Caro Primo Ministro. E’ la voce di un manifestante di piazza Taksim che circola sul web.
“I was an apolitical man; then how come I took to the streets? Not for two trees. I rebelled after seeing how, early at dawn, you have attacked those youngsters who were silently protesting in their tents. I took to the streets because I do not wish my son to go through the same things and I would like him to live in a democratic country”.
Sono apolitico, ha detto Cem Batu, Direttore Creativo di una Agenzia di pubblicità, ma mi sono indignato per come sono stati trattati quei giovani che protestavano per gli alberi di Gezi. Per come sono stati ingiustamente attaccati. No, la rivolta non accade a causa di due alberi, ma per la Democrazia. Chi protesta a Ankara chiede Democrazia, chiede futuro.
La Turchia, uno dei paradisi del capitalismo rampante delle periferie, esplode in tumulti. Gli indicatori economici mantengono segno positivo a dispetto dei partner europei, gravati dalla scure dell’austerità. Eppure il paese entra nel caos e l’innesco è rintracciabile in quel meccanismo plutocratico che stava per cancellare un parco, l’unico parco pubblico in una città di quattordici milioni di persone. La chiave per comprendere i fatti di Gezi si trova quindi in una sola parola: pubblico. La macchina capitalistica, l’interesse privatistico di un centro commerciale stava per distruggere uno spazio pubblico, l’ultimo spazio pubblico rimasto. La protesta turca ricorda a tutti noi che un paese è molto più di un indicatore macroeconomico. Un paese è convivenza.
Non saprei dire se si tratta dell’ultima propaggine della Primavera Araba. Forse ci troviamo di fronte a un fenomeno nuovo, un evento di emotività collettiva. Il sistema politico, sordo alle richieste di partecipazione, chiuso in circuiti autoreferenziali e fondamentalmente orientato a reprimere il dissenso, non ha più strumenti per comprendere l’opinione pubblica. E ignorando la domanda di politiche per il benessere comune, innesca la rabbia per la mancanza di politiche. Qualcosa di simile, su scala diversa e forse con un grado di indignazione diversa, accade anche da noi. E’ un sentimento diffuso in Europa, quello dei giovani di Gezi Park. La difesa dello spazio comune è diventata una battaglia di resistenza contro il sopruso del potere politico/plutocratico. Sbagliate a pensare che si tratti di Medioriente, o di Primavera Araba o di complotti degli americani orditi con i social network: siamo noi i giovani di Ankara e di Istanbul. Noi europei.
Le Primarie dei parlamentari PD non sono state copiate, come scrive Beppe Grillo, ma nascono nel PD e dal PD. E’ stata Prossima Italia – dubito che Grillo sappia di cosa si tratti – nel corso di Gennaio 2012 (“la proposta di Quarto”) a lanciare l’idea della selezione dei candidati alle politiche 2013 con il metodo delle primarie al fine unico di superare l’anomalia delle liste bloccate del Porcellum e di un nuovo Parlamento di nominati. Tutto ciò che è venuto dopo paga dazio a quell’idea originaria, nata dalla necessità (e non dalla convenienza) democratica.
Vengono così inaugurate, dopo le Parlamentarie del M5S, le Buffonarie del pdmenoelle. Le Buffonarie avranno una “modica quantità” di aspiranti parlamentari, un 10%, scelti da lui,medesimo: Gargamella Bersani. Nomi indimenticabili ci accompagneranno anche nella prossima legislatura, mai più senza Rosy Bindi, Anna Finocchiaro, Franco Marini, Giorgio Merlo, Maria Pia Garavaglia, Beppe Fioroni (blog Grillo).
Sappiate che i derogati dovranno passare ugualmente per primarie. Cioè, ottengono la deroga per potersi candidare non al parlamento e nemmeno nel listone del segretario, bensì per potersi sottoporre al vaglio degli elettori. La base elettorale sarà quella del 25 Novembre, a cui si aggiungono tutti gli iscritti del PD più quelli che lo erano nel 2011 e che hanno mostrato intenzione di rinnovare la tessera. Tanto per intenderci, si parla di una base elettorale di partenza di tre milioni di persone. Che a causa della data infelice, il 29 o il 30 Dicembre, a seconda della scelta delle direzioni regionali, chiaramente si ridurrà al 30-40% circa (una stima personale, sia chiaro), ovvero supererà di poco il milione di votanti. Al cospetto dei 20mila votanti delle blindatissime parlamentarie del M5S è comunque un numero enorme. Inoltre, sono candidabili anche i semplici elettori, i quali però devono raccogliere un numero di firme fra gli iscritti non inferiore a 50. Questa è di fatto una rivoluzione, checché ne dica l’esperto in buffonerie.
Beppe Grillo dice che le nostre #primarieparlamentari sarebbero «buffonarie». Lo scrive sul suo blog, nel poco tempo che gli deve essere rimasto tra un’epurazione e l’altra. Ma non facciamo polemica, non serve. Facciamo in modo che siano le elettrici e gli elettori democratici a rispondere. E a partecipare. Nonostante la data, i Maya e i pregiudizi che sempre ci accompagnano. Che tutte e tutti coloro che sono nelle condizioni di farlo, vadano a votare. E scelgano il proprio parlamentare e lo accompagnino per i prossimi cinque anni. Questo è il senso delle nostre primarie per i parlamentari. Che sono state concepite un anno fa. Ma tutto questo Beppe non lo sa (ciwati).
L’invito è quello di Partecipare. Non fatevi tentare dal ritornello dell’indignazione. Tutto può cambiare. Occupare il PD è un’idea rivoluzionaria. E votate donna.
Fare una sorta di analisi dello schema argomentativo (e difensivo) impiegato da Giovanni Favia per non soccombere sotto la fatwa di Grillo-Casaleggio è indispensabile per non cadere nella trappola della imprecazione, al grido di “complotto! complotto!”, un grido tanto facile alle pletore dei fan del comico (e indirettamente del ventriloquo).
Favia scrive: “Nel mio sfogo del fuori onda, parlando di assenza di democrazia, non attaccavo il Movimento, ma un problema che oggi abbiamo e che presto dovrà risolversi. Ovvero la mancanza di un network nazionale dove poter costruire collettivamente scelte e decisioni, comprese le inibizioni e le attribuzioni del logo. Questa falla concentra tutto in poche mani, seppur buone e fidate, generando una contraddizione che spesso sul territorio ci viene rinfacciata. Non è un problema di sfiducia, è un problema d’efficienza, d’organizzazione e di principio”. Favia in questa frase mette in evidenza il punto cruciale del M5S: l’assenza di regole. Il non-statuto non specifica alcuna modalità operativa. Nulla. E’ stato detto e ridetto. Un movimento ha necessità di organizzazione per poter funzionare e prendere decisioni motivate da una discussione che sia quanto più estesa possibile. Ma il duo comico-più-ventriloquo vede le regole come fumo negli occhi. Senza regole hanno potuto drenare attraverso il web un potere gigantesco in termini di consenso. Un consenso che ora devono capitalizzare affinché sia pienamente remunerativo per la propria impresa di marketing comunicativo. L'”esperimento” del Movimento 5 Stelle è un caso da laboratorio e presto farà scuola. E’ la dimostrazione che il web può essere messo al servizio di ideologie e di anti ideologie, al fine di coinvolgere e sussumere l’individuo all’interno di categorie predefinite, quindi da renderne il comportamento assolutamente parametrizzato e pertanto prevedibile e prevenibile.
