erano i Corleonesi stragisti. Via D’Amelio stiamo cercando di comprenderla in questi mesi, pur così lontani dalla verità. Ma Brindisi? Possibile che la mafia ora se la prenda con le scuole? Quale utilità può ricavarne da un atto simile? Naturalmente nessuna.

Siamo davvero intenti a veder fili dove non ci sono quando invece ignoriamo il disegno delle conchiglie?

Perché il Giornale e Libero negano la Trattativa Stato-Mafia

Come spesso accade, anche sul tema della trattativa Stato-Mafia, Il Giornale e Libero hanno titoli simili e propongono interpretazioni altrettanto simili, se non gemelle. La Procura di Caltanissetta ha disposto arresti cautelari per quattro persone e su Libero ci vanno giù duro, facendovi intendere – falsamente? – la sproporzione fra la misura cautelare e il reato, che si è compiuto vent’anni or sono. Così Davide Giacalone non vi dice che tre di queste quattro persone arrestate sono già detenute: Salvatore Madonia, secondo la Procura il mandante della strage; Vittorio Tutino, autore del furto della 126 che fu tramutata in autobomba; il presunto basista Salvatore Vitali e Calogero Pulci, ex pentito. Per Il Giornale, Salvatore Madonia è un “presunto boss”. Il curriculum vitae di questo presunto boss lo potete ascoltare su Radio Radicale:

  1. in qualità di imputato: Processo per l’omicidio dell’imprenditore Libero Grassi
  2. in qualità di testimone: Processo per l’omicidio del giudice Rocco Chinnici (Riina ed altri)
  3. in qualità di imputato: Maxiprocesso a “Cosa nostra”

Secondo Salvo Palazzolo (Repubblica.it) Salvatore o Salvino Madonia è un “capomafia pluriergastolano“, “accusato di aver partecipato nel dicembre 1991 alla riunione della Cupola in cui si decise l’avvio della strategia stragista”. Di presunto non c’è più nulla su un ergastolano, per giunta plurimo. Se vi pare poco.

Secondo Gian Mario Chiocci e Mariateresa Conti, autori del pezzo su Il Giornale, la Procura di Caltanissetta ha alle spalle venti anni di insuccessi e di “innocenti in galera”. Si riferiscono alle false dichiarazioni del pentito Scarantino, che hanno permesso all’epoca ai magistrati di chiudere in fretta e furia l’inchiesta su via D’Amelio. Scarantino viene impiegato dai due giornalisti come argomento contro l’attuale procura di Caltanissetta e non contro i magistrati del 1992, con i responsabili dell’ingiustizia, coloro che imbastirono le accuse false imbeccati da chissà quale fonte “oscura”. Il pentito Scarantino mentiva? Colpa dei magistrati di oggi che pure lo hanno scoperto.

