Ancora sull’incandidabilità di Berlusconi e la decadenza da senatore

Il consiglio di Stato, con la sentenza n. 695/2013, ha – come riferisce Vito Crimi su Facebook – messo “una pietra sopra” alla teoria della inapplicabilità del decreto Monti (n. 253/2012) alla fattispecie berlusconiana (la cosiddetta “linea Guzzetta” che farebbe leva sullo jus superveniens e l’irretroattività delle leggi). La sentenza è datata 06/02/2013 e riferisce al caso di Marcello Miniscalco, candidato nella lista regionale del candidato Presidente Paolo Di Laura Frattura per l’elezione del Presidente della Giunta Regionale e del Consiglio Regionale del Molise, avvenuta nei fatidici giorni 24 e 25 febbraio 2013. il ricorso di Miniscalco era rivolto contro la decisione dell’Ufficio Centrale Regionale con la quale – cito dal testo della sentenza –  “è stata disposta la cancellazione del nominativo del candidato Miniscalco Marcello dalla lista regionale a supporto del candidato Presidente Paolo Di Laura Frattura”.

Miniscalco fu condannato nel 2001 per abuso d’ufficio. Sentenza definitiva ma, per la durata della condanna, rientra nella casistica prevista dal decreto legislativo 253/2012. L’Ufficio Centrale Regionale ha correttamente applicato la legge e il 28 Gennaio, un mese prima del voto, mise Miniscalco fuori partita.

Il ricorrente sosteneva:

  1. che “la normativa inibitoria di cui al citato D.Lgs. n. 235/2012 sarebbe applicabile solo con riferimento alle sentenze successive alla sua entrata in vigore”;
  2. che il provvedimento avesse profili di incostituzionalità.

Il Consiglio di Stato ha smentito il Miniscalco, per due ordini di ragioni:

  1. fine primario perseguito è quello di allontanare dallo svolgimento del rilevante munus pubblico i soggetti la cui radicale inidoneità sia conclamata da irrevocabili pronunzie di giustizia. In questo quadro la condanna penale irrevocabile è presa in considerazione come mero presupposto oggettivo cui è ricollegato un giudizio di “indegnità morale” a ricoprire determinate cariche elettive […]; ’applicazione della richiamata disciplina ai procedimenti elettorali successivi alla sua entrata in vigore, pur se con riferimento a requisiti soggettivi collegati a fatti storici precedenti, non dà la stura ad una situazione di retroattività ma costituisce applicazione del principio generale tempus regit actum che impone, in assenza di deroghe, l’applicazione della normativa sostanziale vigente al momento dell’esercizio del potere amministrativo;
  2. l’art. 16, comma primo, del decreto legislativo n. 235/2012, in deroga al regime che sarebbe stato altrimenti applicabile in ossequio all’art. 11 cit. delle preleggi, esclude la rilevanza ostativa delle sole sentenze di patteggiamento anteriori alla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 235/2012;
  3. non appare irragionevole l’incandidabilità di chi abbia riportato una condanna precedente all’entrata in vigore dello jus superveniens : costituisce, infatti, frutto di una scelta discrezionale del legislatore, certamente non irrazionale, l’aver attribuito all’elemento della condanna irrevocabile per determinati reati una rilevanza così intensa, sul piano del giudizio di indegnità morale del soggetto, da esigere, al fine del miglior perseguimento delle richiamate finalità di rilievo costituzionale della legge in esame – connesse ai valori dell’imparzialità, del buon andamento dell’amministrazione e del prestigio delle cariche elettive – l’incidenza negativa sulle procedure successive anche con riguardo alle sentenze di condanna anteriori alla data di entrata in vigore della legge stessa (così Corte Cost., sent. n. 118/1994 cit.) – sentenza 695/2013 Consiglio di Stato.

Tornando al caso di Berlusconi:

  • la sentenza definitiva è sopraggiunta in data posteriore all’entrata in vigore del decreto legislativo 253/2012 – vi ricordo il comma 1 dell’articolo 1 del decreto Monti: “Non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire”, equivale a dire che l’eletto, se condannato definitivamente, decade dalla sua funzione;
  • le elezioni politiche di Febbraio si sono svolte quando la disciplina sull’incandidabilità dei condannati era già in vigore.

Non credo ci sia altro da aggiungere.

 

Ius superveniens [diritto o legge successiva] (teoria gen.)
Espressione adoperata in relazione al fenomeno della successione delle leggi nel tempo.
Il principale problema posto dallo (—) è quello relativo alla normativa applicabile ai rapporti giuridici nati nel vigore della vecchia normativa e destinati ad esaurirsi nell’ambito della normativa nuova. A tal proposito vige il principio dellairretroattività delle leggi, in forza del quale i rapporti sorti nel vigore della precedente normativa continuano ad essere da essa disciplinati (

OCSE chiede di riformare la legge sulla Prescrizione

A leggere il report OECD sulla situazione economica dell’Italia, specie le pagine che contengono le conclusioni dell’organismo internazionale, ci si stropiccia gli occhi in quanto ci si aspetterebbe ben altro che un invito – inequivocabile – a spingere sulle riforme anticicliche e pro-crescita. E invece, le due pagine di raccomandazioni sembrano un vero e proprio programma di governo: un programma al cui cospetto i discorsi del governo Letta paiono essere più una lista disordinata di (buoni) propositi che mai vedranno la luce.

Dico questo anche un po’ provocatoriamente, ma saprete meglio di me che una delle principali obiezioni sollevate durante la stagione economicamente depressiva del governo Monti rispetto a politiche anticicliche era che i vincoli europei sul bilancio pubblico non potevano essere violati. In realtà non era affatto vietato che il governo prendesse provvedimenti volti ad una generale deregulation, specie nel settore delle professioni. Ma voi saprete che la nostra rivoluzione liberale si è dimostrata una bolla di sapone e la parte politica che storicamente se ne è fatta carico, è stata presto infiltrata da lobbisti e dai piccoli feudatari delle rendite di posizione. Quindi, la nostra interpretazione del dettato europeo è stato: maggiore tassazione erga omnes, conseguente compressione salariale, riduzione dei consumi, riduzione degli ordinativi, riduzione delle produzioni industriali e così via in una spirale negativa che ci ha fatto perdere quasi il 3% di Pil lo scorso anno e – stando alle previsioni OECD aggiornate – il 1.5% nel corso del 2013.

