Giorgio Bocca, “hanno perso la testa”

Un articolo del 1992, quando Giorgio Bocca definì per sempre la miserrima classe dirigente leghista. Un pezzo esemplare e lungimirante. Per superare l’inutile polemica del Giorgio Bocca “omofobo e razzista”.

HANNO PERSO LA TESTA

09 ottobre 1992 —   pagina 1

LA LEGA avanza, dicono a Milano, “come il coltello nello stracchino”. Basta lasci fare agli altri che fanno a gara per aiutarla. Questo Nicola Mancino, ministro degli Interni, che nella crisi dirompente della partitocrazia, nella fine pietosa delle sue arroganze, cerca di togliere ai cittadini di Varese e di Monza il diritto di votare. Questo Giuseppe Gargani, noto per le partite a tresette con De Mita, che propone di mandare in galera i giornalisti che danno notizie su Tangentopoli, proprio lui nato e cresciuto alla politica nel bel mezzo della colossale dissipazione e corruzione del terremoto e della illegalità legalizzata di cui a quanto pare non si è mai accorto, pur essendo presidente della commissione giustizia della Camera. Questi cinquanta deputati che scrivono al ministro della Giustizia, Martelli, perché freni i giudici che si occupano della corruzione e se scorri i loro nomi scopri che metà sono in attesa o in timore di una comparizione giudiziaria e l’ altra metà sono stati eletti con i voti della Camorra o della Mafia. QUESTI leader dei partiti sordi a ogni richiamo della ragione, impudentemente testardi: il Bettino Craxi che vuole rifondare e moralizzare il Psi come se non fosse notoriamente il signore di piazza del Duomo 19, degli uffici dove quelli del suo stato maggiore ritiravano le tangenti e questo De Michelis che Craxi ha voluto, con violenza provocatrice, vice segretario del partito, che a parte le faccende giudiziarie risulta persona irresponsabile – cretino no, perché cretino non è – al punto di aver dichiarato alla stampa sul finire del 1990 a bancarotta finanziaria incombente “ci stanno davanti quindici e forse venti anni di una espansione economica e di un benessere senza precedenti”. In nobile gara con gli Andreotti e i Cirino Pomicino che continuavano a falsificare i bilanci dello Stato pur di rimanere al potere. Questo Francesco Cossiga che, forse per solidarietà massonica, rende pubbliche lodi al giudice Carnevale, ne parla come di un perseguitato, ignorando che con le sue trecento o quattrocento sentenze cassate ha reso praticamente impossibile per più di un decennio la persecuzione giudiziaria dei mafiosi. E Cossiga era il Presidente della Repubblica, colui che avrebbe dovuto proteggere i diritti degli italiani deboli, degli italiani umili taglieggiati, minacciati, uccisi dai mafiosi che Carnevale mandava liberi per i più ridicoli, anzi irridenti difetti di forma. Questi ministri della Giustizia e degli Interni che solo ora mettono taglie sui grandi latitanti e fanno fare retate a Gela, ma prima hanno affossato il pool antimafia e non si sono accorti che a Gela il prefetto era il boss Joccolano. E anche questi sindacati, questo Pds, che continuano a anteporre i loro interessi organizzativi, consociativi o politici a quello ormai dominante della nazione in pericolo. Ma purtroppo, o per fortuna, la Lega non si accontenta di stare sulla riva del fiume in attesa che passi il cadavere della partitocrazia. La Lega si è messa a sentenziare, a proporre, a sproloquiare, a fare la terrorista come se fosse un gioco eccitante, non solo per bocca del suo grande comunicatore Umberto Bossi o del suo mattocchio intellettuale Gianfranco Miglio, ma anche con i suoi quadri medi e inferiori che si avvicendano alle tribune messe a loro disposizione da una informazione attenta al nuovo per gridare “ci siamo anche noi”. La signorina Pivetti che si toglie il gusto di trattare da complice dei partiti e dei ladri il cardinale di Milano Martini; il capogruppo alla Camera Marco Formentini, che come se fosse una innocua boutade propone di far crollare sul paese la montagna del debito pubblico; lo Speroni e gli altri che al seguito di Bossi e di Miglio parlano nel vago di una riforma federalista ma nel concreto secessionista, come se rovesciare l’ orologio della storia italiana, tornare indietro di duecento anni ai primi moti unitari, fosse una bella festa paesana da andarci vestiti da Alberto da Giussano con spadoni e elmi di cartapesta, come al carnevale di Ivrea. L’ impressione è che i dirigenti della Lega si siano lasciati plagiare e quasi drogare da questo “coltello che affonda nello stracchino”, da questo successo facile e travolgente. Che si siano veramente convinti che i milioni di padani che gli danno il voto glielo danno veramente per le quattro scemenze localistiche e federalistiche con cui cercano di supplire un programma che non c’ è? Che non abbiano capito che gran parte di questo voto gli è dato da chi pensa alla Lega come l’ ariete, come il grimaldello che può rompere il pack dei partiti? Si prova persino imbarazzo nel ricordare ai dirigenti della Lega quelle che sono acquisizioni ormai sedimentate, consolidate nella coscienza della nazione. E non dico i legami economici, finanziari, strutturali dello Stato unitario, non dico i cataclismi e i pandemoni che affronterebbe chiunque si provasse a rompere quel po’ di stato di diritto, quel po’ di stato europeo che siamo riusciti a mettere assieme in centotrentadue anni. Non dico neppure le osservazioni più ovvie in materia economica, come chiedere ai Bossi e ai Formentini di spiegarci come verrebbe ripartita in una divisione dell’ Italia la montagna del debito pubblico. Al nord per quanto spetta agli acquirenti di Bot e Cct? L’ ottantuno per cento, come è stato calcolato, del prodotto lordo della Padania? E l’ economia padana, secondo Bossi, sopravvivrebbe sotto una simile valanga? Ma non sono ripeto questi argomenti economici, questi discorsi a non finire sul do ut des fra l’ Italia ricca e la povera, che pure c’ è e che una cultura meridionalistica onirica e piagnona sbaglia a rifiutare a contestare, gli argomenti decisivi; ma qualcosa di molto più importante, di molto più conficcato nella coscienza della nazione. Che non c’ è, non ci sarebbe delitto peggiore che abbandonare milioni di meridionali onesti, di concittadini onesti a un destino libanese; che lasciare inermi di fronte alla nomenklatura armata e ricca della malavita organizzata e del ceto politico corrotto i milioni di siciliani, di calabresi, di campani, di pugliesi che chiedono di vivere in un paese civile e ordinato. Sarebbe la morte, con vergogna, della società civile del settentrione. – di GIORGIO BOCCA

L’assassino di Samb Modou e Diop Mor leggeva Tolkien

(c) fabrizio porfidia 2006

Non puoi andare in mezzo a un mercato e uccidere due vu’ cumprà, così scrivono i giornali, senza essere un pazzo squilibrato. Lo si vede dai gesti, dal fatto che sei uno solitario, e soprattutto dal fatto che leggi. Se leggi devi esser per forza matto, o perlomeno strano. Soprattutto se leggi Tolkien.

Gianluca Casseri, il killer di Firenze, era “perso in un mondo tutto suo, fatto di miti celtici, di teorie della supremazia della razza e di paccottiglia ideologica legata ai romanzi dello scrittore John Ronald Reuen Tolkien” (Asca News).

Poco importa che sei razzista, che sei pervaso dall’odio per i neri, che sei profondamente fascista e predichi la purezza della razza.

Il killer razzista non è uno di noi, è un solitario, è estraneo alla società, infatti “è appena arrivato in citta”: “Gianluca Casseri, 50 anni, è un tipo solitario e ombroso. Abita a Firenze da poco tempo, ha passato il resto della sua vita in un paesino in provincia di Pistoia, a Cireglio sull’appennino” (La Repubblica).

Poi per giunta, lui, l’estraneo, il killer, viene dalla ‘provincia’, da un paese di montagna, e questo ci tranquillizza, lassù in montagna sono tutti introversi e strani, hanno sempre quel grugno che non capisci, comunque non è gente normale, non è gente normale come quella di città. Ecco, per giunta, oltre ad essere ombroso e solitario, il killer è un anonimo ragioniere, questa ‘poco eroica’, sì avete letto bene, “poco eroica professione di ragioniere” (Asca News, cit.).