Favia bis: ” Il Movimento è un grande sogno, non è Favia, non è Casaleggio. L’ultima occasione per questo paese, per riscattarsi. Mesi fa incontrai un giornalista, mi intervistò in merito alla democrazia interna nel livello nazionale. Tavolazzi era stato un grande compagno di battaglie, come me, sin dagli inizi. Lo vidi piangere, dopo l’inibizione al logo. Ero arrabbiatissimo. In pubblico non ho mai voluto manifestare il mio disagio per non danneggiare la nostra battaglia. Da ormai 5 anni sto dando la mia vita per il movimento 5 stelle, contribuendo alla sua nascita. Ora ci sono dei problemi, li chiariremo tutti insieme”. Ecco, il caso Tavolazzi è stato ben più che la rimozione di un ostacolo. E’ stato, per così dire, un tradimento di quella regola tacita che però nel movimento è evidentemente condivisa. Una regola meritocratica, secondo la quale un signore come Tavolazzi, con spirito ed idee adeguate, non può esser mandato via perché non ha obbedito alla volontà del capo (nascosto). In una logica di orizzontalità, di “uno vale uno”, il licenziamento di Tavolazzi è uno sfregio. E’ di fatto la negazione stessa di questa tanto evocata orizzontalità. Rappresenta il fallimento del progetto. Poiché dinanzi al dilemma del numero, anche il Movimento 5 Stelle non ha potuto sottrarsi alla ferrea legge dell’oligarchia (cfr. Roberto Michels). Una organizzazione reagisce alla difformità della moltitudine individuando gerarchie fondate sul potere, nelle quali il potere medesimo è delegato dall’alto verso il basso secondo linee relazionali dipendenti dal grado di fedeltà al vertice. Potere in cambio di disponibilità e di asservimento è il mezzo migliore per tenere insieme una organizzazione così poco burocratizzata. Ed ecco che riemerge la figura carismatica, la guida simbolica, che non ha bisogno di regole poiché ogni regola è desunta dalla sua propria personale interpretazione di ciò che è bene per gli altri. La sua, solo la sua, ha validità poiché Egli ha capacità straordinarie di conoscere lo spirito del tempo. Qualcosa che la Storia ci ha insegnato più di una volta.
Intanto, il blog di Grillo, a parte uno scarno comunicato del vetriloquo Casaleggio, rimane in silenzio come una qualsiasi Pravda.
Nel movimento di Grillo non c’è democrazia. Queste le parole di Favia. Dovremmo sorprenderci o indignarci? Non è un fatto nuovo. Lo stesso Favia è stato indicato dal duo Grillo-Casaleggio per le regionali 2010. Poi il vertice del M5S gli ha preferito Bugani, consigliere comunale bolognese, come referente/informatore. Il Movimento, secondo il comico e il ventriloquo, deve essere comandato. Non c’è struttura né gerarchia né regole scritte. Le regole le scrivono loro. A loro piacimento. Che dire: questi sono fatti noti da tempo. Non serve un fuori onda per denunciarli. Sono due anni e forse più che se ne parla sul web. Anche Favia è stato spesso coinvolto in queste discussioni. Se oggi afferma che nel M5S non c’è democrazia, allora evidentemente se ne è accorto pure lui.
L'intervista di #Favia era di quattro mesi fa. direi che mandarla in onda va bene, ma andrebbe detto. giusto per correttezza. #Piazzapulita
Che poi questa storia dell’intervista ad orologeria non regge. Formigli ne parla sul suo blog, specificando che l’inchiesta è stata svolta a fine Maggio e che l’ultima puntata di Piazzapulita della scorsa stagione televisiva è datata 7 giugno, troppo poco per finire di montare i servizi. Ma Favia sentiva odore di bruciato (intorno a sé). Se ricordate bene, già Santoro si lanciò in una durissima reprimenda sul duo Grillo-Casaleggio. Era il segnale che qualcosa stava cambiando. Il segnale di una rottura fra ambienti di sinistra e il comico-ventriloquo.
Il cleavage è evidente: da una parte i tipi de Il Fatto Quotidiano; dall’altra il gionalismo in quota sinistra-centro-sinistra (una galassia che da Il Manifesto passa per Telese, per La Repubblica e si chiude con quelli di Europa). La stessa frattura emersa con il caso Napolitano-Mancino. Non è un caso.
Ed attenzione, perché il ventriloquo lascia per un momento il suo pupazzo con i ricci grigi e pretende di parlare con la propria voce e persino di essere creduto. Surreale, no? La maschera è caduta e ancora una volta rimaniamo straniti: “pensavo che Oz avesse una grande testa” (Dorothy ne Il Mago di Oz, Frank Baum).
A me Casaleggio pare un tipo di un'intelligenza grandiosa, Favia un cretinetto. Nel Pd serve un Casaleggio, invece siamo pieni di Favia
Credits Der Spiegel – il grafico mostra la differenza fra i Quantative Easing della Federal Reserve e i programmi LTRO della BCE.
Commenti duri sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung. Con un editoriale intitolato “Possono non pagare?”, sebbene il programma OMTs, Outright Monetary Transactions, sia posto all’interno di una procedura che prevede condizioni severe da sottoscrivere con un Memorandum of Understanding, il direttore di FAZ.net si chiede cosa potrebbe fare la BCE qualora un paese come l’Italia non rispettasse gli impegni. Letteralmente: “What will the ECB do when in Italy the often promised easing of employment protection does not arrive? Then sells them Italian bonds?”. Può vendere titoli di stato italiani? No, è la ovvia risposta. La BCE non avrebbe alcun potere per far rispettare i Memorandum. Ma è davvero così?
Non saprei dire quanto l’interpretazione dei falchi della FAZ.net sia intrisa di pressapochismo e quanto di ideologismo. Naturalmente l’intervento della BCE è condizionato alla richiesta del paese in difficoltà. Il Memorandum ne costituisce una sorta di “messa sotto tutela” o di commissariamento che – come nel Trattato ESM – viene perpetrato da parte di un organismo formato da rappresentanti dei governi, rappresentanti nominati, non eletti. Nel caso del Meccanismo Europeo di Stabilità veniva creato un board parallelo alla BCE per poter operare bypassando i divieti contenuti nei Trattati. Ma la minaccia del giudizio di incostituzionalità della Corte Federale tedesca ha indotto Draghi a muoversi ugualmente quasi spingendo la BCE verso un territorio non ancora tracciato da alcuna linea di regolamentazione giuridica, essendo quel territorio proprio di una banca federale. Se l’Euro è la moneta senza Stato, la BCE oggi è una banca federale senza alcuna federazione. Scrivono sulla FAZ: ora la politica monetaria ha messo sotto sequestro la politica fiscale, che è prerogativa dei governi nazionali, quindi della politica nazionale. Di fatto oggi Draghi è entrato su un “terreno di proprietà privata”.
Senza una Costituzione federale, senza un governo federale, un presidente e un parlamento democraticamente eletti, la costruzione europea tende a procedere enfatizzando il suo carattere tecnocratico. Il potere della BCE è diventato un potere di sostituzione, è di fatto un potere d’eccezione in uno stato d’eccezione (cfr. C. Schmidt) che straordinariamente è trasmigrato da una istituzione politica a una economica. Lo Stato d’eccezione è un vuoto giuridico, una sospensione del diritto paradossalmente legalizzata (G. Agamben, 2003). In questa eccezionalità, la BCE ha fatto dei “prigionieri politici”, o per meglio dire ha fatto i politici prigionieri.
The leaders of the south of the euro zone may be happy, they can continue to borrow at low interest rates and do not need to worry about investors. But the leaders of the North are satisfied, they can hide behind the ECB and do not bother about the Bundestag with the uncomfortable question but repeated increases in liability for Germany (FAZ.net).
Così noi del Sud possiamo essere felici. Possiamo finanziarci a tassi relativamente bassi senza dover fare assolutamente nulla. Ma anche i leader dei paesi del Nord sono felici, scrivono i tipi della FAZ. Perché ora si potranno tutti nascondere dietro l’ombra del potere della BCE e non preoccuparsi della frequentissima richiesta del Bundestag di prendersi maggior responsabilità in Europa. Sì, possiamo tutti vivere tranquilli, sotto il paternalistico autoproclamato governo della BCE.