L’OECD ha suddiviso le raccomandazioni in tre parti: la prima dedicata alla politica fiscale e finanziaria; la seconda circa il mondo della produzione della regolamentazione del mercato del lavoro e altre politiche strutturali; la terza e ultima relativa alla riforma della Pubblica amministrazione e della giustizia civile. E’ da leggere la parte relativa al mercato del lavoro, in cui l’organizzazione internazionale suggerisce al governo di rovesciare l’impostazione attuale, che vede garantiti i lavoratori che un lavoro ce l’hanno, mediante le varie forme della cassa integrazione, estendendo una sorta di assicurazione sociale a tutti, compresi disoccupati e quelli che un lavoro non lo cercano più. In materia di controllo della spesa pubblica, l’OECD chiede di proseguire la strada intrapresa con la spending review, stabilendo per la selezione delle politiche di spesa un criterio basato sulla priorità dell’intervento.

E’ molto interessante il capoverso sulla Giustizia. Sarei curioso di sapere cosa ne pensa la dolce metà della maggioranza PD-Pdl poiché in esso si cita la necessità di prevenire e risolvere i conflitti di interesse. Inoltre, per l’OECD il ricorso ai decreti lege andrebbe limitato e il governo dovrebbe legiferare per mezzo di codici o di testi unici. Ma soprattutto colpisce l’ultimo punto, il numero tre, laddove viene prescritto di rivedere la legge sulla ‘Prescrizione’ dei processi, che andrebbe rivista onde evitare ‘manovre dilatorie’, permettendo lo svolgimento sia del processo che dell’appello nei limiti delle prescrizione medesima. Qualcosa di indigesto per i peones di Berlusconi e pertanto non verrà mai raccontato sui giornali.

Quello che segue è il testo delle pagine 13 e 14 del documento pubblicato a questo link: http://www.keepeek.com/Digital-Asset-Management/oecd/economics/oecd-economic-surveys-italy-2013_eco_surveys-ita-2013-en

In corsivo i miei commenti e le parti che, a mio avviso, sono degne di essere confrontate con le dichiarazioni alle Camere (decisamente soft) del presidente del Consiglio Enrico Letta.

La politica fiscale e finanziaria.

  1. Proseguire gli sforzi per arrestare e invertire la tendenza al rialzo del rapporto debito-PIL. Ciò potrebbe essere realizzato sia con un bilancio in pareggio o con un piccolo surplus fiscale, sostenuto da una forte implementazione di riforme strutturali che agiscano sulla crescita.
  2. Mettere a fuoco il consolidamento di bilancio sul controllo della spesa [spending review], con un processo di revisione della politica della selezione delle priorità, una delle quali è un regime di assicurazione contro la disoccupazione ancor più completo, già legiferato [salario minimo?].
  3. Se le condizioni macroeconomiche si deteriorano, ancora una volta, consentire agli stabilizzatori automatici di funzionare [doppio aumento IVA]
  4. Creare il cosiddetto Consiglio fiscale appena legiferato, dandogli piena indipendenza, personale altamente qualificato, garanzia di accesso ai dati, un bilancio adeguato e la libertà di investigare come ritiene necessario.
  5. Incoraggiare le banche ad aumentare ulteriormente le disposizioni contro le perdite, e continuano a sollecitarle nel soddisfare le loro esigenze di capitale con ricapitalizzazioni o vendita di attività non-core. Incoraggiare la concorrenza nel settore finanziario.

La produzione e la regolamentazione del mercato del lavoro; altre politiche strutturali.
Proeguire le riforme del 2012:

  1. Completare l’attuazione delle riforme chiave, assicurando che la regolazione del settore Trasporti venga istituita rapidamente e che l’Autorità garante della concorrenza utilizzi i suoi nuovi poteri attivamente.

Estendere le riforme:

  1. Rimuovere normative restanti che limitano la capacità nei servizi di vendita al dettaglio e professionali; riconsiderare alcuni passi indietro, in particolare quelli che hanno limitato l’espansione della concorrenza tra avvocati.
  2. Promuovere un mercato del lavoro più inclusivo, migliorare l’occupabilità, con un maggiore sostegno per la ricerca di lavoro e della formazione, collegato con una più ampia rete di sicurezza sociale, anziché salvaguardare posti di lavoro esistenti.
  3. Promuovere l’ampliamento dell’attuale accordo tra le parti sociali in modo da allineare meglio i salari rispetto alla produttività, per contribuire a ripristinare la competitività.
  4. Ampliare la base imponibile [lotta all’evasione] riducendo l’imposizione fiscale completa, consentendo riduzioni di aliquote fiscali marginali sul lavoro, in particolare sulla seconda fonte di reddito.

Pubblica amministrazione e della giustizia civile
Segui attraverso le riforme 2012:

  1. Incoraggiare l’uso delle disposizioni di trasparenza della riforma della pubblica amministrazione e la legge anti-corruzione, agendo con decisione sulle inefficienze, sui conflitti di interesse o la corruzione.
  2. Completare la riorganizzazione territoriale dei tribunali, ottimizzando i processi giudiziari, migliorando l’uso delle tecnologie dell’informazione e allargando gli incentivi per un maggiore utilizzo di meccanismi di risoluzione alternativa delle controversie. Continuare razionalizzazione del governo sub-nazionale [abolizione delle province].

Estendere le riforme.

  1. Limitare l’uso di decreti legge, lavorare per codici (“Testo Unico”) della legislazione, garantire la valutazione dell’impatto effettivo di leggi e regolamenti, e aumentare l’uso di clausole transitorie.
  2. Costruire intorno alle disposizioni di legge anti-corruzione sviluppando a tutti gli effetti una Legge sulla libera Informazione [nel testo ‘freedom of information act‘].
  3. Rivedere la legge sulle limitazioni (“prescrizione”) nei procedimenti per crimini di corruzione per ridurre gli incentivi a manovre dilatorie, come includere lo svolgimento del processo in primo grado e d’appello nei termini della prescrizione.