In rete, si trovano alcune delle ”opere” del killer, saggi esoterici e neopagani dove rivaluta i ”Protocolli dei Savi di Sion”, famoso libro antisemita degli inizi del secolo, e le presunte origini celtiche e precristiane della vecchia Europa (ibidem).

In rete si trova di tutto, si direbbe. In rete si rivalutano anche i Protocolli dei Savi di Sion, testi apertamente falsi ma sempre utili alle tastiere dei revisionisti storici da strapazzo.

Quel che voglio dire è che tutte queste biografie estemporanee non spiegano il gesto, né contribuiscono a tranquillizzare e a sollevare dalle colpe gli altri cittadini. Samb Modou e Diop Mor sono morti per la mano di questo cinquantenne razzista, che ha ritenuto la vita di due ambulanti ‘neri’ talmente miserrima e indegna da essere terminata su un marciapiede. Casseri non è uno di noi, dicono con una certa fretta quelli di Casa Pound, quando invece i giornali indicavano alcune simpatie o sporadiche frequentazioni fra il Casseri e l’organizzazione giovanile neofascista. Nessuno direbbe oggi che Casseri è uno di noi. Tutti rifiutano l’orrore di cui è stato capace quest’uomo. Qualcuno, qualche fanatico e qualche trollista, certo, lo starà esaltando su qualche pagina facebook. Una inutile pagina facebook. Ma l’idea che i giornali e le tv respingano Casseri e lo mettano ai margini della società, perché la società non è in grado di essere razzista nella sua dimensione normale, è una idea molto facile da veicolare, direi quasi istintiva, legata alla naturale repulsione per l’orrido che c’è in noi.

Perché noi non siamo capaci di far del male, e il male è sempre qualcosa che viene da fuori: è sempre colpa degli stranieri, dei Rom, e quando sono gli stranieri ad essere uccisi, allora l’assassino, l’uomo nero, viene dalla provincia. E’ solo, frustrato e legge libri. Il ritratto perfetto – e sbrigativo – del mostro.

Tecnocrazia e fallimento della Rappresentanza

Ci tengo a precisare che ritengo superfluo parlare di colpo di stato, o di golpe bianco, che fa più chic, nemmeno vorrei sprecare del tempo a sostenere la tesi del complotto pluto-giudaico-massonico. No.

Lo scandalo della successione a Berlusconi non sta nel successore, ma in quello che era (ed è) purtroppo la democrazia italiana e in senso più estensivo la nostra società intera. Il ‘colpo di mano’ di Merkozy-Napolitano-Draghi (la nuova vera troika) era ineludibile, ineluttabile e chi più ne ha più ne metta. In un certo senso ci hanno salvato dal ridicolo. Di questo dobbiamo esser loro grati (!), grati al mostro a due teste Merkozy, a Napolitano e a Draghi (per non aver comprato Btp quel maledetto mercoledì di paura).

La porcata non è la defenestrazione di B. ma è averlo votato, avere permesso di votarlo, avergli concesso una due e pure tre possibilità di essere eletto. Tutta questa degenerazione è figlia di ciò che eravamo, del 1992, di Capaci, Via D’Amelio, il quasi fallimento e la lira fuori dallo SME, Tangentopoli e la Seconda Repubblica fondata sul patto mafioso. Il mostro che noi siamo oggi, questo ammasso di macerie, è il prodotto della Videocrazia, il populismo fondato sull’immagine, una forma di governo che ha pienamente sostituito qualsiasi ideologia con l’imagologia, i simboli con le icone, la collettività con l’interesse di uno solo.

A dare il colpo mortale quella tremenda legge elettorale che trolleriamo da troppi anni. Una legge che trasforma la maggior minoranza in maggioranza e impedisce al cittadino elettore di scegliere il proprio rappresentante, ha permesso di arruolare una pletora di marionette guidate dal solo proprio interesse che come banderuole possono essere agitate in qualsiasi direzione.

Parlare di golpe soltanto perché è stato formato un nuovo governo ‘apartitico’ con una maggioranza bulgara ma non così diversa da quella che è uscita dalle urne (un pezzo, ovvero FLI, era allo stesso identico posto solo undici mesi or sono, mentre l’altro pezzo, l’UDC, lo era fino a sei anni fa, e si tratta persino delle stesse persone!) è esagerato e, anzi, fuorviante. La Tecnocrazia non è altro che una forma di aristocrazia meritocratica, per giunta resa possibile dalla Costituzione, che non vieta di nomirare ministro persone non elette che si sono distinte per meriti e per sapere nel loro agire nella società – è sempre successo e succede anche nei governi cosiddetti ‘politici’, altrimenti non si spiegherebbe il ‘fenomeno’ Gianni Letta, da sempre sottosegretario alla Presidenza di Berlusconi e mai eletto. Semmai dovremmo chiederci come mai il sistema politico non è stato in grado di sussumere in sé le migliori menti economiche e politiche, come mai non è stato in grado di formare individui altrettanto competenti nel sapere tecnocratico politico-economico. Prima di dare aria alla nostra bocca con parole come golpe, dovremmo interrogarci sul fallimento della rappresentanza in Italia, e a come rimediare in fretta, rifondando le istituzioni parlamentari e extraparlamentari.

Non spaventiamoci, allora, se questo economista, dal sottile humor ‘andreottiano’, si sia installato al posto del comando con il gravoso compito di tirarci fuori dalle secche di diciassette anni di ‘bipolarismo’ contrapposto e incapace di decidere. La pistola alla tempia del possibile default 2012 è il giusto motore affinché questi inetti dei parlamentari prendano decisioni razionali per il bene comune. Ci siamo forse liberati dalle inconcludenti discussioni sul Legittimo Impedimento e il Bavaglio (e ribadisco, forse…).

Intanto Mario Monti si è preso l’impegno di smentire la retorica golpista: il governo pubblicherà sul web, in perfetto stile ‘british’, i redditi dei ministri:

 

Immanuel Kant, antiberlusconiano, risponde a Giuliano Ferrara

Ok, il diritto di replica non si nega a nessuno. Tantomeno se è Immanuel Kant a chiederlo. Dico, dopo quello che è accaduto ieri, è il minimo. Signor Kant, la prego, esponga il suo pensiero.

Ieri quel tribuno ha impiegato alcune delle parole scritte da me, parole che rivendico nella loro intierezza ma pure nel profondo significato originale.

Cos’è questa storia del legno storto?

[Ride] Il legno storto per qualcuno può diventare un alibi. L’uomo è un legno storto. Da un legno così storto com’è quello di cui è fatto l’uomo non si può ricavare nulla di perfettamente dritto (2). E lo stato di pace fra gli uomini assieme conviventi non è affatto uno stato di natura. Questo è piuttosto uno stato di guerra (3). Homo homini lupus, questo intendevo quando scrissi quelle parole.

Si può dire che l’uomo essendo un legno storto può essere giustificato per i propri peccati?

Il legno storto deve essere drizzato. Così come lo stato di pace deve essere istituito. Altrimenti l’animale, il bruto, si sostiuisce all’uomo, e lo stato di guerra fra gli uomini diventa l’unica condizione possibile dell’esistenza. Vogliamo abbandonarci all’animalità? Per questo abbiamo bisogno della costituzione civile delo Stato. Legge civile e legge morale. La ragion pura è di per se stessa pratica e dà all’uomo una legge universale, che noi chiamiamo la legge morale.

Allora lei è un moralista?

La legge morale eleva infinitamente il mio valore, come valore di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall’animalità e anche dall’intero mondo sensibile, almeno per quanto si può inferire dalla determinazione conforme a fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determina­zione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all’infinito (4).

La legge morale è una legge individuale, quindi. Qualcosa che ognuno sente all’interno di sé stesso. Ma la legge civile? Qualcuno può sentirsi estraneo alla legge civile? Può considerarsi al di sopra poiché questa è la sua convinzione interiore?