Che poi è vero, un quantitative easing era l’unica strada possibile. Ma l’emergenza ha trasformato la BCE in un governo europeo. Un governo privato europeo.
Ciò che spontaneamente vien da pensare su Julian Assange, chiuso dentro l’ambasciata dell’Ecuador, è che egli non sia ciò che vediamo. La sua immagine, mentre è affacciato da un balconcino dell’Ambasciata, pare quella di un uomo che nasconde qualcosa, che opera per secondi fini mai dichiarati e dichiarabili, finanziato da qualche organizzazione segreta, al centro di un complotto mondiale architettato dal Mossad. La domanda “Chi è Assange?” porta in sé un’altra e più scomoda domanda: chi si nasconde dietro Assange?
Hacker, un ignobile lavoro, secondo Mario Vargas Llosa. Un hacker ruba informazioni. Un hacker è un ladro. Non c’è niente di dignitoso in ciò che fa. Mario Vargas Llosa non usa mezzi termini. Julian Assange è soltanto un signore che sta cercando di sfuggire a un giudizio per stupro. “C’è un tale groviglio di confusione sulla sua persona, creato da sé stesso e dal suo entourage”, scrive.
Ci sono milioni di persone in tutto il mondo convinte che lo spilungone australiano dai capelli bianchi e gialli che appariva pochi giorni fa sul balcone dell’ambasciata ecuadoregna di Knightsbridge, Londra, la preferita dagli sceicchi arabi, a tenere una lezione sulla libertà di parola al presidente Obama, sia un perseguitato politico degli Stati Uniti, che è stato salvato in extremis niente di meno che dal presidente dell’Ecuador, Rafael Correa , cioè il paese, dopo Cuba e Venezuela, che ha commesso i peggiori abusi contro la stampa in America Latina, con chiusura di emittenti, giornali, trascinando in tribunali servili giornalisti e giornali che hanno osato denunciare il traffico e la corruzione del suo regime, presentando una legge bavaglio che ha praticamente decretato la fine del giornalismo indipendente nel paese. In questo caso vale il vecchio detto: “Dimmi chi sono i tuoi amici e ti dirò chi sei”. Poiché il Presidente Correa e Julian Assange sono tali e quali (Mario Vargas Llosa, El Pais).
Lo scrittore sudamericano non spende una parola per discutere nel merito le accuse che sono valse a Assange l’esilio in ambasciata ecuadoregna. Llosa afferma che se Assange ha trovato asilo nel “regno” di Correa, allora è come lui. Correa ha dichiarato oggi di non approvare i metodi di Assange ma è indubbio che egli è perseguitato dagli Stati Uniti per i segreti che ha rivelato. Il regime di Correa è fieramente avverso agli USA. Llosa ricorda che gli USA non hanno fatto ancora alcuna richiesta di estradizione, né Assange figura come indagato in alcuna inchiesta americana, ma è chiaro che se il fondatore di Wikileaks fosse estradato in Svezia, allora il segretario di Stato Hillary Clinton potrebbe pretendere che Assange sia consegnato alle autorità USA. Secondo Llosa Assange non è vittima della libertà di parola, ma è un fuggitivo che con questa scusa evita di render conto dell’accusa di violenza sessuale. Le rivelazioni delle varie operazioni, Afghan War Logs, Iraq War Logs e il definitivo Cable Logs, hanno secondo Llosa, hanno violato la sfera di segretezza dello Stato americano, una sfera di segretezza che ha diritto di esistere affinché uno Stato possa mantenere relazioni corrette con i propri alleati, con i paesi neutrali, e in particolare con gli avversari manifesti o potenziali.
I sostenitori di WikiLeaks dovrebbe ricordare che il rovescio della medaglia della libertà è la legge, e che, senza di essa, la libertà scompare nel breve o nel lungo periodo. La libertà non è e non può essere anarchia e il diritto all’informazione non può significare che in un paese scompaiono riservatezza e confidenzialità e che tutte le attività amministrative dovrebbero immediatamente essere pubbliche e trasparenti. Ciò significherebbe paralisi a titolo definitivo o anarchia e nessun governo può, in un tale contesto, esercitare le proprie funzioni e sopravvivere. La libertà di espressione è completata, in una società libera, dai tribunali, dai parlamenti, dai partiti politici di opposizione i quali sono i canali giusti a cui si può e si deve ricorrere se si ha indizio che un governo nasconda o dissimuli delittuosamente iniziative e attività. Ma attribuirsi questo diritto a procedere manu militari e far saltare la legge in nome della libertà è degradare questo concetto in maniera irresponsabile, convertendolo in libertinaggio. Questo è ciò che WikiLeaks ha fatto, e la cosa peggiore, credo, non a causa di alcuni principi o convinzioni ideologiche, ma spinto dalla frivolezza e dallo snobismo, vettori dominanti della civiltà dell’intrattenimento in cui viviamo (M. V. Llosa, cit.).
Julian Assange non è un crociato per la libertà bensì un opportunista in fuga. Così Llosa. In un articolo che mi ha spiazzato, poiché proprio in questi giorni ho scritto un pezzo in cui dicevo esattamente il contrario. Assange come nuovo parresiastes, che pratica la parola franca, libera: un uomo che opera al servizio della verità, qualcosa che ha permeato tutta la propria esistenza, sin da quando era un giovane hacker e insieme agli International Subversives attaccava la rete intranet della NASA. Era il 1989 è stava per essere lanciata la sonda Galileo. La NASA operò sull’opinione pubblica per nascondre o minimizzare il fatto che la sonda montasse un propulsore atomico. Il gruppo di Assange, anarchico e ambientalista, inserì nella rete DECNET della NASA il worm WANK. Fu il secondo attacco worm della storia dell’informatica. Il primo a carico di una rete di computer. Il primo a carattere politico. Se Wikileaks anni dopo non avesse pubblicato il video Collateral Murder, il video degli Apache USA che uccidono i civili iracheni, mai avremmo saputo dei crimini di guerra USA commessi durante il conflitto in Iraq. Allo stesso modo se il Washington Post non avesse pubblicato le rivelazioni alla base del Watergate, il presidente Nixon non avrebbe mai dovuto render conto all’opinione pubblica del suo sistema di spionaggio degli avversari politici. Medesima cosa dovremmo dire di quando il New York Times pubblicò i Pentagon Papers, i documenti top-secret di 7000 pagine del Dipartimento della difesa americano che contenevano uno studio approfondito del governo su come aggiustare la storia della guerra in Vietnam e dei massacri di massa che vennero perpetrati dalle forze armate USA. Wikileaks esiste perché i governi studiano macchine burocratiche per controllare la verità, perché i governi impiegano la mimesis, la tecnica della rappresentazione e della persuasione, per “difendere” l’opinione pubblica dalla realtà e in questo modo prolungare il proprio potere e quello dei gruppi di interesse a cui fanno riferimento. Vargas Llosa farebbe bene a rendersene conto.
[La foto soprastante è relativa ad una partecipazione televisiva di Casadei, ma “Salotto Blu” non e’ pagamento. E’ infatti generalista e su temi vari. E’ di un’altra emittente tv rispetto a Teleromagna che manda in onda La mia Regione].
Diciamo subito che si tratta di una guerriglia giornalistica neanche troppo convincente. Da una parte Repubblica, che titola su Favia e i 5 Stelle e Grillo che parla di funerali quando non serve e di televisioni e radio locali che organizzano dibattiti a pagamento senza specificarlo; dall’altra Il Fatto Quotidiano, che spara in home page le presunte dichiarazioni del consigliere regionale del PD, Thomas Casadei, il quale avrebbe ammesso che anche le apparizioni tv dei consiglieri regionali democratici avvengono a pagamento.