DL Stabilità, colpita anche la spesa per intercettazioni

Mentre la politica sta implodendo – sì, penso che sia questo il termine più corretto per descrivere lo psicodramma nazionale – il governo procede imperterrito, come un rotativa di stampa, a produrre nuove norme correttive di quelle adottate sinora tanto che risulta quasi impossibile star dietro ai cambiamenti e forse ci vorranno mesi, per non dire anni, a capire e comprendere in profondo gli effetti di questo stravolgimento.

Il DL Stabilità ha occupato le prime pagine dei giornali per quella odiosa norma che riduce le detrazioni fiscali anche per l’anno corrente, il che significa per molti, parlo in special modo per i sostituti d’imposta, dover stornare a Gennaio, in sede di conguaglio, la parte di imposta non versata poiché coperta dalla detrazione. Ma il disegno di legge è una costellazione di norme, spesso da leggere in combinato con quelle oggetto di emendamenti e aggiunte o modifiche di singole parole. Per cui colpisce quel che emerge dalla lettura del comma 11 dell’articolo 3 intitolato “Riduzione delle spese rimodulabili ed ulteriori interventi correttivi dei Ministeri”.

Il decreto 259/2003 è noto con il nome di Codice delle comunicazioni elettroniche. Il comma 2 dell’art. 96 fa riferimento a una sorta di listino prezzi stabilito dal Ministero delle Comunicazioni, contenuto nel D.M. 26 aprile 2001, che è relativo alle intercettazioni effettuate da soggetti specializzati per conto delle autorità giudiziarie. La norma, come ridisegnata dal governo Monti, cancella di fatto il listino prezzi del 2001 e demanda ad un decreto del Ministro della giustizia e del Ministro dello sviluppo economico, da adottare con il concerto del Ministro dell’economia e delle finanze, il compito di determinare le prestazioni obbligatorie a carico degli operatori e il ristoro dei costi, nelle forme di un canone annuo forfettario. E’ di fatto la tanto temuta riduzione di spesa per le intercettazioni. Il comma 12 specifica che l’abrogazione del listino prezzi del 2001 avrà effetto solo nel momento in cui il Ministero della Giustizia approverà il decreto suddetto, questo al fine di evitare un blocco delle attività investigative da parte dei fornitori delle procure. In ogni caso, il taglio che si prefigura non è affatto chiaro ed è soggetto al vaglio del MEF. Ma è implicito che tale modifica abbia lo scopo di raggiungere evidenti obiettivi di spesa, anche se non specificati.

Non credo sia il caso di dare la stura ai profeti dell’indignazione, ma credo che la propensione del governo a tagliare tutto quanto sia tagliabile sia un fatto preoccupante tanto quanto quello di aumentare le tasse ad ogni decreto di carattere economico. Ma quel che più impressiona e che ciò stia avvenendo in un clima di generale caos nella classe politica, distratta dal mercimonio del denaro pubblico a tal punto da non accorgersi che l’erosione della spesa stia oramai procedendo verso il nocciolo delle funzioni vitali della Macchina-Stato. E Monti e soci sono al punto di recidere la giugulare del paese, che è poi l’attività investigativa delle procure chiamate a far giustizia anche di questa marmaglia che passa sotto al nome di Casta. Senza una magistratura inquirente e una giustizia funzionanti, non riusciremo mai a bonificare il terreno pubblico della competizione politica. E resteremo in una sorta di stato comatoso, estremamente bisognosi di un governo tecnico. Bis, magari.

Alfano che siede alla destra dell’ndrangheta

Angelino Alfano è segretario di quel partito che si è visto azzerare una giunta comunale per collusione con l’ndrangheta. Ma è anche segretario di quel partito che governa al Palazzo della Lombardia per mezzo del governatore seriale, alias Roberto Formigoni, che annovera fra i propri assessori un tale di nome Zambetti, eletto con i voti ‘ndranghetisti. Oggi, il segretario ha avuto il coraggio di commentare la scelta del governo di sciogliere il Consiglio Comunale di Reggio Calabria. E a sorpresa ha espresso la propria solidarietà agli amministratori del capoluogo reggino. Vale a dire si è detto solidale con alcuni signori ritenuti, da una attenta e scrupolosa indagine del Viminale, collusi con l’ndrangheta. Ignorati dieci anni di progressi, ha tuonato.

Lo scioglimento di Reggio è direttamente correlato con quanto si sta scoprendo a Milano. E la linea rossa che connette i due capoluoghi di regione, attraversa come una ferita il partito dell’ex presidente del Consiglio Berlusconi. La relazione del Viminale accenna a un collegamento fra la società ‘mista’ Multiservizi del Comune di Reggio Calabria e un ufficio di Milano, sito in via Durini  14. La Multiservizi fu sciolta a Luglio poiché la Prefettura le revocò il certificato antimafia e il Comune, guidato dal pidiellino Demetrio Arena, ha dovuto giocoforza prendere tale decisione. L’impresa era infiltrata dalla cosca guidata dal boss ex latitante Giovanni Tegano. Gli Interni hanno evidenziato come la direzione di questa società, posseduta per il 51% dal Comune, fossero collegate all’ufficio di via Durini. Che è anche sede delle attività di tale Bruno Mafrici, avvocato, già noto alle cronache per esser stato il consulente finanziario del tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito.

Trentasette anni e un bigliettino da visita sul quale c’è scritto avvocato, anche se Mafrici, calabrese di Condofuri, non si è mai abilitato alla professione. Il suo quartier generale è nella centralissima via Durini a Milano. Qui si incontravano tutti. Leghisti, affaristi, uomini fortemente in “odore” di ‘ndrangheta come Romolo Girardelli, l’ammiraglio, vecchi arnesi dell’estremismo di destra riciclati e diventati pezzi grossi della Milano da bere. […] Entra nelle grazie di Francesco Belsito, il tesoriere della Lega, che lo fa nominare consulente del ministero per la Semplificazione di Roberto Calderoli, ma cura anche i rapporti con esponenti del Pdl (Malitalia.it).