Premetto: non sono un democratico. La democrazia è una forma di dispotismo, poiché in essa tutti deliberano anche se non sono tutti. La legge civile deve essere repubblicana e essere fondata su tre principi: sul principio della libertà dei memebri di una società (come uomini); sul principio della dipendenza di tutti da un’unica comune legislazione (come sudditi); sulla legge dell’uguaglianza di tutti (come cittadini) (5).

Colui che pretende per sé stesso una legge particolare, pretende anche di poter definire gli argomenti della pubblica discussione. L’uomo è un legno storto, difatti non manca mai di indurre gli altri in una condizione di minorità. Sottrarre gli uomini alla propria ragione sembra essere un minimo comune denominatore di questi anni.

Non c’è da attendersi che i re filosofeggino o che i filosofi diventino re, e neppure è da desiderarlo, perché il possesso della forza corrompe il libero giudizio della ragione. Ma che un re o un popolo sovrano non lascino ridurre al silenzio la classe dei filosofi, ma la lascino pubblicamente parlare, è indispensabile agli uni e agli altri per avere luce sui loro affari (6). Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’illuminismo. Senonché a questo illuminismo non occorre altro che la libertà, e la più inoffensiva di tutte le libertà, quella cioè di fare pubblico uso della propria ragione in tutti i campi. Ma io odo da tutte le parti gridare: — Non ragionate! — L’ufficiale dice: — Non ragionate, ma fate esercitazioni militari. — L’impiegato di finanza: — Non ragionate, ma pagate! — L’uomo di chiesa: — Non ragionate, ma credete! (da Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, 5 dicembre 1783).

Ecco, allora: all’uomo carismatico che vi chiede, non ragionate, credete!, rispondente con l’opposto: pensate e discutete. A chi tenta di distogliere il vostro sguardo dallo stato penoso di questa nazione, sforzatevi di affrontare la realtà. E siatene testimoni.

(2) da Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu, Utet, Torino, 1956;
(3) da Per la pace perpetua. Un progetto filosofico, Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf, p. 105;
(4) dalla conclusione della Critica della ragion pratica; 1966, pp. 201-202);
(5) Per la pace perpetua, cit.
(6) Ibidem.
(7) Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo?, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, 5 dicembre 1783

Alcune ‘testimonianze’ contro il bavaglio

E’ legittimo resistere al bavaglio laddove è legittimo resistere al despota.

Ecco alcune testimonianze contro la ‘ley mordaza’ di Berlusconi.

Quando un sovrano assoluto si arroga il diritto di cambiare a suo piacimento le leggi fondamentali del suo paese, quando auspica a un potere arbitrario su una persona e i possessi del suo popolo, diventa un despota. Nessun popolo ha potuto né voluto accordare un potere di questo genere ai propri sovrani; se l’avesse fatto, la natura e la ragione lo mettono sempre in diritto di reclamare contro la violenza. La tirannide non è altra cosa che l’esercizio del dispotismo (1).

La libertà di esprimere e rendere pubbliche le proprie opinioni può sembrare dipendere da un altro principio, poiché rientra in quella parte del comportamento individuale che riguarda gli altri, ma ha quasi altrettanta importanza della libertà di pensiero, in gran parte per le stesse ragioni, e quindi ne è pratica inscindibile […] Nessuna società in cui queste libertà non siano rispettate nel loro complesso è libera, indipendentemente dalla sua forma di governo; e nessuna in cui non siano assolute e incondizionate è completamente libera (2).

Come il ferreo vincolo del terrore è inteso a impedire che, con la nascita di ogni essere umano, un nuovo inizio prenda vita e levi la sua voce nel mondo, così la forza autocostrittiva della logicità è mobilitata affinché nessuno cominci a pensare, un’attività che, essendo la più libera e pura fra quelle umane, è l’esatto opposto del processo coercitivo della deduzione (3).

Gli Illuministi smascherano il re mostrando in lui l’uomo, e in quanto uomo egli non può che essere un usurpatore. La critica carpisce alla figura storica la sua importanza. Così il re estraniato dal suo elemento, cioè dalla politica, diviene un uomo e in quanto tale è un usurpatore, un tiranno. E se è un tiranno, gli Illuministi hanno ragione con la loro critica. Il critico giusto è il giudice, non il tiranno dell’umanità (4).

1_ _ Denis Diderot (1713-1784), Sovrani, in Id., Potere politico e libertà di stampa, a cura di P. Alatri, Roma, 1966, p. 64.

2_ _ John Stuart Mill (1806-1873), Saggio sulla Libertà, a cura di G. Giorgello e M. Mondadori, Milano 1981, p.35-6.
3_ _ Hannah Arendt  (1906-1975), Ideologia e Terrore, in S. Forti, op. cit., p. 62.

4_  _ Reinhart Koselleck (1923-2006), Critica illuminista e crisi della società borghese, Il Mulino, Bologna 1972 [1959], p. 134.

L’ultimo spettacolo di Raimondo Vianello

The Berlusconi Show è tutto ciò che va in tv. Non serve fare nulla, basta guardare in camera. Basta seguire la luce rossa. E’ facile. The Berlusconi Show racconta la vita, e anche la morte. Le telecamere sono dovunque. Accese notte e giorno. E così si realizza la partecipazione emotiva, il coinvolgimento pieno e totale, totalizzante, dell’individuo, che vive il dolore e la felicità, le fortune e gli eccessi, la miseria e la virtù del protagonista. Tutto si svolge lì, sotto l’occhio della camera, e chi non accetta di spettacolarizzare il mero divenire dell’esistenza, semplicemente si condanna all’oblio.

La sofferenza di Sandra Mondaini la conosciamo tutti. Perché l’abbiamo vissuta. Sandra può essre nostra nonna, nostra madre, nostra sorella. Rimasta sola, sulla carrozzina, debole, consumata dagli anni di una vita pur discreta di soddisfazioni. Là, nel posto dove tutti si sentono accomunati dalla sorte, dove il dolore annichilisce, anche là, insieme alla telecamera che rimanda al luogo senza luogo, c’è Berlusconi.

Cito questo dettaglio dei funerali di Vianello, una persona di famiglia per generazioni di italiani, perchè credo dobbiamo sempre ricordarci qual è la leva dell’egemonia culturale berlusconiana: l’essere parte dell’immaginario comune di tutti. Prendersela con lui significa, per molti, prendersela anche con sè stessi. Ciò gli dà un’immensa forza (Raimondo&Sandra&Silvio, Gad Lerner).

C’è forse un forte senso di fedeltà nella scelta dei Vianello di apparire alla moltitudine televisiva. Fedeltà alla scena, che è poi fedeltà al datore di lavoro che quella scena produce. Mostrarsi alla luce del pubblico anche nel momento dell’addio è stato prestare il proprio dolore alla scena, poiché è la scena a chiederlo. Lui, il datore di lavoro, vi è entrato per un cameo, lui, anche regista di questa scena, ideatore, sceneggiatore, protagonista di The Berlusconi Show. Alza lo sguardo verso la camera al momento giusto, insieme ai figli adottivi, alla nonna-madre-sorella Sandra, insieme a tutti noi, abbracciati in un idealtipico tutt’uno che ci unisce e opprime.

Politica 2.0: rete molecolare e fine dell’apparato burocratico. Il nuovo paradigma del Popolo Viola.