“Non poteva mancare il PD”, scrivono. E’ bastato “fare un viaggio furori dalle porte di Bologna”, sulla A14, specificano. Come dire: voi di Repubblica non fate le verifiche dei fatti. Noi del Fatto invece sì. Ce l’abbiamo nel titolo. Capirai. Citano Teleromagna e Telerimini, i cui uffici commerciali avrebbero venduto spazi tv a consiglieri regionali “di tutti i partiti”, PD compreso. Questa sconcertante rivelazione merita il Pulitzer, c’è da giurarlo. Se si tratta di propaganda, nulla di anomalo. Succede, soprattutto in tempi di campagna elettorale. Durante il 2012 deve essere senz’altro accaduto. Per via delle amministrative, eccetera.
Il problema è far passare questa affermazione per una ammissione di “colpevolezza”. Il messaggio che si vuol veicolare è analogo a quello imbastito da Repubblica sulle spalle di M5S, SeL, Lega, PdL. Vi ingannano, vanno in Tv ma niente di autentico: è tutto preconfezionato su misura dal partito, che paga con i soldi dell’istituzione regionale. Addirittura trovano in Thomas Casadei, consigliere regionale del PD, la “gola profonda” che smentisce il capogruppo Richetti, secondo cui la prassi seguita dal M5S “è immorale”.
La stessa emittente [Teleromagna] mette a disposizione un programma di circa 15 minuti, in cui gli eletti hanno la possibilità di spiegare cosa fanno e cosa hanno intenzione di fare. Si chiama “La mia Regione” ed è utilizzato anche dal gruppo regionale del Pd. “Abbiamo un regolare contratto – conferma il consigliere regionale del Pd Thomas Casadei, più volte seduto negli studi di Teleromagna – ma viene sempre indicato che si tratta di una trasmissione a cura del nostro gruppo politico” (Il Fatto Quotidiano).
Thomas Casadei ha risposto oggi con una nota stampa. Secondo Casadei l’articolo del Fatto presenta delle inesattezze. A mio avviso, tali inesattezza producono nel lettore la sensazione voluta, alla maniera dell’articolo di Repubblica nei confronti del M5S. Si tratta in fondo di bassapratica di bottega. Repubblica attacca i 5 Stelle; il Fatto risponde contro il PD. Sapete quindi come si sono scelti la parte, entrambi.
In ogni caso Casadei specifica che
una modalità è quella di veicolare il proprio messaggio politico e istituzionale, con specifico riferimento a provvedimenti, progetti e proposte, mediante forme strutturate, con titoli, contenuti e format mirati, entro campagne istituzionali e d’informazione tramite i vari mezzi di comunicazione (giornali, radio, televisioni, social network). In questo caso è chiaro lo specifico intento di servizio ai cittadini su ciò che viene realizzato o sui problemi aperti, con riferimenti espliciti al partito di appartenenza e alle finalità della comunicazione, con procedure regolamentate con appositi contratti e attingendo ai fondi che la Regione mette a disposizione delle «attività di comunicazione» dei diversi gruppi.
Prosegue Casadei affermando di aver partecipato, nella veste di consigliere regionale del PD, ad una trasmissione Tv progettata e mirata a queste funzioni, dal titolo “La mia Regione”, i cui contenuti “sono legati alle campagne istituzionali e di informazione promosse dal Gruppo PD”. Ogni trasmissione era focalizzata su singoli temi specifici ed era evidente il richiamo al simbolo del partito.
Che a questa attività si accompagnino saltuariamente, per i singoli consiglieri, presenze a invito in singole puntate di trasmissioni generaliste o legate alla cronaca quotidiana rientra nella normale modalità di confronto e informazione politica. Per quel che ci riguarda ciò deve avvenire, e avviene, senza alcun pagamento da parte dei consiglieri. E così è sempre stato per quel che mi riguarda. Singole interviste a pagamento in trasmissioni televisive generaliste, che non distinguono il momento dell’informazione da quello più propriamente di propaganda, rischiano di configurare una pratica non appropriata e che presenta elementi di non chiarezza per i telespettatori.
Con queste righe Casadei pone un discrimine evidente, che Favia ha fatto molta fatica a individuare. Da un lato vi sono trasmissioni a carattere pubblicistico, create con lo scopo di divulgare il messaggio politico istituzionale. Dall’altro le trasmissioni quotidiane in cui si è invitati per parlare degli eventi di cronaca o simili.
Va da sé che i giornalisti del Fatto, Liuzzi e Zaccariello, affermano di aver visto alcune puntate de “La mia Regione”, reperite “in rete”. Ho voluto vederle anche io e non le ho trovate (vedi prossimo paragrafo). Ma sarà sicuramente un problema di inesperienza, loro che sono giornalisti avranno altri potenti motori di ricerca. Noi comuni mortali abbiamo Google e poco altro. Vi allego i link alle mie infruttuose ricerche:
Ricerca “teleromagna la mia regione” su sezione video di Google (ho cercato sino alla pagina 10, senza successo) : link
Ricerca video Youtube (appena sei risultati) – “teleromagna la mia regione”: link
Grazie alla segnalazione di Giovanni Stinco sulla pagina Fb di Yes, political! è possibile vedere alcune puntate di ‘La Mia Regione’, quelle in cui è presente Casadei. Potete trovare i video nella pagina Youtube del consigliere PD, sotto il titolo “Politica in Movimento”. Sono evidentemente spazi di comunicazione politica dedicati a politici forlivesi, dal sindaco ai consiglieri comunali sino a Casadei. E’ chiaramente una trasmissione orientata a pubblicizzare le iniziative politiche dell’amministrazione di Forlì. A turno, gli invitati vengono introdotti a specifici argomenti come il futuro dei giovani o delle istituzioni locali. Negli ultimi filmati pubblicati non sono presenti, né in testa né in coda, riferimenti alla tipologia di comunicazione politica a pagamento ma non è chiaro se siano registrazioni complete o se in coda siano stati operati dei tagli. In apertura del filmato compare la scritta “un programma a cura della redazione politico-economica di Teleromagna” e il programma medesimo è condotto da Pier Giorgio Valbonetti. In quelli meno recenti, a circa due minuti e mezzo dall’inizio del filmato compare la scritta in sovraimpressione che specifica si tratti di “messaggio a pagamento”.
Ecco la foto che lo prova (in piccolo, sotto la scritta La politica in movimento):
Casadei, La Mia Regione, indicazione del “messaggio politico a pagamento”, Gruppo Assembleare PD E-R
Non credo sia buon giornalismo quel giornalismo che nasconde le fonti (a meno che non si mettano in pericolo delle vite, ma non è questo il caso). Tanto più se lo fa per raccontare una realtà aggiustata. Ho già espresso la mia sul caso dei 5 Stelle e potete prenderne atto leggendo gli ultimi post in merito (qui, qui e qui). Mi sono focalizzato sui 5 Stelle, sebbene sia una pratica, quella di pagare per apparire, in voga un po’ in tutta l’opposizione (intendo PdL, Lega, UDC). La precisazione di Casadei non equivale ad una ammissione, come ci vuol far credere il Fatto Q e come hanno ribattuto tutti gli altri quotidiani (Il Giornale: la doppia morale del PD). Casadei ha specificato che vi sono due livelli, uno informativo in senso pubblicistico, di divulgazione propagandistica delle attività istituzionali, spesso focalizzato su specifiche argomentazioni; l’altro meramente di informazione televisiva legata alla cronaca politica.