Continua Giacalone: “partiamo dalla fine […] io non faccio indagini e non istituisco processi, ma resto convinto che Borsellino muore, dopo che era stato ammazzato Falcone, perché era un ostacolo all’insabbiamento e dell’archiviazione dell’inchiesta mafia e appalti, immediatamente distrutta dopo la sua morte”. Giacalone ha una teoria e della realtà se ne frega. Ha questa teoria e piega i fatti al servizio del suo intendimento. Tutte balle, il 41 bis non c’entra. Ora, sarà strano ma anche in questo caso l’informazione che vi ha dato il buon Giacalone è incompleta. E, manco a dirlo, è la solita vulgata che circola nei media di destra. Perché allora far saltare il magistrato con una autobomba? Se il movente erano gli appalti, non bastava una pallottola, come peraltro la mafia sapeva fare e ha fatto in tantissime altre circostanze? Ed è altrettanto lampante il disegno stragistico che dal Maggio del ’92 prosegue con le cosiddette ‘stragi sul continente’. Per Giacalone tutto questo è irrilevante. Irrilevante che il ministro dell’Interno del ’92, Vincenzo Scotti, un mese prima di Capaci, disse pubblicamente che era in atto una strategia destabilizzante. Poi, in una notte, fu misteriosamente deposto da Andreotti. Ma Giacalone spiega l’attentato in stile Beirut in via D’Amelio con il fatto isolato dell’inchiesta mafia e appalti. Poi c’è quell’intervista, l’ultima, quella in cui Borsellino parla per la prima volta dei ‘cavalli’ di Mangano e di un flusso di denari che passava dalla Sicilia in direzione Nord. Naturalmente nessuna traccia. Nessuna menzione su questo fatto. Invece Chiocci e Conti, su Il Giornale, abbozzano una teoria comportamentista su Borsellino: se Borsellino sapeva della Trattativa, allora perché non la denunciò, “perché non la tradusse in atti formali, come era suo costume?” Se dubitava del capo del Ros, Subranni – disse alla moglie che era punciutu – perché continuò a lavorare insieme a lui fianco a fianco sino all’ultimo giorno? Subranni era il comandante dei Ros ed era il diretto superiore del colonnello Mario Mori, l’ufficiale – poi diventato capo dei servizi segreti nel penultimo governo Berlusconi – che è a processo a Palermo (con il colonnello Mauro Obinu) per avere favorito Provenzano in una latitanza lunga quarantatré anni.

Secondo il testimone d’accusa, colonnello Michele Riccio, smentito e querelato dai denunciati, furono Mori e Obinu ad avergli impedito di catturare Provenzano in un casolare di Mezzojuso (PA), indicato dal mafioso suo confidente Luigi Ilardo, poi assassinato da “cosa nostra” subito dopo aver accettato di collaborare con la giustizia (cfr. Wikipedia alla voce Mario Mori).

Mentre su Il Giornale viene dato qualche credito alla vicenda dell’ammorbidimento del 41 bis, il regime di carcere duro, giustapposta per insinuare dubbi sulla condotta dell’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e sul ministro della Giustizia Giovanni Conso, certamenti non immuni da ombre – Conso ha dichiarato di aver “autonomamente” disposto nel 1993 la sospensione del 41 bis a circa quattrocento detenuti mafiosi – su Libero viene contestato apertamente al teorema del 41 bis un certo grado di illogicità. Poiché la trattativa sul carcere duro giustifica la strage di Via D’Amelio e non l’attentato di Capaci. Allora perché ammazzare Falcone e moglie con tutta la scorta, facendo esplodere una autostrada? Il carcere duro, spiega Giacalone, fu imposto dopo la morte di Falcone, e non prima. Perché intavolare una trattativa anzitempo? Giacalone difetta di inquadramento storico: siamo nel 1992, ok? E’ morto Lima, ammazzato per strada. E’ quello il casus belli fra mafia e politica. E’ la ‘goccia che fa traboccare il vaso’. Al nord si affacciava una nuova forza politica, la Lega Nord, federalista e secessionista, il peso dei partiti tradizionali stava diminuendo, Mani Pulite sarebbe iniziata da lì a poco. Al Sud era tutto un proliferare di strane Leghe meridionaliste, con dietro le quinte personaggi ambigui come Licio Gelli. L’omicidio Lima è stato un atto di guerra. La guerra Stato-Mafia presupponeva una trattativa di pace. Un trattato di non belligeranza. La sensazione che dietro quelle stragi e tentate stragi non ci fosse solo la mafia rimane sempre molto alta, al di là delle dichiarazioni dei pentiti. Ciò che sorprende è il silenzio e i “non ricordo” dei protagonisti della politica del biennio  ’92-’93. Il Giornale e Libero non si spingono più in là delle loro tesi e, a parte sospettare di Scalfaro e Ciampi, nulla dicono del sospetto che la Seconda Repubblica – la variante videocratica della Prima Repubblica – sia il frutto malato di quella trattativa – l’opera ingegneristica di un gruppo di pavidi signori scesi a compromessi con la controparte mafiosa.