Il Partito non esiste più. Non c’è più il Partito che media fra Stato e Cittadino. Il Partito si è fatto impermeabile alla società, al fine di bloccare la circolazione delle elité e prolungare la fase di potere della medesima classe dirigente. Così facendo, il Partito, perpetuando sé stesso, rinuncia al rapporto con la società, allo scambio domande-sostegno, si automutila perdendo la capacità aggregativa che possedeva quando era Partito di massa e portava nelle piazze migliaia di persone.
In Italia vi è stata una fase dove il Partito, in questa sua funzione aggregativa, era stato sostituito dal Sindacato. Possiamo far coincidere il periodo con il biennio 2001-2002, il biennio rosso del G8 e del Circo Massimo, durante il quale si profilava la leadership di Sergio Cofferati, ben presto fatta evaporare da strategie politiche incomprensibili (diventò sindaco di Bologna e si distinse come primo archetipo di sindaco-sceriffo, una vera delusione per tutta la sinistra italiana). Il suo successore alla CGIL, Epifani, ha cercato per alcuni anni di opporsi alla politica sindacale morbida di CISL e UIL, ma ora si appresta a ripiegare sulle loro stesse linee:

Sindacato protagonista ma non antagonista. E’ uno slogan del Congresso della CGIL. E anche il titolo di un Convegno dello SPI-CGIL che si terrà a Palermo nei prossimi giorni […] Per sua natura il sindacato deve essere antagonista, deve cioè essere portatore di istanze e di richieste che è difficile vengano accolte senza il conflitto, senza la dialettica dello scontro e del negoziato […] Può esistere un protagonismo senza antagonismo? Credo proprio di no a meno che non si pensi ad una fase della concertazione che superi gli accordi del 93 e stabilisca una sorta di automatismo per cui, date certi accordi interconfederali, non resta che una funzione ragioneristica di registrazione di eventuali variazioni […] Questa posizione che fa dei sindacati dei meri collaboratori del padronato e del governo sterilizza la loro funzione sociale di trasformazione e di riadattamento dei rapporti di classe e ne fa una sorta di osservatorio passivo dei fenomeni sociali.Siamo nel campo del cosidetto “moderatismo” che di fatto ha regolato le relazioni sindacali negli ultimi venti anni. (fonte: Verso una “Bolognina” della Cgil? – micromega-online – micromega).

Il sindacato ha così dilapidato una fortuna in termini di consenso e di sostegno. La folla del Circo Massimo non esiste più. E’ stata mandata via. E allora? Quale sorte per quella moltitudine senza “testa” che si aggira disorientata nel panorama politico italiano, senza più un nome che la identifichi, senza più una lotta che la riunisca sotto la medesima bandiera?

Il 5 Dicembre 2009 ha segnato la svolta. Il No B Day ha portato in piazza trecentomila persone. Senza partito, nè sindacato. Senza nome, senza bandiere, ma solo con il colore viola. Il mezzo che ha permesso di manifestare una indignazione e di vederla riconosciuta da altre persone e da altre persone ancora, è stato Facebook. Facebook materializza la rete dei rapporti che unisce la moltidudine dispersa. Permette alla moltitudine di far circolare all’interno della rete le infomazioni e le opinioni. Consente cioè la formazione di un’opinione pubblica alternativa a quella “costruita” dalla videocrazia. Finora la videocrazia ha prodotto opinione per produrre a sua volta consenso al proprio potere. Per mezzo di Facebook, la moltitudine sparsa si confronta e si scontra al fine di autoalimentarsi e creare una propria identità. Tramite Facebook, la moltitudine si manifesta al mondo e fa sentire la propria voce. Priva di leader, la moltitudine è leader di sé medesima. Genera opinione e alimenta il movimento. Tramite l’avatar del Popolo Viola, compie una spersonalizzazione che è rottura e antitesi alla politica italiana attuale. E di fatto si presenta come la vera, futura, forza di opposizione.

    • Il metodo, dunque, è stato quello di lanciare un segnale, un allarme, una proposta. E aspettare che fosse condiviso, sostenuto, partecipato. Nel caso contrario sarebbe morto lì, tra i pochi post di una pagina Facebook senza storia e senza futuro come ce ne sono tante.
    • il popolo viola è ovunque ma non sa di esserlo come direbbe Franca Corradini
    • I tentativi di dare una struttura -benché leggera- al Popolo Viola nato dalla Rete, ricorrendo agli schemi della democrazia delegata, dai coordinamenti ai gruppi di controllo, si sono rivelati fallimentari perché introducono elementi di paralisi o peggio ancora di “correntismo” tipici della modalità partitica
    • Il Popolo Viola non può essere un movimento formato partito nè viceversa. La sua natura era e deve rimanere quella di sensibilità diffusa e generalizzata, di innesco delle scintille che si producono per il superamento del berlusconismo e per il cambiamento nel Paese.
    • Popolo Viola è chiunque promuova un’iniziativa o una manifestazione che interpreti questo spirito e questi obiettivi, sia esso un cittadino, un collettivo locale o un utente di Facebook
    • Facebook per il Popolo Viola non è una semplice piattaforma virtuale come qualcuno va affermando avventuristicamente. Per le sue caratteristiche, per la sua capacità pervasiva, Facebook (visto in chave politica) rappresenta per il popolo viola ciò che il vecchio radicamento (le sezioni, i circoli, le sedi decentrate) rappresentavano per le forme classiche di aggregazione politica: fonte di informazione, di scambio, di formazione politica e di costruzione di un pluralismo identitario.
    • Facebook è “l’articolazione territoriale” del Popolo Viola nel paradigma della Rete.
    • I gruppi locali, nati in fase di costruzione del No-B Day, sono uno strumento di traduzione operativa di una sensibilità che vive nella Rete, che trova sbocco nella nuova modalità molecolare (e non orizzontale che è concetto tipico del politicismo “di base”).
    • Chi pensa di poter importare gli schemi partitici nella nuova modalità molecolare della Rete commette un grossolano errore di valutazione (o di sottovalutazione) ma soprattutto indica un percorso del tutto impraticabile. Sarebbe come voler alimentare una stufa a gas con la corrente elettrica.
    • il nostro percorso non può che avere i tratti di ciò che Manuel Castells definisce l’autocomunicazione di massa, la capacità moltiplicativa delle reti sociali attraverso cui oggi riusciamo a trasferire velocemente informazioni ad una platea ampia di cittadini, ad operare sintesi e ad innescare processi di mobilitazione in maniera piuttosto rapida.
    • Cosa che le strutture classiche (esempio i partiti), in funzione della loro articolazione politica e organizzativa non possono fare.
    • Abbiamo velocizzato i passaggi in un’ottica che è, appunto, di “condivisione e cooperazione tra pari” e freneticamente emendativa. La Rete è per sua natura costantemente autoemendativa, non consente previsioni di lungo periodo.
    • l’aspetto più innovativo di questa esperienza che oggi chiamiamo Popolo Viola, rispetto agli altri movimenti, è che il nostro non ha un leader, una figura che incarna eroicamente le istanze di cambiamento. Questo movimento è un leader collettivo.
    • il dato più innovativo e spiazzante e, allo stesso tempo, quello meno compreso e accettato (persino da chi si riconosce nel nostro popolo) da chi invoca figure di riferimento riconoscibili, visibili, “esposte” in un’ottica che è esattamente quella imposta dalla devastante tendenza alla personalizzazione della politica (facce e non contenuti: il berlusconismo)
    • Il Popolo Viola non è, al momento, un soggetto programmatico. E’ l’incontro tra molteplici identità che si riconoscono in un’unica richiesta politica: il superamento del berlusconismo e l’affermazione della legalità costituzionale.
    • Noi non ci occupiamo di tutti i problemi del nostro Paese: non siamo un partito o una confederazione sindacale. Noi ci preoccupiamo della deriva autoritaria del nostro Paese, dell’eccezione alla democrazia che Berlusconi rappresenta.

Posted from Diigo. The rest of my favorite links are here.

Popolo Viola is Back! Il 30 gennaio sit-in in tutta Italia in difesa della Costituzione

Di fronte all’ennesimo tentativo di saccheggiare la Costituzione, che si concretizza principalmente nelle manovre del Governo per garantire impunità a Berlusconi (a partire dal nuovo Lodo Alfano) e nei proclami irresponsabili di qualche ministro che chiede addirittura la cancellazione dell’Art. 1 (L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro…), abbiamo soltanto due strade: o assistere passivamente al delirio distruttivo dell’establishment berlusconiano o reagire con la prontezza e la determinazione democratica che la situazione richiede. Noi scegliamo la seconda. La Costituzione della Repubblica Italiana nata dalla Resistenza antifascista rimane, ad oltre 60 anni dalla sua emanazione, il principale strumento di garanzia del patto di convivenza civile di una società che fonda le proprie basi sul principio di uguaglianza tra i cittadini e l’anticorpo più efficace contro il rischio di nuove derive autoritarie. E’ per questo che ad ogni cittadino democratico compete difenderla. Noi siamo tra questi.