Potete comprendere come un articolo ben costruito – ma facilmente “falsificabile” (cioè smascherabile) – come quello de Il Fatto costituisca una pezza d’appoggio per la difesa dei 5 Stelle, ma rischia di essere in un certo senso controproducente. Poiché le parole di Favia erano chiare: “noi” dei 5 Stelle paghiamo ma siamo trasparenti, quelli del PD chissà come spendono i soldi pubblici dei gruppi consiliari. Poi arrivano i giornalisti de Il Fatto e ci spiegano che anche quelli del PD pagano. Allora dov’è il marcio? Se pagano per andare in Tv, dietro regolare contratto, come i 5 Stelle, l’allarme di Favia – indagate su di loro! – è assolutamente pretestuoso. E’ come gettar acqua su un incendio mai scoppiato. Complimenti per la sinergia.
Infatti, Favia è già partito a testa bassa contro Casadei:
Non si è fatta attendere – pure in questa occasione – la replica del consigliere regionale del Movimento 5 stelle, Giovanni Favia (anch’egli coinvolto nello scandalo-interviste), che dice: ‘’E’ un fatto gravissimo. Avevano detto di essere gli unici che non acquistavano. Mi sentiro’ con gli altri capigruppo per le iniziative da prendere. Il Pd si vergogni. Ora voglio vedere se si fara’ un’operazione verita’, se Bianca Berlinguer e gli altri tg daranno con lo stesso peso questa notizia. Se avessi mentito io o nascosto i fatti, cosa avrebbero detto di me?’’ (Il Resto del Carlino).
Giovanni Favia è coraggioso. Lotta, dal di fuori, contro “il partitone”, quel PD che in Emilia-Romagna è sempre stato forza di governo e che è un tutt’uno con la società civile, in primis con quella che conta economicamente, finendo giocoforza per fondersi con l’interesse privato. Lui pensa di poter cambiare questo piccolo mondo antico e crede nel mezzo televisivo per arrivare anche al “pensionato di montagna” che non ha mai cambiato il proprio voto dal 1948.
Il vecchio tubo catodico è in questo senso infallibile. L’unico problema è che “bisogna apparire”, come recita l’incipit del film Videocracy. Per apparire in Tv, che notoriamente è uno spazio contingentato e in mani altrui, Favia e gli amici dei 5 Stelle, comprano minuti di trasmissione. Come qualsiasi altro partito. Favia la chiama informazione.
Ecco, quando leggo la parola informazione nel post pubblicato oggi sul sito del 5 Stelle Emilia-Romagna, mi irrigidisco non poco. Possibile che sia così dura da capire? Se un’istituzione fa pubblicità al proprio operato, questa non è informazione bensì propaganda. Non c’è verso di trovare altra definizione. Poiché nel concetto medesimo di informazione è insito il concetto di critica. L’informazione è quello strumento che in un sistema sociale permette alla sfera pubblica di orientare la propria opinione circa l’operato del sistema politico, il quale agisce (ovvero discute e delibera) al fine della allocazione delle risorse comuni. Mi pare chiaro che non può essere il sistema politico ad impiegare questo strumento, essendo esso medesimo l’oggetto dell’informazione.
Favia comprende bene la distorsione del nostro sistema, così lontano dall’essere una democrazia liberale compiuta. Tutti noi sappiamo che l’informazione e la Tv sono gravate dal conflitto di interesse e sono schiacciate da un oligopolio difficile da demolire se non con atti riformatori che nel nostro contesto risulterebbero addirittura rivoluzionari. Favia però deve sapere che se appare in Tv, lui che è un consigliere regionale ed è quindi un attore di quella istituzione che è oggetto di informazione, avendo però la presunzione invece di farla lui l’informazione, allora si colloca proprio al centro di quel magma bollente che è il conflitto di interesse. Diventa cioè da oggetto passivo di informazione, quindi oggetto di critica, a soggetto di informazione su sé stesso scavalcando a piè pari il terreno della critica. Egli, forse inconsapevolmente, si pone nei confronti del sistema informativo prevenendolo e diventando esso stesso curatore della informazione della propria attività istituzionale. Può decidere quindi di selezionare cosa rendere pubblico e cosa no, su quale atto impiegare più minuti e quale meno.
Certo, mi rendo conto che quanto sopra può essere evidenziato nei confronti di qualsiasi altro politico regionale o nazionale che sia. E’ vero. Non vi è nemmeno nulla di illecito, né di scandaloso in quanto da lui fatto. E inoltre il giornalismo locale è quanto di più si avvicini al mero pubblicismo e sovente gli editori di queste emittenti pendono dalle giacche di taluni gruppi politici. Pertanto è evidente che il campo della critica è spazzato via a prescindere. In ogni caso, Favia dovrebbe riflettere se non sia meglio per lui andare in un talk nazionale, a testa alta, senza pagare nulla, sottoponendosi al fuoco di fila delle domande – senza saperle prima, please – piuttosto che pagare per qualche minuto di trasmissione a 7Gold.
Anche perché se fossi al posto suo, sarei orgoglioso di me stesso se mi trovassi testa a testa contro un signor giornalista, che so, per esempio un giornalista come Jeremy Paxman. Paxman è possibile solo in Inghilterra, questo è chiaro anche ai sassi. Ma fossi in Favia, avrei fatto a gara per partecipare a una trasmissione Tv come BBCNewsnight e rispondere a domande come quelle che Paxman ha fatto a Cloe Smith, la Serracchiani dei Tories e Ministro del Tesoro del governo Cameron, caduta in disgrazia proprio dopo averlo incontrato:
La Corte costituzionale federale tedesca deve pronunciarsi sui ricorsi contro il meccanismo europeo di stabilità (ESM), il salva-stati permanente. Un articolo pubblicato sulla FAZ ne elenca gli aspetti occulti, anche se il testo del MES è pubblico ed è facilmente reperibile in rete. Scrivono sulla FAZ che questa ambiguità di fondo è strettamente derivata dalla natura medesima del Trattato MES, che ricorda, nella stampa a caratteri piccoli e nei formalismi da studio legale anglosassone, taluni prodotti finanziari, con alcune parti in grassetto, per catturare la vista, ed altre disposizioni egualmente cogenti relegate ai paragrafi subordinati.
Davvero, si domandano sulla FAZ, la responsabilità della Germania è limitata ai 190 miliardi di euro? Il Ministro delle Finanze non si stancherà mai di sottolineare questo limite, ma la sua affermazione non troverebbe sostegno in quanto scritto nel trattato. In particolare, all’articolo 8, paragrafo 5, si parla della responsabilità limitata non al capitale, che ammonta a 700 miliardi di euro, ma al “prezzo di emissione del capitale”. Questo è estremamente importante, perché il consiglio dei governatori può decidere che il prezzo di emissione superi il valore nominale (cfr. articolo 8, comma 2). Ad esempio, “raddoppiando il tasso di emissione del MES, potrebbe aumentare la quota di responsabilità a quasi € 1400 miliardi, senza la necessità di una modifica del trattato e nemmeno di un aumento di capitale”.
Art. 8 comma 2
E’ abbastanza chiaro l’ultimo capoverso: “le altre quote sono emesse alla pari, salvo se in particolari circostanze il consiglio dei governatori decida di emetterle a differenti condizioni“. Questa è la classica clausola capestro che permette all’organizzazione finanziaria di modificare i termini di un contratto senza per questo doverlo ridiscutere con il contraente. Tipico dei Banksters.
I tedeschi hanno il timore, stando alla insolvenza della Grecia, alla condizione di pregiudizialità delle finanze del Portogallo, dell’Irlanda e oggi pure della Spagna, che la propria quota di capitale da versare per rendere solvibile il MES sia sempre e costantemente più alta rispetto a quanto pattuito. Infatti, il meccanismo di finanziamento del MES prevede che se uno stato membro non versa la propria quota di capitale, la medesima debba essere ripartita fra gli altri paesi partecipanti.