Per approfondire:

http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=1BW173

http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=1BW154

#NoTav, il conflitto eterno fra centro e periferia

Se c’è un errore più grave degli altri nella questione del TAV in Val Susa, a parte la violenza, è il metodo. Intendo quel metodo per cui si schiacciano i destini e le storie altrui per ‘far passare’ il progresso industriale. Sappiate che nel resto del mondo questo accade continuamente. In Cina, per esempio, si abbattono intere città e quartieri per costruire una rotaia o una diga. Il ‘progresso’ non sente ragioni: esso trasforma, plasma, piega, riduce i fatti umani a mere cose ‘da spostare’ e accantonare altrove, in angoli dove non disturbano nessuno.

La resistenza della Val Susa a una decisione presa da altri e per interessi non pienamente noti, è insieme la riaffermazione di un potere locale e localistico, il ritorno dell’idea di autonomia e il segno della crisi del potere centrale che non trova più alcuna legittimazione e che si perpetua attraverso la mera esecuzione di regole solo in apparenza democratiche e che invece nascondono meccanismi perversi di esclusione politica e sociale.

Come scrive E. P. Thompson in “Whigs e cacciatori. Potenti e ribelli nell’Inghilterra del XVIII secolo” (Firenze, Ponte alle Grazie, 1989):

If the law is evidently partial and unjust, then it will mask nothing, legitimise nothing, contribute nothing to any class’s hegemony. The essential precondition for the effectiveness of law, in its function as ideology, is that it shall display an independence from gross manipulation and shall seem to be just.

(Se la legge è evidentemente parziale e ingiusta, quindi essa non maschererà nulla, non legittimerà nulla, e non contribuirà all’egemonia di nessuna classe. La pre-condizione essenziale per la efficacia della legge, nella sua funzione ideologica, è che essa mostri indipendenza dalla manipolazione e sembri giusta).

La legge del TAV è una legge ingiusta poiché appare come una imposizione, perché sembra non funzionale all’interesse generale, bensì solo all’interesse particolare di quelle società di costruzione che sono un tutt’uno con l’ambiente politico. In Val Susa la legge si fa violenza e chiama violenza solo perché non è condivisa. La legge manipolata smette di essere tale e diventa sopruso agli occhi di chi la subisce. Ecco perché lo Stato ha fallito a Chiomonte. Esso non è più Stato ma potere privato. Se è tale è ingiusto e l’ingiustizia deve essere combattuta.

#NoTav, le foto di Luca Abbà sul traliccio prima di cadere

Le foto che seguono sono tratte dal video registrato dalla polizia e pubblicato da La Repubblica sul suo sito. Gli scatti chiariscono la dinamica con cui è avvenuto l’incidente a Luca Abbà, salito sul traliccio dell’alta tensione con lo scopo di rallentare le operazioni di esproprio messe in atto dagli agenti questa mattina al fine di allargare il cantiere della TAV.

Nella prima foto si vede Luca che sembra parlare al telefono: forse sono gli istanti in cui parla a Radio Black Out. Poi Luca si avvicina pericolosamente ai cavi dell’alta tensione mentre nell’ultimo fotogramma, Luca sta per essere raggiunto da un uomo della polizia.

Quello che accade dopo è la caduta di Luca a terra, folgorato dalla corrente elettrica e con un polmone perforato. Passano istanti lunghissimi prima che sia dato l’allarme e che giungano i soccorsi. La polizia ha fatto sapere oggi di aver intimato più volte a Luca di scendere dal traliccio, ma se osservate il video, tutto l’episodio si consuma in pochissimi minuti ed è quindi da escludere che ci sia stata una vera e propria trattativa per farlo scendere con le buone dal traliccio.

Capitani vigliacchi e marinai poco coraggiosi nel mar mosso del default

La strada sarebbe stata lunga. Sono lunghe tutte le strade che conducono a ciò che il cuore brama. Ma questa strada l’occhio della mia mente la poteva vedere su una carta, tracciata professionalmente, con tutte le complicazioni e difficoltà, eppure a suo modo sufficientemente semplice. O si è marinaio o non lo si è. E io di esserlo non avevo dubbi. (J. Conrad, La Linea d’ombra, Einaudi, p. 67).