Invitiamo i cittadini e le forze democratiche del Paese ad organizzare sabato 30 gennaio, contemporaneamente in tutte le città italiane, sit-in in difesa della Costituzione.

Promuovono

Comitato 30 gennaio – pagina del Popolo Viola

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Facebook | Il 30 gennaio sit-in in tutta Italia in difesa della Costituzione.

Su Facebook, prima manifestazione virtuale di massa antirazzista contro il razzismo e la xenofobia.

Il gruppo di Fb No Lega Nord Day ha organizzato per sabato 16 Gennaio una manifestazione mai vista sinora: una protesta virtuale via Facebook per gridare no al razzismo di Rosarno e della Lega Nord. Lo scopo: avere impatto massmediatico. Far parlare dell’evento attraverso la (sciocca) cassa di risonanza dei meidia mainstream (in special modo i media di proprietà del Padrone).

Ma la manifestazione dovrà necessariamente essere disvelatrice di quella grande menzogna che si è voluto far passare attraverso quegli stessi media supini al Padrone, gli stessi media che hanno parlato di violenza dell’immigrazione e di degrado, quando invece a Rosarno il vero degrado è l’istituzione collusa e lo sfruttamento della manodopera fornita a costo pari a zero da migranti disperati in fuga dalla miseria.

Loro, i tessitori di trame logiche perfette da stendere al cospetto degli elettori, per incantenare gli stessi a una identità culturale che non prevede il diverso, queste eminenti personalità della politica italiana dovrebbero invece prendere atto del fallimento sistemico, del fallimento della statualità, e riconoscere in sé medesimi i primi responsabili di questo. A Rosarno lo Stato non c’è, lo Stato a Rosarno arriva come un esercito straniero, come una forza di interposizione, per un’azione di peace restoring. A Rosarno lo Stato è potente come lo è l’ONU sul teatro delle relazioni internazionali. Perlomeno, dovrebbero questi signori Ministri prendere coraggio e affrontare l’opinione pubblica e la verità. Invece la miseria che li perseguita, ne ha devastato le parole e le azioni, e ora non possono che ripetere la medesima litania di sempre: “è colpa di chi ci ha preceduto, è colpa dell’altro, è colpa del diverso”.

La miseria delle parole e delle azioni degli uomini politici è speculare alla miseria di un territorio in cui lo Stato ha abdicato per una forma di potere oscuro che trae linfa dalle isitituzioni stesse e che tende, non già a sostituirsi a esse, ma a cooptarle per rendere certa e a proprio favore la decisione.

E, pertanto ai promotori di questa iniziativa, lancio da queste colonne una proposta: che il grido anzirazzista non sia separato dal grido di giustizia e che sia evidenziata e sostenuta in questa occasione sia la protesta contro le leggi ad personam, sia la protesta contro l’illegalità mafiosa, sia il ripudio della politica anti-migranti della Lega e del governo: ma sia altrettanto sostenuta e divulgata la proposta di legge sulla cittadinanza scritta dai deputati Granata (PdL) e Sabelli (PD) con la quale si intendono abbreviare i tempi per l’acquisizione della stessa e rafforzare nel nostro paese il principio dello jus solis. Se ci abbandoniamo al mero contestare, falliremo ogni obiettivo. Sia questa un’occasione per informare e creare consenso sulle giuste battaglie.

Dicono che l’identità stiamo smarrendola, a forza di rinunciare alle nostre radici e di convivere con diversi che ci condannano al meticciato. Anche questa è menzogna. In realtà siamo già cambiati: non perché incomba il meticciato tuttavia, ma perché la nostra identità non è più quella ­ curiosa, accogliente, porosa ­ che fu nostra quando emigravamo in massa e incontravamo violenza. È un ottimo viatico l’ultimo libro di Gian Antonio Stella (Negri Froci Giudei – L’eterna guerra contro l’altro, Rizzoli 2009): si scoprirà che la mutazione già è avvenuta, nel linguaggio della Lega e nella disinvoltura con cui si accettano segregazioni che trasformano l’uomo in non uomo.  L’identità che abbiamo perduto, la recuperiamo solo se non tradiamo quella vera inventandone una falsa. Solo se sblocchiamo le memorie e ricordiamo che le sommosse antimafia dei neri prolungano le rivolte italiane condotte, sempre in Calabria, da uomini come Peppe Valarioti e Giannino Losardo, i dirigenti comunisti uccisi dalle ’ndrine nel 1980. Solo se scopriremo che il nostro problema irrisolto non è l’identità italiana, ma l’identità umana (B. Spinelli – Se questi sono uomini – La Stampa.it)

CONTRO RAZZISMO E XENOFOBIA 24 ORE DI PROTESTA SU FACEBOOK – Partecipa!

Sabato 16 gennaio 2010

Aderenti, sostenitori e simpatizzanti di No Lega Nord Day, abbiamo deciso di indire

LA PRIMA MANIFESTAZIONE VIRTUALE DI MASSA DELLA STORIA CONTRO IL RAZZISMO E LA XENOFOBIA.

Un piccolo sforzo per un grande sogno di giustizia.

Istruzioni per partecipare:

sabato 16 gennaio, per almeno 24 ore, teniamo come STATO la seguente frase

DIVERSO…PERCHE’? STRANIERO…DOVE? ALTRO…QUANDO? Siamo tutti parte del medesimo respiro. Smettiamo di accettare, per ignavia, l’esclusione e l’invenzione di nuove differenze. Non respingere, Accogli!

Anche Gesù è stato un clandestino. NORD DAY Milano 6 marzo 2010 ore 14.oo NO RAZZISMO! NO OMOFOBIA! NO XENOFOBIA!

Poi, durante la giornata ogni volta che vedremo in bacheca qualcuno che ha la stessa scritta clicchiamo su “Mi Piace”.

Quindi inviamo il comunicato riportato sotto a tutti i nostri contatti e chi vuole potrà scrivere un proprio pensiero sulla pagina dell’evento anche indicando citazioni, canzoni, o altro in tema tenendo conto che durante la giornata la pagina sarà al centro dell’attenzione dei media.

La politica che nasce dal conflitto: partito dell’odio e partito dell’amore.

La “filosofia” berlusconiana post piazza del Duomo è fondata su un errore di fondo: la retorica dell’amore che annienta l’odio è falsa, amore e odio si sustanziano a vicenda, eros e thanatos, le fruediane pulsione di vita e pulsione di morte, sono le grandi leve che muovono le cose del mondo e nessuna delle due prevarrà.
Tanta la letteratura in proposito, a cominciare da Carl Schmitt per arrivare ai pionieri della psicanalisi, Sigmund Freud e Carl Gustav Jung. Ed è proprio da Carl Schmitt che la politica berlusconiana trae – inconsapevolmente? – abbondante ispirazione: la campagna contro Prodi nel 2007, la propaganda anti-extracomunitario avviata dai suoi media prima delle elezioni del 2008, sono solo due dei tanti esempi di applicazione del meccanismo di formazione dell’identità negativa imperniata sulla dicotomia amico-nemico: se per Carl Schmitt, politico non è neutrale, allora in ottica berlusconiana, politico è stare dalla sua parte o stare contro. Il Berlusconismo e l’Antiberlusconismo sono amore e odio, nel senso di una coppia dicotomica le cui parti non esisterebbero l’una senza l’altra. Il Berlusconismo altro non è se non la proiezione dell’ombra del sé sull’altro, è vedere nello straniero, nell’altro, una minaccia, il male. Finché esisterà amore, esisterà odio, finché esisterà il Berlusconismo, esisterà l’Antiberlusconismo. Il conflitto nasce dalla divisione, dalla crisi e crisi è rottura dell’integrità dello spazio politico come spazio della neutralità: la sfera pubblica è occupata dal privato e – anziché essere condotta nell’interesse generale, quindi senza favorire nessun interesse particolare, in un campo di neutralità rispetto agli interessi particolari – diventa il campo della battaglia (quindi del sentimento?) dei singoli interessi, ovvero di amore e odio. La critica è manifestazione dell’odio e pertanto va denigrata ma non può essere eliminata poiché il sistema permane in equilibrio finché amore e odio continuano a alimentarsi a vicenda. Tanto amore richiamerà altrettanto odio: la politica del sentimento non è politica della ragione, bensì dei turbini dell’inconscio, e l’inconscio altro non è se non il territorio delle tenebre.