I timori sono fondati sulla presunta ambiguità insita nel disposto coordinato dell’articolo 9, commi 2 e 3, e dell’articolo 25, comma 2:
Articolo 9 comma 2
Articolo 9 comma 3
Articolo 25 comma 2
Grazie ai contributi aggiuntivi, l’onere per la Germania potrebbe aumentare ben oltre i 190 miliardi di euro indicati come limite nella parte iniziale del testo. L’aver “relegato” all’articolo 25 la clausola che rende il MES un fondo senza limiti, estensibile all’infinito, fa nascere il sospetto che nel trattato si celi l’inganno. Perché non mettere in chiaro che l’esposizione tedesca, così come quella di qualsiasi altro paese “solvibile”, può essere estesa a piacere, senza che i medesimi paesi siamo chiamati a discuterne?
Per giorni, l’opinione pubblica tedesca e il Parlamento sono stati intrattenuti a dibattere intorno alla questione se dare o meno al MES una licenza bancaria. Ma all’articolo 32, paragrafo 9, l’ESM viene esentato da qualsiasi obbligo di regolamentazione e di concessione di licenza in qualità di istituto finanziario. La licenza bancaria non è pertanto necessaria, e ciò è scritto palesemente.
Inoltre, l’articolo 21 attribuisce al MES la facoltà di finanziarsi anche sul mercato secondario, attraverso emissioni obbligazionarie sui mercati dei capitali. L’ipocrisia del non usare la parola “Euro Bonds” è evidente a chiunque, poiché tutti gli Stati membri sono responsabili in solido per le emissioni obbligazionarie del MES. L’affermazione della Cancelliera federale, Frau Merkel, gli Euro Bonds non verranno mai fatti almeno finché vivrò, contrasta stranamente con quanto emerge all’evidenza di chi legge il testo del Trattato MES.
Il MES si prefigura come uno strumento emergenziale. I parlamenti nazionali sono esautorati in quanto un eventuale loro intervento in forma di controllo o di preventiva approvazione delle deliberazioni del suo ‘Board’, renderebbero il sistema decisionale alquanto inefficace. Stesso discorso vale per il Parlamento Europeo. Ne consegue che sul MES non vi è alcun bilanciamento dei poteri, elemento imprescindibile di un sistema istituzionale democratico. Nessuno controlla il MES. Il Board del MES decide sulla base di emergenze e su richiesta dello Stato membro in difficoltà. I membri del MES sono soggetti a immunità e le loro azioni sono coperte dal segreto (artt. 34-35):
Le camere e gli archivi sono inviolabili, tutte le attività del MES sono escluse dal controllo amministrativo, giudiziario o legislativo (articolo 32). Secondo la FAZ, viene così favorita l’insorgenza di un sistema finanziario/politico fortemente corrotto.
Abbiamo lasciato ai tedeschi la responsabilità storica di bocciare il Trattato MES come incostituzionale, condannandoli alla sentenza del “popolo che ha ucciso la Moneta Unica”. Ne pagheremo le durissime conseguenze.
No, non ci riesco. Non riesco a capire l’attentato di Brindisi. Non capisco l’obiettivo, la modalità, il luogo. Dannazione, perché a Brindisi? Perché davanti ad una scuola, che pur porta quel nome importante, Morvillo-Falcone? Perché colpire delle studentesse di sedici anni?
Se in un primo momento mi è sembrato fosse inequivocabilmente una “cosa” di mafia, un attentato in stile terroristico con il medesimo modus operandi del 1992-93, per giunta davanti all’unica scuola in Italia che porta quel nome (ve n’è una seconda, ma è un asilo) e in concomitanza con l’anniversario di Capaci, il ventennio di Capaci. Poi ho compreso che tutto quanto è accaduto è irrazionale e la mafia non è mai irrazionale. La mafia è potere e il potere si basa sul consenso. La mafia non è così stupida (e nemmeno la Sacra corona Unita). Stanno lì, a curare i loro traffici, a corrompere giudici e politici, a riscuotere il pizzo, ad ammazzare qualche avversario, ma mai e poi mai potrebbero versare sangue inutilmente. Solo una volta la mafia ha causato vittime innocenti, in Via dei Georgofili, nel 1993, ma fu un “danno collaterale” non previsto, non preventivato. Un errore nella strategia dei mafiosi trattativisti che ha causato in seguito il pentimento di Spatuzza. E il fallito attentato dell’Olimpico aveva nel mirino i Carabinieri, non persone innocenti. In tutte queste occasioni, la mafia ha impiegato il tritolo. Il tritolo è la firma della mafia. Non il Gpl.
Melissa e le compagne nel 1992 non erano neanche ancora nate. Chi ha ucciso Melissa ha ucciso l’innocenza. Ha strappato l’innocenza che era l’unica speranza per questo maledetto paese. Chi ha colpito Brindisi voleva ottenere il massimo dello sdegno. Questo è nichilismo puro. E’ volontà di distruzione. E’ desiderio di annientare il vivere insieme e in comune. In questo contesto simbolico, la mafia non c’entra nulla.
Chi ha piazzato le bombe davanti a una scuola lo ha fatto tenendo all’oscuro la Sacra Corona Unita. È gente spietata che si è infiltrata nel territorio pugliese. La scelta di usare bombole del gas rende poi difficile rintracciare la provenienza di un eventuale esplosivo. Quindi anonimato assoluto. Tracce zero (Brindisi, le bombe sono della Cupola Nera).
Quando nel 1992 iniziò il periodo delle Stragi terroristiche mafiose, il Ministro dell’Interno Scotti comparve in anticipo dinanzi alle telecamere ventilando la possibilità di una fase di destabilizzazione delle istituzioni. Le stragi di mafia sono sempre, in un certo qual modo, preannunciate. Prima arrivano gli avvertimenti. In questo caso non abbiamo avuto nessun avviso. Nessuno, tranne uno: la rivendicazione dell’attentato ad Adinolfi da parte del FAI. Chi ha sparato al manager dell’Ansaldo ha avvisato che sarebbero state messe in atto altre azioni di tipo terroristico. Almeno sette.
Il documento: “Abbiamo riempito con piacere il caricatore. Impugnare una pistola, scegliere e seguire l’obiettivo, sono stati un passaggio obbligato. Un piccolo frammento di giustizia”. Il procuratore di Genova conferma l’allerta: “Non si possonio escludere nuovi attentati” (La Repubblica.it).
Allo stato attuale, affermare che Brindisi sia una delle sette azioni minacciate dalla Federazione Anarchica Informale, è pura illazione. Ma provate a considerare il simbolo impiegato nella lettera di rivendicazione dell’attentato ad Adinolfi:
La stella dell’anarchia si unisce ad un altro simbolo. Suggerisce la congiunzione fra due mondi, fra due distinti gruppi terroristici, aventi matrice politica differente. Le frecce convergenti sono il simbolo delle Cospirazione delle Cellule di Fuoco greche. La A è l’anarchismo. Le frecce convergenti sono una simbologia che ha qualcosa a che fare con il neonazismo. E naziosmo è volontà di distruzione allo stato puro.
Il simbolo utilizzato dagli anarchici informali per rivendicare l’attentato a Roberto Adinolfi è stato ‘adottato dal gruppo greco Cellule di fuoco da parte del Fronte rivoluzionario internazionale che lo ha completato con un nuovo elemento. Secondo gli investigatori, la stella a cinque punte con inscritta la ‘à di anarchia aggiunta al mezzo cerchio con le cinque frecce che è il simbolo delle Cellule di fuoco apporta una «novità non solo formale ma anche sostanziale» (Il Manifesto).