Il nome di Mafrici entra più volte nella relazione del Viminale, spesso in relazione con tale Pasquale Guaglianone. Guaglianone è un commercialista ed è titolare dello studio Mgimi. E’ sempre stato legato ad ambienti di estrema destra (“nel 1992 è stato condannato per associazione sovversiva e banda armata per il suo ruolo nei Nar”, Il Fatto Quotidiano, 13 Aprile 2012). Dopo la condanna, si è reinserito in società aprendo bar e palestre, ma è indicato come un uomo molto vicino all’ex ministro della Difesa, Ignazio La Russa. Si è anche candidato con Alleanza Nazionale per le elezioni comunali di Milano del 2005.

Ritrovare il nome di Mafrici nell’inchieste su Belsito e ora nella relazione del Viminale fa un po’ specie. E solleva un sospetto: che il gruppo di potere che è passato sotto il nome di centro-destra sia stato in realtà un canale relazionale che ha permesso alla criminalità organizzata calabrese (ma non solo) di insediarsi stabilmente nelle regioni del Nord. E’ solo un sospetto che però le parole di Umberto Bossi di oggi tendono a tramutare in indizio. La sua difesa della poltrona di Formigoni, ora che è emerso il sistema di compravendita di voti all’ndrangheta, fa a pugni con lo spirito giustizialista che ha (o avrebbe) sempre animato la Lega Nord.

Dalla lettera di Lavitola: piccolo bignami della corruzione

Fu Lavitola a convincere Berlusconi a comprare i senatori necessari a far cadere il governo Prodi del 2006-2008. Lo scrive lo stesso Lavitola in una lettera mai recapitata, scritta da Rio de Janeiro lo scorso dicembre 2012, nel pieno della latitanza che l’ex editore de L’Avanti! condusse in seguito al mandato di arresto dei magistrati napoletani che investigano sulla P4 Bisignani-Papa-La Monica. Nella lettera Lavitola è reo confesso di una lunga lista di attività di corruzione e di dossieraggio messe in opera la fine di servire Silvio Berlusconi.

Provo in quest post a farne un elenco e una prima provvisoria contestualizzazione storica:

  1. l’acquisto di De Gregorio: il senatore IDV fu al centro di un clamoroso ribaltone che nel 2008 significò la fine dell’Unione di Prodi.
    • C’e’ un balletto di banconote al seguito della fortuna di DE GREGORIO: 500 mila euro da Berlusconi «all’atto della firma dell’atto federativo che stabiliva anche il sostegno al partito», nato dal movimento «Italiani nel mondo», un contenitore politico editoriale (giornali e un canale tv) capace di ottenere finanziamenti. E’ lo stesso senatore ad ammetterlo, quando parla delle presunte ritorsioni prodiane per il suo tradimento: «Hanno tolto due milioni di contributo pubblico alla tv Italiani nel mondo, con un emendamento della Finanziaria». Prima di quest’ultimo «scivolone calabrese», il senatore aveva fatto capolino da un’inchiesta su una «fabbrica di dossier» gestita da uno 007 privato (La Stampa.it);
  2. la desistenza del senatore Pallaro: era uno degli eletti nelle circoscrizioni estero della XV Legislatura. Fu al centro di un giallo poiché già nell’aprile del 2006 il suo voto favorevole al governo Prodi era dato in forse proprio da esponenti di Forza Italia e di An.
    • Poco dopo la conclusione della sua vittoriosa campagna elettorale, Pallaro, che si è definito democristiano, affermò che «avrebbe dato il voto di fiducia alla coalizione vincente» (in questo caso L’Unione) in quanto «non possiamo permetterci il lusso di andare all’opposizione» e tale presa di posizione risultò particolarmente rilevante, data la risicata maggioranza dei partiti delcentrosinistra nella seconda Camera (158 senatori a 156). Ciononostante, lo stesso Pallaro fu oggetto di un vero e proprio giallo quando il 19 aprile l’allora Ministro degli italiani all’estero Mirko Tremaglia comunicò alla stampa che «un senatore eletto all’estero che era stato segnalato per Prodi non vota più Prodi»: secondo Forza Italia il parlamentare ad aver cambiato idea sarebbe stato proprio Pallaro. Pallaro smentì tali dichiarazioni ed annunciò il suo voto positivo sia a Franco Marini (candidato dell’Unione alla presidenza di Palazzo Madama) sia al governo Prodi II. Da allora, pur mantenendo la sua posizione di autonomia ed indipendenza dai due Poli, Pallaro ha attivamente collaborato con l’esecutivo guidato da Romano Prodi, sostenendolo in parlamento ed ottenendo alcuni riconoscimenti per gli Italiani residenti all’estero, come il ripristino dei fondi a disposizione della rete consolare, contenuto nella Legge Finanziaria 2007. Contraddicendo quanto sostenuto nella campagna elettorale, tuttavia, contribuì alla caduta del Governo Prodi. Infatti il 24 gennaio non partecipò al voto al Senato, rimanendo a Buenos Aires (Wikipedia alla voce Luigi Pallaro);
  3. come hanno convinto Dini: Lavitola si è avvalso della collaborazione di Giuseppe Ferruccio Saro e di Romano Comincioli (defunto nel 2011). Ha promesso posti nel nuovo governo. Che non arrivano:
    • Poco prima del Tg delle 20 LAMBERTO DINI ha scoperto che era sfumato anche l’ultimo impegno del Cavaliere. Una lunga catena di promesse (o di illusioni) che sulla base degli affidamenti di Berlusconi aveva consentito a DINI (era febbraio) di sperare nella presidenza del Senato, a fine aprile in un ministero di peso (l’Economia, piu’ realisticamente la Difesa) e poi, in un progressivo appassimento di ambizioni, l’impegno di palazzo Chigi si era ridotto a due sottosegretariati. Ieri sera DINI ha scoperto di non avere nulla in mano, mentre piccoli premi erano andati a personaggi (come il capofila dell’ «altra Dc» Giuseppe Pizza), che nel bene o nel male hanno avuto una presenza meno incisiva nella storia del Paese. Tutto era iniziato con la caduta del governo Prodi, un «delitto» consumato il 25 gennaio e nel quale DINI non aveva sparato il primo colpo, prerogativa di Clemente Mastella, ma si era riservato il colpo di grazia (La Stampa.it);
  4. la pistola fumante, alias Clemente Mastella, che sarebbe stato convinto a far fallire il governo Prodi dandogli l’aiutino attraverso pressioni alla procura che aveva messo ai domiciliari la moglie:
    • Alle 21,30 il primo, vero contatto con casa Berlusconi, alle 22 la telefonata di MASTELLA a Mauro Fabris, il suo braccio destro: «Domattina ti aspettano a Milano i vertici di Forza Italia, si puo’ chiudere un accordo con 20 deputati e 10 senatori». L’indomani mattina – ironia dei destini incrociati – e’ Prodi a cercare MASTELLA, ma CLEMENTE non si fa trovare. E’ ansioso, da Milano aspetta la telefonata ”libera-tutti” di Fabris, che infatti arriva all’ora di pranzo: «Tutto a posto, c’e’ il timbro di Berlusconi!». Alle sei della sera MASTELLA puo’ annunciare ai giornalisti: «Lasciamo la maggioranza, l’esperienza del centrosinistra e’ finita». E’ il 21 gennaio, il ribaltone e’ compiuto (La Stampa.it);
  5. il dossieraggio contro Fini e la cosiddetta “casa di Montecarlo: il caso Tulliani ha praticamente tenuto testa per la seconda parte del 2010. Il piano era chiaro e doveva servire a giustificare la cacciata di Gianfranco Fini dal Popolo della Libertà. Un “intrigo internazionale” che rimanda direttamente ai paesi del Sudamerica, a Panama, a Saint Lucia, dove basta una mazzetta di denaro per fabbricare i documenti necessari a incastrare il presidente della Camera:
    • tutto sul caso Fini-Tulliani sulle pagine di Yes, political!: https://yespolitical.com/?s=tulliani – nella lettera Lavitola ricorda a B. di aver avuto 400/500 mila euro, quando invece ne spese almeno 100 mila in più; e non sarebbe stato ricambiato a sufficienza il benefit di Martinelli, che è il presidente di Panama.
      • Il 16 aprile 2012 l’ex direttore de L’Avanti Valter Lavitola, amico del Presidente Martinelli, viene raggiunto da un avviso di garanzia da parte della procura di Napoli in merito a un’ipotesi di corruzione internazionale per presunte tangenti a politici panamensi per la realizzazione di carceri e l’acquisizione di appalti.Per ottenere illecitamente alcune commesse milionarie, Lavitola avrebbe ricompensato con “utilità e somme di denaro in contante” anche il presidente di Panama di origine italiane Martinelli, destinatario anche di una valigetta con del denaro, il ministro della giustizia Roxana Mendez ed altri esponenti di Governo destinatari anche di vacanze di lusso (Wikipedia alla voce Ricardo Martinelli).
  6. le nomine: Ioannucci a Poste Italiane.
    • UCCI UCCI SPUNTA FUORI LA IOANNUCCI – LA CLAUDIA IOANNUCCI DI CUI PARLANO A TELEFONO LAVITOLA E NICLA TARANTINI, DEFINITA “GIORNALISTA DI REPUBBLICA” DAGLI INVESTIGATORI, POTREBBE ESSERE IN REALTA’ LA NEOCONSIGLIERA DI AMMINISTRAZIONE DI POSTE ITALIANE, AMICA DI VALTERINO – E POSTE ITALIANE E POSTE PANAMA HANNO SOTTOSCRITTO UN IMPORTANTE ACCORDO DI COLLABORAZIONE LO SCORSO 21 AGOSTO, ALLA PRESENZA PROPRIO DELLA IOANNUCCI – UNA COINCIDENZA? AH SAPERLO (Dagospia – profetico).
  7. il ruolo del maresciallo La Monica, carabiniere del Ros, avrebbe operato per salvaguardare Bertolaso, per insabbiare l’indagine sulla compravendita dei senatori, avrebbe “dato una mano” sul caso Saccà e su Nicola Cosentino, nonché ad occultare alcune foto che ritraevano Berlusconi e Bassolino insieme a camorristi.

Trattativa / Berlusconi: io dalla parte di Napolitano.

Excusatio non petita, accusatio manifesta, si direbbe. Perché Berlusconi si è sentito in dovere di spiegare ai lettori de Il Foglio, in edicola domani, che lui è dalla parte del Quirinale, che sono stati messi in atto brutali tentativi di condizionare il presidente Napolitano dai quali è assolutamente estraneo.

In questi mesi tormentati il Quirinale è stato oggetto di attenzioni speciali e tentativi di condizionamento impropri ai quali sono completamente estraneo, dei quali sono un avversario deciso» «La frittata non è rovesciabile» – Berlusconi al Foglio di Ferrara secondo il Corsera.

E’ estraneo quindi ai tentativi di condizionamento effettuati da chi? A chi si riferisce? A Ingroia? Berlusconi vuol cavalcare il falso scoop di Panorama. Il quale, più che un tentativo di condizionamento, è sembrato un tentativo di vendere qualche copia in più in quanto delle intercettazioni, nelle paginette patinate del settimanale di casa Mondadori, non vi era nessuna traccia nonostante le anticipazioni del giorno prima dicessero l’esatto contrario, fatto che aveva indotto a pensare a un nuovo colpo del Caimano, come quella volta del caso Unipol e dell’esclamazione di Fassino – abbiamo una banca! – finita registrata su un nastro e consegnatagli nottetempo, come una testa mozzata in un cesto.

In realtà Berlusconi non ha alcun timore di metter becco in questa vicenda, anzi, il progetto era proprio questo. L’articolo bluff di Fasanella è un cavallo di Troia tramite il quale Berlusconi incanala il dibattito sulla “brutalità” delle intercettazioni avendo egli il fine unico di smantellare la legislazione in materia. Era tutto pianificato: il falso scoop e Silvio che si dissocia dalle colonne di un altro giornale apparendo come “amico” del Napolitano intercettato e contro i giudici bruti e violentatori. Un vecchio refrain.