    • L’odio è un sentimento, come l’amore , come la gelosia, e nessuno Stato, nemmeno il più totalitario, ha mai osato mettere le manette ai sentimenti. Le ha messe alle azioni, le ha messe alle opinioni, non ai sentimenti. Tanto più questo dovrebbe valere in una democrazia. Io ho il diritto di odiare chi mi pare e anche di manifestare questo mio sentimento. L’unico discrimine è la violenza. Io ho il diritto di odiare chi mi pare ma se torco anche un solo capello alla persona, o al gruppo di persone che detesto per me si devono aprire le porte della galera.
    • Voler mettere le manette all’odio, come pare si voglia fare introducendo il reato di “istigazione all’odio”, significa in realtà mettere le manette alla critica. Perché l’odio è una categoria psicologica di difficilissima e arbitraria definizione.
    • istigo all’odio o esprimo una legittima opinione, giusta o sbagliata che sia?
    • Berlusconi è convinto, credo sinceramente convinto, che chi non lo ama “mi odia e mi invidia”. In termini psicoanalitici si potrebbe dire che “proietta la sua ombra”
    • Proprio la condizione d’estrema solitudine permette l’incontro con il lato oscuro di noi stessi. Ciò che abbiamo biasimato negli altri lo ritroviamo proprio dentro di noi (Jung consiglia, a chi volesse saperne di più sulla propria ombra (lato oscuro della personalità), di scrivere un elenco di cose che non gli piacciono negli altri).
    • Durante questo periodo d’intensa solitudine si possono produrre dei delirii e può verificarsi l’emersione d’immagini non solo personali ma anche collettive. I contenuti dell’inconscio personale (come l’ombra) sono collegati in modo indistinguibile con i contenuti archetipici dell’inconscio collettivo quindi, quando l’ombra diventa cosciente, essi in un certo qual modo portano a galla anche quelli.
    • L’incontro con il nero è la prima scoperta di ciò che non ci piace.
    • Tutto ciò che è ignoto e vacuo è riempito da proiezioni psicologiche.
    • E. T. A. Hoffman, nel suo racconto “Gli elisir del diavolo”, sembra anticipare il concetto junghiano di ombra. Il monaco

      Medardo proietta la sua parte malvagia, la sua ombra, su di un altro individuo. Solo dopo aver accettato le proprie colpe e reintegrato in sé l’ombra arriverà ad un grado di maggiore integrazione e sviluppo della propria personalità.

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I due principi fondamentali di Empedocle – philìa (amore, amicizia) e neikos (discordia, odio) – sia per il nome che per la funzione che assolvono, sono la stessa cosa delle nostre due pulsioni originarie Eros e Distruzione.»[3]

Cinico-auguri…

(emmart)

Piero Ricca, Marco Travaglio: Libertà è Critica.

Ora, la caccia alle streghe. Via gli striscioni dalle Università, via le scritte dai muri. Chi osa avanzare una critica è trattato da untore. Chi è critico è un terrorista mediatico. Ma “la critica è un’arte del giudizio, la sua attività consiste nel vagliare l’esattezza o la verità, la giustezza o la bellezza di un contenuto già dato, per ricavare dalla conoscenza così ottenuta un giudizio che come risulta dall’uso stesso del termine può essere esteso a persone” (in R. Koselleck, Critica e crisi, p. 120.). La critica come portavoce dell’opinione pubblica ha le stesse funzioni della lockiana censura morale, vale a dire ininfluenza sui costumi privati ma determinazione delle azioni pubbliche. E’ una commutazione verso l’esterno; non si tratta più di libero pensiero giudicante in foro interiore. Tutto è travolto nel vortice della pubblicità. Tutto diviene pubblico ma anche estraniato ideologicamente. Il critico non si arresta davanti al sovrano, bensì giudica tutti gli uomini, da uomo virtuoso, ma in ogni modo da «uomo». Ciò significa livellare tutto, anche il Re, ridurre l’uomo – chiunque esso sia – alla sola condizione di cittadino.

Gli Illuministi smascherano il re mostrando in lui l’uomo, e in quanto uomo egli non può che essere un usurpatore. La critica carpisce alla figura storica la sua importanza. Così il re estraniato dal suo elemento, cioè dalla politica, diviene un uomo e in quanto tale è un usurpatore, un tiranno. E se è un tiranno, gli Illuministi hanno ragione con la loro critica. Il critico giusto è il giudice, non il tiranno dell’umanità (in R. Koselleck, Critica e Crisi, p. 134).

L’illuminismo di Piero Ricca e la pratica della critica di Marco Travaglio sono il giudizio che riduce il Tiranno a uomo fra gli uomini, quindi lo rendono un eguale, un pari, e trattengono questo paese sul binario della democrazia. L’attacco a loro è l’attacco alla libertà di critica, ovvero alla libertà d’espressione. Se il Tiranno non può essere criticato, allora egli è posto al di sopra degli altri, e al di fuori della legge. Il medesimo senso che viene dato ai privilegi del (finto) premier, che secondo la sua pletora di giuristi, è “eletto” dal popolo e pertanto deve governare e non può rispondere delle proprie malefatte davanti alla Legge. Egli, pertanto, diventa Tiranno su mandato popolare, ed è intoccabile, in primis con la parola.

Questo il retroscena della manifestazione di domenica, della “pericolosa” manifestazione di barboni al soldo di Piero Ricca… Traetene voi conclusioni in fatto di libertà e critica in Italia, oggi, sedici dicembre duemilanove.

Firma l’appello in difesa di Marco Travaglio: Io sto con Marco Travaglio, dalla parte dei fatti.

  • Piero Ricca » Liberi cioé violenti

    • Mi dicono che su Telelombardia a botta calda già un critico d’arte (indovinate chi) faceva risalire a me le responsabilità dirette o indirette dell’episodio, e ha poi proseguito stamane su Canale 5. Mi dicono che una testata on line scrive che sono quello del treppiede in testa al “premier” e che ero in piazza ieri, poiché inspiegabilmente non c’è nessun provvedimento restrittivo a mio carico. Mi dicono che Sky tg 24 ha trasmesso un filmato in cui si ricostruiscono le “aggressioni al premier” nel quale compare anche (con tanto di foto in primo piano) la mia contestazione del 5 maggio 2003, che non ha prodotto nemmeno una multa e anzi è stata giudicata un atto di libertà di critica da una sentenza definitiva.
    • una critica evidentemente è considerata un’aggressione, o almeno un insulto, se a riceverla è un gran signore
    • Mi dicono che il Tgcom fa lo stesso. E il corriere on line di ieri pure. Leggo che sulla Stampa un certo Jacoboni infila in un editoriale l’episodio del buffone e della querela e sostiene che me la sarei cavata con la celia puffone-buffone (falso), evitando di parlare di assoluzione e di riportare in modo corretto la frase incriminata.
    • Naturalmente il fatto che ieri Berlusconi nella piazzetta dietro il Duomo sia stato contestato con ben motivata indignazione e in modo pacifico da molti cittadini, (comprese anziane signore e adolescenti) e che i tifosi del “premier” abbiano messo le mani addosso e colpito con pugni, calci e le aste delle bandiere alcuni dei contestatori sotto lo sguardo compiaciuto dei capetti del partito dell’amore, non è considerato una notizia
    • si approfitta di un fatto di cronaca (un folle che colpisce un uomo pubblico a margine di un comizio) per gettare fango su chi da anni esercita una funzione critica e fa opposizione in modo intransigente

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Tartaglia, furia iconoclasta contro l’inganno della mimesis.