Cosa intendevano per sette azioni? Hanno a che fare con quanto successo oggi? Domande, domande. Ma l’idea terribile che un attacco come quello di Brindisi sia inutile, che si volto solo a distruggere, che sia in definitiva aberrante e mostruoso e motivato solo da una volontà di mettere a fuoco il paese, di farlo bruciare finché non ne rimanga nulla, è piuttosto evidente, sia esso opera della mafia o dell’eversione internazionale. O di tutt’e due.
Il mondo non vede i fili dove dovrebbe, e inventa fili dove non ci sono. Eppure nessuno ascolta quello che le conchiglie hanno da dire.
— Roberto Cotroneo (@robertocotroneo) May 19, 2012
Cosa dicono quei minutissimi frammenti di vita sparsi per la strada? Sono come i corpi straziati di Utoya. Ma ad Utoya, come a Tolosa, il killer è visibile, si mostra a volto scoperto e rivendica immediatamente il bagno di sangue. Addirittura redige, esegue un report dettagliato del massacro filmandosi. L’attentatuni non ebbe bisogno di rivendicazione, poiché era fin troppo chiaro che ad ammazzare Falcone e Morvillo e la scorta erano i Corleonesi stragisti. Via D’Amelio stiamo cercando di comprenderla in questi mesi, pur così lontani dalla verità. Ma Brindisi? Possibile che la mafia ora se la prenda con le scuole? Quale utilità può ricavarne da un atto simile? Naturalmente nessuna.
Siamo davvero intenti a veder fili dove non ci sono quando invece ignoriamo il disegno delle conchiglie?
Le tante fandonie scritte su Beppe Grillo e sul Movimento 5 Stelle hanno tutte la medesima caratura: no all’antipolitica, no alla distruzione, sì alla proposta bla bla bla. Insomma, la miopia che contraddistingue il sistema politico italiano – e parimenti quello giornalistico – impedisce all’osservatore di percepire quanto di reazionario e orientato alla regressione ci sia nel discorso politico di Grillo.
Mi spiego: al di là del problema metodologico, mai del tutto risolto, al di là del personalismo del leader, della forma di partito liquido e di partito carismatico che il M5S adotta a seconda dei momenti, quel che qui mi preme sottolineare – e che è stato brillantemente esposto da Ernesto Maria Ruffini su Prossima Italia – è la natura intrinsecamente semplicistica e quindi fuorviante della spiegazione di Grillo circa la crisi economica e lo stallo delle Istituzioni Europee.
In estrema sintesi, secondo Grillo l’Italia non dovrebbe pagare il debito, dovrebbe uscire dall’Euro con il minimo del danno, rompere con i partner europei sul Fiscal Compact e sui più recenti accordi in materia economica. Di fatto, Grillo predica l’isolazionismo, l’autarchia e prefigura il nostro paese come una Nazione che opera in un consesso internazionale fortemente orientato all’anarchia. Senza forse neanche saperlo, l’idea di Nazione che Grillo propugna è vecchia di duecento anni. Lo Stato Commerciale Chiuso era stato infatti ideato del pensatore e filosofo tedesco Johann Gottlieb Fichte, morto a Berlino nel lontano 1814. Egli teorizzò che lo stato dovesse assumere una “funzione integrativa” che gli conferisse l’aspetto di uno stato socialistico. E’ questo uno stato monopolistico, che guida la società e la distoglie dai beni che lo Stato non può produrre. Garantisce il lavoro per tutti e il benessere per tutti. E’ uno Stato Etico, che conosce qual è il bene degli individui, che si premura di proteggere e preservare l’individuo dal resto degli altri individui. Uno Stato che pianifica, che descrive e delinea tutto ciò che è vita. Uno Stato chiuso, che pretende per sé ciò che gli serve per raggiungere lo scopo della riproduzione delle condizioni sociali. Uno Stato “che sia padrone delle terre che gli appartengono per natura. Se così non fosse esso è giustificato nel fare la guerra a chi usurpa le sue risorse naturali” (tratto da Wikipedia).
Grillo non sa che l’Islanda non ha compiuto una scelta di democrazia ribellandosi al sistema plutarchico degli organismi internazionali (Banca Mondiale, FMI) ma ha egoisticamente dichiarato la propria sovranità come soverchiante rispetto a quella di tutti gli altri paesi. Due guerre mondiali e tutto l’orrore che hanno portato con sé non sono state sufficienti a far tramontare il modello hobbesiano di Stato Leviatano, né quello hegeliano orientato alla pura volontà di Potenza. Le relazioni internazionali, nel modello di Grillo, sono destinate a tornare allo Stato di Natura, in cui ogni Stato agisce per sé medesimo, annichilendo le anomalie, distruggendo per ricostruire secondo una idea di purezza e unicità che pare patologica.
In due articoli sul Corriere della Sera, il 7 e 12 marzo, lo storico Ernesto Galli della Loggia ha difeso lo Stato-nazione oggi derubato di sovranità: lo descrive come “unico contenitore della democrazia”, poiché senza di lui non c’è autogoverno dei popoli. È una verità molto discutibile, quantomeno. Lo Stato nazione è contenitore di ben altro, nella storia. Ha prodotto le moderne democrazie ma anche mali indicibili: nazionalismi, fobie verso le impurità etnico-religiose, guerre. Ha sprigionato odi razziali, che negli imperi europei (l’austro-ungarico, l’ottomano) non avevano spazio essendo questi ultimi fondati sulla mescolanza di etnie e lingue. La Shoah è figlia del trionfo dello Stato-nazione sugli imperi (Barbara Spinelli, La Repubblica).
Gli Stati Europei sono fortemente correlati fra loro. L’interdipendenza c’è sempre stata e nell’era dello sviluppo industriale, sia in quello primario che in quello attuale, fortemente tecnologizzato e delocalizzato nei suoi centri produttivi, si è determinata come fattore politico. Non è possibile una politica delle relazioni internazionali a prescindere dalle relazioni economiche. L’Unione Europea nasce per intuito di un federalista francese, Jean Monnet, il quale, ben consapevole della incapacità dei paesi europei del secondo dopoguerra di superare ognuno per sé la fase della ricostruzione, ideò una unione per fasi funzionali. Si trattava di mettere in comune ciò che era già comune: l’energia, le regole del commercio. Ma anziché lasciare alle guerre il ruolo di strumento regolatore, Monnet suggerì di comunitarizzare queste politiche. Così le politiche del commercio, del carbone e dell’energia atomica furono messe in comune e lasciate in gestione a istituzioni terze: le comunità Europee nascono perciò con un intento pacifista. L’Europa di oggi si è avvitata in una crisi di legittimità che è dovuta principalmente a errori grossolani, a politiche sbagliate:, che però non possono metterne in discussione l’esistenza
L’Europa di Merkel e Sarkozy non ha sanato ma aggravato nell’Unione la sofferenza economica e democratica, accentuando populismi e chiusure nazionaliste. Perfino il trattato di Schengen è messo in causa, spiega Monica Frassoni, deputata europea dei Verdi, sul sito Linkiesta. it: è recente un appello inviato dai ministri dell’Interno di Francia e Germania al Presidente del Consiglio dei Ministri europeo, perché vengano reintrodotti i controlli alle frontiere nazionali contro i migranti illegali. Sarkozy spera di strappare voti a Marine Le Pen. Domenica abbiamo visto che l’originale, almeno per ora, è preferito alla copia.
Può darsi che manchino oggi leader come Roosevelt. Ma la constatazione s’è fatta stantia. Importante è smettere di dire che l’Europa funziona così com’è: che basta – l’ha detto Monti in gennaio alla Welt – la sussidiarietà (se i nodi non sono sciolti nazionalmente si passa al livello sovranazionale o regionale). La sussidiarietà è un metodo, che si usa ad hoc. Non è l’istituzione che dura nel tempo e “pensa tutto il giorno all’Europa”, invocata da Delors. Altrimenti l’Europa sarà la bella statua di Baudelaire: sogno di pietra troneggiante nell’azzurro, nemica di ogni movimento che scomponga le linee. “E mai piange, mai ride” (Barbara Spinelli, La Repubblica).