Cosa non è funzionato di questa strategia? Diciamolo chiaramente: Berlusconi è un vecchio arnese. E’ lontano dalla scena politica da almeno settanta giorni e il suo partito è in uno stato comatoso. In secondo luogo, la minaccia della rivelazione del colloquio Mancino-Napolitano è come un grosso nuvolone nero, come una piaga, una maledizione, una miseria. Sapere quel che si son detti è di chiaro interesse storico-politico (fors’anche giudiziario). Ma ai fini della salvezza dello Stato e dei conti pubblici, è certamente deleterio. Mettere Napolitano sull’orlo delle dimissioni in un momento in cui già si deve decidere quando andare a nuove elezioni, se a fine legislatura o in anticipo di qualche mese, senza un leader politico degno di questo nome, senza una coalizione di governo presentabile anche all’estero, senza una legge elettorale che garantisca governabilità e rappresentanza e libertà di scelta, è un colpo mortale per questo paese.

In generale l’operazione ‘ricatto’ è stata un fiasco. Il paese non è pronto a sapere la verità sulla trattativa, sul rischio della secessione dello Stato Bordello, della guerra tutta interna al Sisde e quindi al Viminale, e in un certo qual senso sta rigettando questa politica che si guarda alle spalle, su quel passato torbido ancor tutto da decifrare. Vedere che Berlusconi si è riportato con un guizzo sulla scena solo e soltanto per questioni legate alla giustizia e all’uso delle intercettazioni da parte della stampa, mentre è rimasto ben nascosto quando si è trattato di parlare ai minatori del Sulcis o ai lavoratori dell’Alcoa, o ai terremotati dell’Emilia, è un ennesimo indizio della sua proverbiale inaffidabilità (unfit to lead) nel governo del paese.

Ci avviamo verso l’autunno con un tasso di disoccupazione giovanile di circa il 36% con un trend di crescita che in sette mesi potrebbe portarlo sopra i 40 punti percentuali. Una ipotesi drammatica. Non siamo più nel 1992.

Acqua pubblica, la Consulta cancella la norma fotocopia di Tremonti

Il Giudice delle Leggi ha stabilito che l’articolo 4 del decreto legge 138/2011, che regolava la materia della liberalizzazione dei servizi pubblici locali in seguito ai referendum di Giugno 2011, è incostituzionale. Le ragioni? Semplice, il legislatore non ha fatto alcuno sforzo per presentare una norma differente da quella abrogata dalla volontà popolare espressa con il voto. Non solo, la Corte afferma che il disposto dell’articolo 4 era addirittura eccedente le disposizioni comunitarie in materia:

A distanza di meno di un mese dalla pubblicazione del decreto dichiarativo dell’avvenuta abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il Governo è intervenuto nuovamente sulla materia con l’impugnato art. 4, il quale, nonostante sia intitolato «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dall’Unione europea», detta una nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che non solo è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria, ma è anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni dell’abrogato art. 23-bis e di molte disposizioni del regolamento attuativo del medesimo art. 23-bis contenuto nel d.P.R. n. 168 del 2010 (Corte Costituzionale, sentenza n. 199/2012).

Anzi, la normativa è ritenuta ancor più restrittiva dell’ex articolo 23-bis del D.L. 112/2008 “in quanto non solo limita, in via generale, «l’attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità» ma anche la vincola “al rispetto di una soglia commisurata al valore dei servizi stessi, il superamento della quale (900.000 euro, nel testo originariamente adottato; ora 200.000 euro, nel testo vigente del comma 13) determina automaticamente l’esclusione della possibilità di affidamenti diretti”, e questo “effetto si verifica a prescindere da qualsivoglia valutazione dell’ente locale, oltre che della Regione, ed anche – in linea con l’abrogato art. 23-bis – in difformità rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria, che consente, anche se non impone (sentenza n. 325 del 2010), la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, allorquando l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico (art. 106 TFUE)”.

Così scrive la Corte: “la disposizione impugnata viola, quindi, il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost., secondo quanto già riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale”, essendo l’articolo 4 una riproposizione fedele della ratio della norma abrogata. Anzi, le successive modifiche del governo Monti, non hanno alterato questa fedeltà all’impianto dell’ex art. 23-bis ma hanno operato nel senso di abbassare la soglia entro cui l’affidamento ai privati era automatico, mentre veniva rafforzata la posizione dell’Autority per la concorrenza la quale poteva esprimersi contro l’affidamento in house anche senza istruttoria da parte dell’ente locale (vedi Dl Sviluppo).

Leggi il dispositivo della Sentenza n. 199/2012

Vincenzo Scotti, l’informativa che annunciava le Stragi di Mafia

Vincenzo Scotti, ex ministro dell’Interno nel 1992, defenestrato da Andreotti nel giro di una notte – si ritrovò senza saperlo, in seguito a un rimpasto di governo “lampo”, ministro degli Esteri – intervistato oggi dal Corriere della Sera, ritorna sulla questione dell’informativa che annunciava le Stragi di Mafia, quel memoriale messo in mano ad un noto depistatore, Elio Ciolini, di cui spesso si è parlato nel corso di questi anni ma che l’indagine giornalistica ha, per così dire, dimenticato.

Su Yes, political! se ne è parlato in questi post:

La destabilizzazione, il progetto politico all’origine della trattativa.

Join the dots. Unisci i puntini. La leggenda del capitano Ultimo, la fiction come antistoria.

Nel 1992-93 l’Italia ha rischiato la secessione dello Stato Bordello

Nel 1992, prima delle stragi e prima delle elezioni, venne pure dato l’annuncio: si preparava una stagione col botto, una stagione in cui le istituzioni sarebbero state messe duramente alla prova in un tentativo di rivoltarle. L’allora ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti, diffuse l’allarme alle prefetture e alle questure. Le voci di una imminente destabilizzazione furono messe in giro da tale Elio Ciolini, depistatore professionista. Ciolini compare nell’inchiesta di Antonino Ingroia, “Sistemi Criminali”, poi archiviata, nella quale si fa riferimento a un piano eversivo “finalizzato alla divisione dello Stato condotto dai vertici di Cosa Nostra con la complicità di un Sistema Criminale, composto da massoneria deviata – P2 – da elementi dell’eversione nera e da spezzoni deviati dei servizi segreti”.