Il volto del Leader tumefatto, la fissità dello sguardo, la paresi della bocca, ieri a Milano: immagini di uno sfregio fatto all’icona dell’ambiguità. Lui, l’uomo che si è fatto da sé, o forse no, l’uomo che è portatore del nuovo, o forse no, l’uomo che rivoluziona la politica e fa di sé e del suo corpo l’essere stesso, l’incarnazione del potere, eccolo, immobile come può essere solo un monarca improvvisamente nudo davanti al popolo.

La molteplicità degli sguardi e degli atteggiamenti che egli porta con sé da anni allontanano il semplice ossevatore dalla verità storica dell’uomo e del politico. Il Berlusconi capo di famiglia, il Berlusconi donnaiolo, il Berlusconi tradizionalista, il Berlusconi rivoluzionario, il Berlusconi attentatore stragista, il Berlusconi pacifista, il Berlusconi filorusso e quello filoamericano, tutto questo disordine e questa sovrapposizione di voci ha finito per ispirare la mano di uno qualunque, uno che ha vissuto nell’anomia fino al giorno scorso, ma che conosceva bene i mille volti del suo antagonista. Tartaglia o Signor Nessuno, poco importa.

Ciò che ha fatto più danno al volto del (finto) premier è la sua stessa parola e la profondissima distanza dai fatti.

Perché se la parola vera, è franca, libera, allora colui che dice il vero disvela sé stesso. Non nasconde ciò che pensa. Attraverso la parola, l’uomo rende conto al mondo di sé stesso. E’ il socratico rapporto armonico fra logos e bios, l’armonia fra logos e praxis. La connessione fra parlare e vivere implica l’accordo fra le parole e i  fatti, poiché le parole senza il sostegno dei fatti sarebbero prive di senso. La parola libera non è solo opinione. E’ corrispondenza fra ciò che è detto e ciò che è fatto.

All’opposto, la minaccia della mimesis, ovvero della maschera, della riproduzione del vero, investe il logos, il contenuto, e la parola non è più disvelazione di se stessi. Essa è tradita, poiché è tradita l’unicità del parlante. Verità è disvelarsi con la parola senza voler essere qualcun altro. Colui che pratica la parola libera rende conto al mondo della verità su se stesso, di essere unico al mondo. E’ questo status ontologico dell’essere uno che interessa. La minaccia del bios come verità unica del parlante. La rottura operata dalla mimesis – l’imitazione, la pantomima – nell’unicità del parlante comporta il problema di doversi confrontare con una persona radicalmente frammentata, disorganizzata. Colui che esercita la mimesis non lascia dietro sé un’unica traccia. Il disegno che le sue azioni e le sue parole fanno di esso è confuso, non è una traccia, non è un disegno, bensì una molteplicità di segni di molteplici personalità non disvelabili pienamente.


– Io sono Oz; il Grande e Terribile Oz. Perché mi cercate? Si guardarono ancora intorno nella sala e, non vedendo nessuno, Dorothy domandò: – Dove sei? […] Tutti guardarono da quella parte e rimasero semplicemente allibiti. Perché proprio nell’angolo che il paravento aveva tenuto nascosto, stava un ometto piccolo, calvo e rugoso, dall’espressione attonita non men che la loro. […] – Credevo che Oz fosse una enorme testa, – mormorò Dorothy (L. Frank Baum, Il mago di Oz).
Il Mago di Oz non è una enorme testa, non è un Mago, non è un Mostro di cui aver timore: quando il Mago di Oz disvela di non essere ciò che dice di essere, allora il Leone e il Boscaiolo di Latta si scagliano su di lui. Questo ispira la mimesis, questo ispira l’infinita ipocrisia del parlante che non è vero poiché non è unico ma duplice e perciò minaccioso. La violenza come ultimo atto di verità nella torbida miscela di rappresentazione e imitazione che infesta la sfera pubblica.

Un nuovo articolo su Pensiero Divergente

Fra pluralismo antagonista e risveglio religioso – Polonia 1970-1981 was just recommended by cubicamente

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shadow.gif “Nuovo articolo su Pensiero Divergente: “Fra pluralismo antagonista e rinascita religiosa – La Polonia nel decennio 1970-1981″.”

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Diritti Universali e Politica secondo Gianfranco Fini. Anatomia di un discorso.

Colpisce l’alto profilo politico del discorso di Gianfranco Fini alla Conferenza sui Diritti Umani, tenutasi a Roma lo scorso 20 Novembre. Un discorso fortemente influenzato dal giuspositivismo di Norberto Bobbio – cita infatti il testo fondamentale in tema di diritti naturali e positivi, ‘L’età dei diritti’ – attraverso il quale Fini tenta un ragguaglio intorno alla crisi della universalità dei diritti umani e al prevalere del relativismo culturale e della sua idea fondate, ovvero la inconfrontabilità delle culture e la irrimediabile connessione dei diritti alla storia e allo spirito del popolo. E’ chiaro che l’universalità dei diritti è una idea, è un costrutto; l’universalità dei diritti dell’uomo deriva da un fatto storico, inizia a farsi largo nelle menti degli uomini quando qualcuno ha deciso di affermarli solennemente, emergendo alla luce dopo il conflitto e la rivoluzione.
Da allora continuano a emergere nuove istanze, a delinearsi nuovi cataloghi di diritti individuali: se quaranta anni fa, essi emergevano prevalentemente dalla sfera sociale, oggi è nuovamente il campo della sfera privata a chiedere strumenti normativi a tutela della propria facoltà di autodeterminazione. Fini cita ad esempio il caso del fine vita e dei temi ‘eticamente sensibili’: se da un lato la politica è latitante e si è configurato un vuoto normativo che minaccia l’effettività del diritto di scelta delle cure mediche, dall’altro il potere politico legislativo non può superare il limite della sfera individuale, quindi deve astenersi dall’intervenire – evitando di prefigurarsi come potere totalizzante – normando solo le modalità di espressione della scelta, prevedendo i casi in cui l’individuo è nelle condizioni di farlo, ovvero è nella pienezza delle informazioni necessarie, oppure in caso contrario, disponendo chi deve sostituirsi a esso – famiglia, medico, giudice, stato.