Uscire dall’Euro non è solo un autogol finanziario: è antistorico, è condannarsi a ripetere una storia di sangue e morte. Il processo di integrazione europea è qualcosa di inarrestabile ed ora chiede uno sforzo di immaginazione e di coraggio per abbandonare forme confederali inefficienti per una vera e propria federazione dei popoli europei.
In un crescendo rossiniano, si è nuovamente giunti al parossistico annuncio a mezzo blog che chi si occupa del Movimento 5 Stelle ma non è fedele alla linea dell’ispiratore del Movimento 5 Stelle, allora deve essere sbattuto fuori. Valentino Tavolazzi ha avuto l’ardire di convocare una assemblea di movimentisti, più o meno ascrivibili all’area del M5S, a Rimini, ieri e ieri l’altro. Tavolazzi ha voluto mettere in discussione, insieme ad altri, la forma organizzativa del M5S e provare a risolvere i dubbi amletici che affliggono il non-partito fin dalla nascita. Per esemplificare, vi sottopongo questa ottima infografica pubblicata da Linkiesta:
Il gruppo riunitosi a Rimini lo scorso week-end ha cercato di rispondere a questi dilemmi con un metodo pratico che loro chiamano “open space technology”. Certo, per un movimento politico il metodo non può e non deve essere il fine, bensì il mezzo per realizzare la partecipazione dal basso tanto evocata da Grillo. Il gruppo di Tavolazzi ha evidenziato il fatto che la semplice interazione on-line non è sufficiente e che il rapporto umano e politico non si può risolvere in un attivismo da tastiera sempre votato all’indignazione. E’ necessario far compiere al M5S un salto di qualità, e questo si può ottenere solo con l’incontro faccia a faccia e la formulazione di proposte vere e “organiche”. Né più né meno di quello che fanno a Prossima Italia, che in questo senso dimostra di essere avanti anni luce rispetto al M5S.
La risposta di Grillo è stata una nuova scomunica. Della serie: se non sei come me, sei contro di me. Questa frase niente altro è che la riedizione ennesima della coppia dicotomica Amico-Nemico tanto cara a Carl Schmidt. Una logica che sottende sempre all’esclusione dell’altro, se l’altro non la pensa come me. A considerarlo una anomalia e a combatterlo. Ma la politica non è ‘guerra’. La politica è discussione delle regole del viver civile. E’ strano che il movimento politico ispirato dal sostenitore della ‘democrazia dal basso’ sia invece caratterizzato da dinamiche proprie di un partito carismatico. E’ il capo che giudica. E’ il capo che decide le regole (secondo il detto latino quod principi placiut habet legis vigorem) e che le cambia a proprio piacimento. La sua leadership è fondata sull’autorevolezza del proprio nome. Sulle sue gesta. E’ una caratterizzazione simbolica che trascende dalla realtà. Grillo su questo piano non è diverso da Umberto Bossi. Entrambi godono dell’aurea del Capo condottiero. E possono cacciarti, se vogliono. O premiarti con un feudo. A seconda del tuo grado di fedeltà. Valentino Tavolazzi ha tradito il M5S. Ma questa non doveva essere e-Democracy?
Valentino Tavolazzi è consigliere a Ferrara per la lista civica “Progetto per Ferrara” appoggiata a suo tempo da me. Si candidò prima della nascita del M5S (*). Non ha purtroppo capito lo spirito del M5S che è quello di svolgere esclusivamente il proprio mandato amministrativo e di rispondere del proprio operato e del programma ai cittadini. Non certamente quello di organizzare o sostenere fantomatici incontri nazionali in cui si discute dell’organizzazione del M5S, della presenza del mio nome nel simbolo, del candidato leader del M5S o se il massimo di due mandati vale se uno dei due è interrotto. Sarà sicuramente in buona fede, ma Tavolazzi sta facendo più danni al M5S dei partiti o dei giornali messi insieme. A mio avviso ha frainteso lo spirito del M5S, ha violato il “Non Statuto” e messo in seria difficoltà l’operato sul campo di migliaia di persone in tutta Italia. Per questo, anche di fronte ai suoi commenti in cui ribadisce la bontà di iniziative che nulla hanno a che fare con il M5S, è per me da oggi fuori dal M5S con la sua lista “Progetto per Ferrara”. Chi vuole lo segua. Beppe Grillo.
(*) Dopo la costituzione del M5S non è più permesso associarsi ad altre liste
Fra i luoghi comuni dei giornalisti italiani, oltre alla figura retorica del popolo del web, del popolo de web che si indigna e che si ribella come un ‘sol uomo’, aggiungerei ora quella del PD che perde le primarie. La disfatta del PD. E’ sempre una disfatta, per il PD. Mai si dice che hanno vinto gli elettori. Mai si dice che è pure nella logica delle primarie di coalizione il fatto di perdere una competizione elettorale fra esponenti del medesimo schieramento partitico. Altrimenti, se si volesse sempre vincerle le primarie, si potrebbe anche non farle. Molto più comodamente, senza chiedere due euro a nessuno.
Ma tant’è, oggi è anche andato in onda un caso più unico che raro di sfogo via twitter – che ho documentato a sufficienza qui – del sindaco di Genova Marta Vincenzi, già annichilita dall’alluvione di novembre e da quella leggerezza colpevole con cui si affrontò l’emergenza, incapace a mio modo di vedere di comunicare con la città né attraverso il dolore né attraverso il raziocinio. Vincenzi si è paragonata a Ipazia, martire uccisa dal fondamentalismo cristiano nel 370 d.C., ha sbraitato contro tutti, guadagnandosi peraltro una fila di commenti ingenerosi sulla sua pagina facebook. Ne scriveranno i giornali, domani, e potrete indignarvi per le sue parole.
Il punto è un altro. E cioè che il PD vince ogni volta – dico ogni volta – che si riescono a celebrare le primarie. Perché se esistono due candidati del PD a Genova, entrambi perdenti, è grazie alle primarie. Se esiste un candidato di una lista civica, il professor Doria, che può andare allo scontro con il candidato di centro-destra, è sempre grazie alle primarie. Soprattutto, è grazie alle primarie che questo candidato è il frutto della scelta dei cittadini, sì, dei cittadini, e non della scelta di un gruppo dirigenziale di un partito chiuso in quattro pareti in un palazzo di Roma. Continuare a sottoporci la medesima raffigurazione del PD diviso, del PD lacerato, del PD confuso, è sbagliato. Il clima a Genova non è più un clima favorevole all’attuale sindaco. Il clima è cambiato. E’ bene rendersene conto. Gli elettori del PD lo hanno detto ieri, e dico pagando di tasca propria due euro, che non era più il caso di proporre la Vincenzi. Lei non se ne è accorta. Chiusa nel proprio tormento, ha evitato di guardarsi attorno quando invece l’unica decisione da prendere era di ammettere le proprie responsabilità nei giorni successivi all’emergenza.
A molti – e anche al sottoscritto – la boutade su twitter era subito parsa eccessiva, forse frutto di un hackeraggio del suo account. Ma ancor più eccessive sono le dimissioni dei segretari provinciale e regionale del PD, Basso e Rasetto. In che modo e in che senso il loro operato è stato messo in discussione dall’esito delle primarie? Non è possibile che pezzi del partito crollino a terra come cornicioni ogni volta che un candidato PD perde delle primarie. Ora il candidato PD a Genova è Marco Doria. E basta.