O si è marinaio o non lo si è. O si è capitani o non lo si è. Di capitani coraggiosi questo mondo è assai povero. E non è un caso se nemmeno se ne trovano sulle navi, quelle vere. La vicenda del Capitano Schettino, l’uomo che dinanzi alla catastrofe non sa esser uomo e fugge da sé medesimo, dalla responsabilità, è una parabola triste di un sistema sociale, economico, finanziario, pieno di falle, con scogli conficcati nella pancia, nella stiva, con squarci ben più lunghi dei sette metri della Costa Concordia.

E se fino a qualche tempo fa il vascello senza guida, diretto nel baratro del default finanziario e politico, era il nostro paese per intero, guidato da un Capitano che non solo non era coraggioso ma era pure ingannatore, oggi la Nave da Crociera puntata verso il suo scoglio è nientemeno che l’Europa. Là, a Bruxelles, non c’è alcun capitano. La Nave non ha alcuna guida e nessuno aspira ad averla. E’ tutto un sottrarsi dalle responsabilità. Angela Merkel ignora l’appello di Mario Monti di oggi. L’Italia non deve essere aiutata dalla BCE. La Grecia? Parrebbe già affondata per metà, o tre quarti, inclinata di novanta gradi. E’ solo una questione di metri, pochissimi, poi il fondale è toccato. Fitch, una della triade del Rating, il triangolo della morte (o del paradiso, a seconda del loro personalissimo giudizio – “sono solo opinioni”, cfr. Inside job), si è accorta in queste ore che i greci sono affondabili, che la scialuppa di salvataggio dell’EFSF è peggio che una bagnarola e che l’inaffondabile Merkel non cambierà rotta.

Invece questo fallatissimo mondo ha bisogno di qualcuno con l’occhio del marinaio, con il cuore del marinaio. Qualcuno che sappia prendere il timone e virare a dritta. Senza il timore delle conseguenze. C’è bisogno di azione, subito e ora. Lo scoglio è vicinissimo. Troppo vicino. E’ passata la metà di Gennaio e l’Italia si finanzia ancora al 7%, centesimale più, centesimale meno. Il vero naufragio, questo sì che è roba grossa, ci potrebbe coinvolgere fra un mese, forse un mese e mezzo. Se l’Italia sarà in grado di finanziarsi ancora sui mercati, avremo superato la linea d’ombra, quella che divide i semplicemente vivi dai sopravvissuti.

Non saprei dire se Mario Monti è un vero marinaio. Non so se è il capitano giusto per la nave enorme che è questo paese, pieno di ciurmaglia, di sgherri al servizio dei loro padroni. Se dentro se stesso sente davvero di esserlo, allora la smetta con i tecnicismi e parli al cuore di noi mozzi e marinai.

Noi siamo Lord Jim, questo codardo che a un certo momento salta dalla nave e abbandona migliaia di pellegrini al loro destino. E poi comincia il grande rimorso, il senso di colpa. E tutti noi, un giorno, abbiamo «saltato»… (Ugo Mursia, cfr. Federica Almagioni, prefazione a Joseph Conrad, Lord Jim, traduzione di Alessandro Gallone, Alberto Peruzzo Editore, 1989).

Forse dovremo, prima di giudicare il pavido Schettino, giudicare noi stessi, poiché ognuno di noi dinanzi alle difficoltà ha la tentazione di scegliere per la via di fuga più vicina. Possiamo fuggire dalle nostre responsabilità verso il paese proprio ora che la nave deve affrontare la Tempesta perfetta? Possiamo permetterci di evocare la secessione, o la ribellione, dinanzi alla maggiore tassazione e alla riduzione della sfera dei diritti?