La figura di Vincenzo Scotti è centrale in questa vicenda. Scotti è una vittima. E’ un uomo di Stato che cercava di far bene il proprio mestiere. Doveva essere messo da parte, “per il bene supremo dello Stato”. Un concetto di bene che ancor oggi il Quirinale non vuole specificare, che racchiude in sé un segreto che nessuno può riferire, che qualcuno si è portato nella tomba (Scalfaro), che ha ereditato più o meno inconsapevolmente (Ciampi), che infesta ancora gli incubi più reconditi (Mancino e altri).

L’inaccettabile minaccia di Cicchitto sul DL Anticorruzione

Così inizia il discorso alla Camera di Fabrizio Cicchitto, ieri, durante la discussione preliminare al voto (poi favorevole) sul DL Anticorruzione:

Signor Presidente, onorevoli colleghi, voglio innanzitutto sgombrare il campo da un dato. Noi, nel corso di tutti questi anni, siamo stati in prima fila nella lotta contro la corruzione e contro la mafia […] Nella lotta alla mafia il Governo Berlusconi dal 1994 ha condotto una battaglia, sia per quello che riguarda l’articolo 41-bis, la sua estensione, senza nessun compromesso, ragion per cui noi consigliamo al dottor Ingroia, che la mattina fa il magistrato, il pomeriggio il politico e adesso si sta avviando a fare anche il romanziere, di frequentare la scuola di scrittura creativa di Alessandro Baricco, a Torino, così potrà anche arricchire il suo bagaglio culturale.

Cicchitto tenta quindi di fare una ricostruzione storica e insieme antropologica della corruzione in Italia, dalla vicenda di Tangentopoli alla situazione attuale, fatta di capobastone, di corruzione diffusa e parcellizzata, “trasversale”, dice lui. Lui e il suo gruppo politico avrebbero voluto parlare di tutto ciò, avrebbero voluto parlare di quella parte politica e imprenditoriale che è stata salvata da Tangentopoli. Dell’uso politico della giustizia. Del traffico di influenza. Avrebbero voluto parlarne, per ore ed ore, fino alla fine della Legislatura. Ma:

le diciamo francamente, onorevole Ministro (si riferisce al Ministro Severino), che noi avremmo voluto liberamente dibattere e discutere su questi due punti senza che lei fosse venuta qui in Parlamento a metterci le manette ed impedirci di fare un confronto libero, quale sarebbe dovuto essere e quale un Governo tecnico, privo di una sua maggioranza nel Paese, avrebbe dovuto consentirci. Allora, onorevole Ministro, le dico due cose: in primo luogo che noi faremo di tutto in Senato per cambiare in questi punti questo disegno di legge; in secondo luogo, che occorre sempre un bilanciamento di poteri, ce lo insegnano i padri costituenti; ed essi avevano creato un bilanciamento di poteri nell’articolo 68: nel momento in cui si dava alla magistratura un potere ed un’autonomia inusitata si doveva dare anche al potere politico una garanzia istituzionale […] al Senato noi sosterremo la responsabilità civile dei giudici e le diamo un elemento di riflessione: non ci venga a proporre emendamenti con l’esercizio da parte del Governo della fiducia, non venga ad esercitare questo perché noi, in questo caso, non voteremo la fiducia su questo punto, perché non vorremmo essere ulteriormente strangolati. Come si suol dire e come dice il proverbio, uomo o donna avvisati, sono mezzo salvati…

Ecco, niente fiducia se il governo mette il becco sull’Anticorruzione come ha fatto nell’iter di approvazione alla Camera. “Non vorremmo essere ulteriormente strangolati”!, dice Cicchitto. Ci avete “messo le manette”. Ergo, il DL Anticorruzione verrà parcheggiato al Senato, laddove è stato partorito dalle fervidi menti del precedente governo. Il governo Monti è avvisato, se impedirà ai senatori del PdL di stravolgere il disegno di legge verrà sacrificato e addio risanamento dei conti pubblici. La corruzione non può essere regolata da mani estranee. La corruzione è roba per gente del mestiere, non so se mi spiego.

Incandidabilità condannati, quanto è tenue il DL Anticorruzione

Tanto rumore per nulla. L’incandidabilità di cui all’art. 10 del Disegno di legge anti-corruzione è una chimera. Innanzitutto perché contiene una delega al Governo per emanare un decreto legge che regoli e armonizzi la materia, un decreto da fare entro un anno. In secondo luogo perché riguarda soltanto quei soggetti per i quali è già stata emessa una sentenza definitiva. Che dire, ci saranno anche stati casi di deputati o senatori candidati quando già condannati, ma il male del nostro sistema riguarda quelle “care” persone che, pur avendo procedimenti penali a carico, si candidano alle elezioni e si fanno eleggere (scusate, nominare – grazie al Porcellum) per usufruire delle immunità istituzionali. L’articolo 10 del DL Anticorruzione non affronta questo problema neanche in lontananza.

Quindi, perché ci affanniamo a dichiarare che l’incandidabilità dei condannati sarà operativa fin dal 2013 (vero, ministro Patroni-Griffi)? Non si tratta forse di un problema marginale rispetto invece a tutti quei deputati e senatori sottoposti a indagine e per i quali sono stati emessi mandati di cattura che invece sono difesi dal Parlamento? Non sarebbe il caso anche di riesaminare e meglio specificare tutta la dottrina in materia di fumus persecutionis?

Ecco il contenuto della norma sulla Incandidabilità:

Art. 10.

(Delega al Governo per l’adozione di un testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di governo conseguente a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi).1. Il Governo è delegato ad adottare, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, entro un anno dalla data di entrata in vigore della presente legge, un decreto legislativo recante un testo unico della normativa in materia di incandidabilità alla carica di membro del Parlamento europeo, di deputato e di senatore della Repubblica, di incandidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali e di divieto di ricoprire le cariche di presidente e di componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, di presidente e di componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, di consigliere di amministrazione e di presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all’articolo 114 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, e successive modificazioni, di presidente e di componente degli organi esecutivi delle comunità montane.