  • Ffwebmagazine – I diritti dell’uomo e il ruolo della legge

    Da un punto di vista storico, la democrazia e i diritti umani sono stati sempre considerati come fenomeni distinti, relativi ad aree differenti della sfera politica: la democrazia come una questione che attiene all’organizzazione del governo, i diritti umani, invece, come un problema relativo alla dignità della persona e alla sua tutela. Quando parliamo di democrazia, abbiamo imparato a pensare soprattutto a questioni di ordine costituzionale e di organizzazione del potere pubblico, quali, ad esempio, la separazione dei poteri, la competizione elettorale, il pluripartitismo e così via. Nel caso, invece, dei diritti umani, quest’ultimi assumono l’individuo come punto di riferimento e sono volti a garantire ai singoli le condizioni minime necessarie per una vita libera e dignitosa. Come implica il termine “umano”, il riconoscimento di tali diritti è stato sempre inteso in senso universale ed è stato oggetto di apposita regolamentazione internazionale; al contrario, le vicende costituzionali dei singoli governi sono state tradizionalmente considerate come elemento costitutivo della “sovranità” di ogni Stato. Queste distinzioni sono state ulteriormente rafforzate da una divisione disciplinare che ha assegnato lo studio della democrazia alla scienza politica e quello dei diritti umani alla legge e allo sviluppo della giurisprudenza: due campi di ricerca che, in molte parti del mondo, a partire da quello anglosassone, hanno avuto scarsa connessione l’uno con l’altro. Oggi questa separazione non è più sostenibile se mai lo è stata. Il crollo dei regimi totalitari sotto la pressione popolare ha dimostrato che la democrazia, insieme ai diritti umani, è una aspirazione universale, piuttosto che una complessa formula politica e giuridica. I dati sulle violazioni dei diritti umani perpetrate sotto i regimi dittatoriali, quale sia stata l’ideologia, hanno dimostrato che il tipo di sistema politico all’interno di un paese è lungi dall’essere irrilevante per lo standard dei diritti umani goduti dai suoi cittadini. Da questo punto di vista, pertanto, solo la democrazia è il sistema di governo più idoneo a difendere i diritti umani, dal momento che i principi basilari su cui essa poggia garantiscono, per definizione, il pieno sviluppo di quei diritti che noi chiamiamo “civili” e “politici”. Le nuove sfide derivanti dalla “età dei diritti” denotano, tuttavia, una irresistibile inclinazione dei diritti fondamentali ad espandersi oltre i confini dei singoli ordinamenti democratici. Il fenomeno non è nuovo: dopo la seconda guerra mondiale un’intera stagione politica è stata caratterizzata dal moltiplicarsi degli strumenti internazionali dei diritti umani, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu del 1948, alla Convenzione europea dei diritti e delle libertà fondamentali del 1950, ai Patti sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali degli anni ’60, alla Carta – infine – dei diritti fondamentali dell’Unione europea approvata nel 2000. Eppure, negli anni più recenti, i diritti fondamentali sono stati sottoposti a nuove e, in parte, contraddittorie sfide. Da un lato, infatti, vi è una forte accelerazione verso l’universalizzazione dei diritti fondamentali nel cui nome si discutono questioni come la crescita demografica, l’immigrazione, le nuove forme di povertà, la tutela dell’infanzia, la condizione femminile, le scelte di fine vita tra etica e diritto, la moratoria sulla pena di morte, l’emergenza ambientale, fino ad arrivare alle più disparate forme di rivendicazione individualistica. Dall’altro lato, invece, paradossalmente, mai come oggi l’idea stessa dei diritti umani è stata posta radicalmente in discussione dalle critiche filosofiche post-moderne e relativiste. L’avanzare dei diritti umani è stato accompagnato dal dubbio sulla loro universalità, un dubbio che li colpisce alla radice, mettendo in discussione il fatto che essi possano essere riconosciuti ed applicati ovunque. È interessante notare come lo stesso Norberto Bobbio, che auspicava l’avanzare dell'”età dei diritti” sul piano universale, denunziasse poi, nel contempo, «l’illusione del fondamento assoluto» dei diritti fondamentali, dal momento che, cito testualmente, «non si vede come si possa dare un fondamento assoluto a diritti storicamente relativi, variabili di luogo in luogo e di tempo in tempo». Nel pensiero di Bobbio è, dunque, racchiusa tutta la profonda tensione interna che spinge per l’effettivo riconoscimento di diritti universali, ma che, allo stesso tempo, dubita del loro fondamento assoluto. Ben altra cosa, ovviamente, sono le critiche al cosiddetto “pseudo-universalismo” dei diritti umani alimentate da alcune tendenze individualiste che, tradendo lo spirito della Dichiarazione universale, hanno iniziato a promuovere una visione dei diritti umani solo parziale, espressione di una cultura incentrata su un individuo isolato ed astratto dalla società, un individuo concentrato su se stesso e totalmente autodeterminato. Al riguardo, se è vero che il ragionamento di fondo del relativismo culturale ruota intorno all’affermazione della inconfrontabilità delle culture, non si deve dimenticare che la prospettiva del relativismo culturale si intreccia profondamente con la pretesa dell’Occidente di essere la cultura dominante e di incarnare il “telos” della cultura universale. Quali possono essere allora le strade per ricomporre questa tensione tra universalità e storicità dei diritti umani? Di fronte alle sfide del multiculturalismo contemporaneo, in cui si incontrano per convivere culture basate su valori a volte inconciliabili, dobbiamo forse arrenderci alla rassegnazione relativista, ampiamente diffusa, che ostacola il riconoscimento dei diritti universali della persona, oppure dobbiamo adoperarci per favorire l’incontro fra le culture così da costruire un patrimonio umano universale che accomuna tutti gli uomini? La storia, dal canto suo, ha già fornito alcune importanti risposte: il potenziamento del ruolo internazionale dei diritti umani, la transmigrazione dei concetti costituzionali da un paese all’altro e da un continente all’altro, la funzione di garanzia svolta dalle Corti, nazionali ed europee, dimostrano come vi sia una spinta verso il giusto riconoscimento del valore della persona e della sua libertà di autodeterminarsi. Sotto quest’ultimo aspetto, è sempre più frequente leggere espressioni come “i diritti delle generazioni future”, “i diritti riproduttivi”, “il diritto a morire”, “il diritto ad ammalarsi”, “il diritto ad avere un figlio” e così via. Se nei decenni passati il terreno più fertile per lo sviluppo dei nuovi diritti era quello economico-sociale, oggi i “nuovi diritti fondamentali” nascono dall’esigenza di garantire il diritto al rispetto della vita privata che, a volte, però, tende a trasformarsi in una assoluta “pretesa” all’autodeterminazione e alla libertà individuale. Se, infatti, all’origine, tale diritto si configurava come uno spazio privato nei cui confronti non poteva fare irruzione il potere pubblico, attualmente esso esige, invece, che l’autorità pubblica assicuri il soddisfacimento di desideri ed aspirazioni riguardanti la sfera più personale, riservata ed intima. L’esito di questa evoluzione è che si è generata nel tempo una forte confusione, se non addirittura una rischiosa sovrapposizione, tra l’affermazione dei desideri privati e il riconoscimento dei diritti fondamentali. Quale punto di equilibrio dobbiamo allora cercare di raggiungere? A questo interrogativo, che racchiude in sé la questione dei limiti cui è soggetta la libertà di autodeterminazione, cercherò di rispondere constatando, in primo luogo, come uno degli aspetti da sempre più problematici per la tutela dei diritti fondamentali sia rappresentato proprio dal rapporto che intercorre tra il ruolo del potere giudiziario e il ruolo delle istituzioni politiche. Il progressivo ampliamento del campo di azione del giudice e l’affermazione di modelli di definizione del diritto in via giurisdizionale diretti a colmare lacune legislative hanno portato, soprattutto nel nostro paese, sia ad identificare nel diritto giurisprudenziale una nuova via, un “diritto mite”, “flessibile”, maggiormente in grado di soddisfare le esigenze di tutela dei diritti individuali, sia, al contrario, a denunciare una stagione di latitanza della politica con conseguente abbandono di questioni delicate e cruciali nelle mani degli stessi giudici. D’altronde, se il legislatore non riesce ad intervenire nelle cosiddette materie “eticamente sensibili” non può che spettare al giudice la ricerca della soluzione ragionevole applicabile al caso di specie, alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale d’insieme. Tra le questioni più complesse che ci troviamo, quindi, ad affrontare oggi vi è la crisi degli strumenti tradizionali delle libertà, dei diritti fondamentali e dei diritti umani. La legge, che è stata a lungo lo strumento non solo tecnico, ma anche istituzionale, di progressiva tutela sempre più ampia ed effettiva delle libertà e dei diritti, deve recuperare la sua funzione centrale perché è soltanto attraverso il libero e ampio confronto parlamentare che si può raggiungere un alto livello di mediazione politica e sociale tra le legittime visioni contrapposte. Va da sé, ad esempio, per venire all’attualità dei nostri giorni, che ogni decisione sulla vita deve essere rigorosamente assunta sulla base dei princìpi costituzionali, tenendo presente però che l’autodeterminazione non vive in una dimensione astratta e che le condizioni materiali incidono profondamente sui modi di scegliere, di autodeterminarsi delle persone. Per questo, a mio avviso, il ruolo delle istituzioni deve avere come finalità quella di rendere la decisione effettivamente libera, vale a dire una finalità opposta a quella di espropriare qualcuno della sua sovranità sulla propria vita. Una componente essenziale dell’azione pubblica è infatti quella di costruire le condizioni perché l’autodeterminazione viva nell’ambiente sociale che la rende libera e che consente poi il pieno esercizio di questo diritto. Questo è un terreno su cui il Parlamento, se vi riesce, può sensatamente riaffermare una sua centralità qualitativa. Questo è quello che chiedono con forza tutti gli italiani al di là di ogni distinzione di parte.

  • Gianfranco Fini, Presidente della Camera. Intervento pronunciato in occasione della Conferenza sui Diritti umani, Roma, 20 novembre 2009

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