Quello che ci accomuna è il medesimo destino. Là, nel mare, non c’è scampo. Se si è da soli si è presto morti. E non giova a nessuno remare contro. Bisogna, per forza di cose, remare tutti nella medesima direzione. Che vuol dire esser tutti sottoposti alla clave delle liberalizzazioni e della riduzione dei privilegi. Tutti, ripeto, indistintamente. Perché se proprio i capitani non danno il buon esempio alla ciurma, allora c’è poco da sperare. Se questi capitani, che non sono nemmeno eletti ma nominati per mezzo di quella sporca legge del Porcellum, non mettono fine al gozzoviglio del denaro pubblico, allora non resta che l’ammutinamento. Proprio come sul Concordia, mentre i capitani fuggono, i paria, gli ultimi, dovranno sbrigarsela da soli.

Casale e l’Amianto. Morire sorridendo con 18 milioni

Eternit, anni 20, Casale Monferrato

Sono ancora qui a chiedermi cosa sia passato per l’anticamera del cervello al sindaco Demezzi e ai consiglieri comunali di Casale Monferrato, venerdì notte. Perché abbiano stretto la mano al Diavolo, perché abbiano accettato quegli spiccioli che quel tale, Stephan Schmidheiny, ha sventolato loro dinanzi al muso.

Sono stato diverse volte a Casale. A Casale viveva quella ragazza che poi si uccise a Torino (una storia di violenza e depressione la sua). Il padre era un eccellente pittore. Si chiamava Cavalli. Tutta gente eccellente, a Casale. Gente che lavora ma che ha una storia, una coscienza politica, una tradizione industriale non di poco conto. Ebbene, chi ha frequentato Casale, come me, conosce bene quell’odore che si respira entrando in città. E’ ancora là, quella maledetta polvere: appena dopo il sottopasso ferroviario, sulla sinistra. Ha un profumo che ricorda vagamente il cartone, ma no è diverso, non è cartone, sono tante piccole lame che si ficcano negli alveoli, e non te ne accorgi, sono già dentro di te.

Quest’anno – 2011 – sono quarantasette i malati di mesotelioma e asbesto. Persone che non hanno mai lavorato in Eternit. Quarantasette morti che camminano. Da domani potranno farlo sorridendo con quella sporca mazzetta da 18 milioni che il sindaco – così dice – impiegherà per migliorare la città e fare ricerca contro quel tumore. Ve lo dico: diciotto milioni sono una barzelletta. Per curare il mesotelioma ci sarà voluta, in tutti questi anni, una cifra almeno cento volte superiore. Non è nemmeno configurabile come un risarcimento danni, no. I soldi di Schmidheiny sono una pugnalata che sindaco e soci danno ai cittadini di Casale.

Ho riportato su questo blog, quasi per intero, il comunicato stampa del sindaco. Menzogne, parole che scivolano via addosso se solo si pensa alla voragine di dolore che quei due svizzeri (il barone, quello ha addirittura cent’anni e nessuno laggiù all’inferno – perché è lì che andrà – si è mai sognato di chiamarlo) hanno seminato per tutta Casale.

Infine i soldi. «Totalmente» destinati alle bonifiche e alla ricerca all’ inizio della settimana scorsa, quando si fingeva che i giochi fossero ancora aperti, «in parte» oggi che la decisione è presa. Casale Monferrato non aveva urgenza di andare all’ incasso. Tra i comuni piemontesi con oltre trentamila abitanti è quello con il bilancio più florido. E le bonifiche sono finanziate dalla Regione, anche per una legge voluta dall’ assessore monferrino Paolo Ferraris, che riuscì a farla approvare prima di essere ucciso dal mesotelioma (corsera).

Ferraris è morto. A lui hanno intestato il palazzetto dello sport. Ieri Casale, quella del basket, ha sconfitto Cantù in una storica partita. La storia dello sport non cancellerà però la traccia lasciata dalla vergogna di una decisione ridicola e priva di senso, se non quello di profittare dei denari per i propri conti e per quelli del proprio partito. Dopo una scelta del genere, ci sono solo il precipizio della corruzione etica e le dimissioni. Se non altro per manifesta indecenza.