2. Il decreto legislativo di cui al comma 1 provvede al riordino e all’armonizzazione della vigente normativa ed è adottato secondo i seguenti princìpi e criteri direttivi:

a) ferme restando le disposizioni del codice penale in materia di interdizione perpetua dai pubblici uffici, prevedere che non siano temporaneamente candidabili a deputati o a senatori coloro che abbiano riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale;

b) in aggiunta a quanto previsto nella lettera a), prevedere che non siano temporaneamente candidabili a deputati o a senatori coloro che abbiano riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti previsti nel libro II, titolo II, capo I, del codice penale ovvero per altri delitti per i quali la legge preveda una pena detentiva superiore nel massimo a tre anni;

c) prevedere la durata dell’incandidabilità di cui alle lettere a) e b);

d) prevedere che l’incandidabilità operi anche in caso di applicazione della pena su richiesta, ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale;

e) coordinare le disposizioni relative all’incandidabilità con le vigenti norme in materia di interdizione dai pubblici uffici e di riabilitazione, nonché con le restrizioni all’esercizio del diritto di elettorato attivo;

f) prevedere che le condizioni di incandidabilità alla carica di deputato e di senatore siano applicate altresì all’assunzione delle cariche di governo;

g) operare una completa ricognizione della normativa vigente in materia di incandidabilità alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali e di divieto di ricoprire le cariche di presidente della provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale, presidente e componente del consiglio circoscrizionale, presidente e componente del consiglio di amministrazione dei consorzi, presidente e componente dei consigli e delle giunte delle unioni di comuni, consigliere di amministrazione e presidente delle aziende speciali e delle istituzioni di cui all’articolo 114 del testo unico di cui al citato decreto legislativo n. 267 del 2000, presidente e componente degli organi delle comunità montane, determinata da sentenze definitive di condanna;

h) valutare per le cariche di cui alla lettera g), in coerenza con le scelte operate in attuazione delle lettere a) e i), l’introduzione di ulteriori ipotesi di incandidabilità determinate da sentenze definitive di condanna per delitti di grave allarme sociale;

i) individuare, fatta salva la competenza legislativa regionale sul sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del presidente e degli altri componenti della giunta regionale nonché dei consiglieri regionali, le ipotesi di incandidabilità alle elezioni regionali e di divieto di ricoprire cariche negli organi politici di vertice delle regioni, conseguenti a sentenze definitive di condanna;

l) prevedere l’abrogazione espressa della normativa incompatibile con le disposizioni del decreto legislativo di cui al comma 1;

m) disciplinare le ipotesi di sospensione e decadenza di diritto dalle cariche di cui al comma 1 in caso di sentenza definitiva di condanna per delitti non colposi successiva alla candidatura o all’affidamento della carica.

3. Lo schema del decreto legislativo di cui al comma 1, corredato di relazione tecnica, ai sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 31 dicembre 2009, n. 196, è trasmesso alle Camere ai fini dell’espressione dei pareri da parte delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per i profili finanziari, che sono resi entro sessanta giorni dalla data di trasmissione dello schema di decreto. Decorso il termine di cui al periodo precedente senza che le Commissioni abbiano espresso i pareri di rispettiva competenza, il decreto legislativo può essere comunque adottato.

 

La Lega Nord che salvò De Gregorio

Nonostante tutto, nonostante Belsito, Rosy Mauro, la faida interna con i maroniani, nonostante i soldi del finanziamento pubblico impiegati come “cazzo” vogliono, i senatori leghisti rimangono fedeli alla linea del Pdl e, anche affermando il contrario, salvano il senatore De Gregorio dall’arresto. Leggere le dichiarazioni di voto del leghista Mura, tutt’altro che forcaiole:

Signor Presidente, gentili colleghi senatori, credo sia superfluo ricordare – è stato detto più volte – come oggi in quest’Aula il nostro compito non sia quello di valutare la fondatezza delle accuse rivolte al senatore De Gregorio. Il nostro esame deve concentrarsi su altro. Prima di tutto, con il nostro voto dovrà essere stabilito se esiste il fumus persecutionis, se esista quindi un intento persecutorio da parte della procura di Napoli che, come sostiene il senatore De Gregorio, avrebbe un quadro esclusivamente indiziario, molto debole e per fatti che riguardano sue presunte azioni risalenti al 2006 [una frase capolavoro, oscar del garantismo 2012]. Al riguardo credo sia importante per tutti sottolineare il dato temporale, che deve sicuramente far riflettere. È vero che si tratta di indagini complesse e che le procure hanno bisogno di tempo per il loro lavoro investigativo, quindi può sembrare sicuramente censurabile, ma bisogna tener presente che anche questo lasso temporale tra l’esaurimento dei fatti e la richiesta di arresti domiciliari in sei anni potrebbe anche essere giustificato da un lavoro che i magistrati hanno svolto in questi anni per gradi.

Ritengo però che un aspetto importante da evidenziare oggi sia quello delle fattispecie di reato. Quelli contestati al senatore De Gregorio esulano da quella che era fino a un recente passato una prassi che si è venuta a modificare col tempo. È stato ricordato anche dal collega Balboni come normalmente si sia sempre acconsentito all’arresto per reati di sangue o comunque per reati gravissimi come l’omicidio o le stragi. Questa è sempre stata la prassi parlamentare, sia alla Camera che al Senato, ma i recenti casi hanno modificato un po’ questa prassi per cui l’interpretazione che si dà a questo limite alle richieste di arresto è cambiata. Di conseguenza, la domanda è: si ritiene che i reati contestati al senatore De Gregorio potrebbero essere considerati reati di grave allarme sociale?

Sono stati recitati durante la sua relazione dal relatore, senatore Sanna: l’associazione per delinquere e il concorso in truffa e in truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, il concorso in bancarotta fraudolenta, il concorso in emissione di fatture e altri documenti per operazioni inesistenti [ergo, non è omicidio, quindi non è reato grave; anche alcuni leghisti si sono macchiati di un reato simile, perciò è meglio esser cauti...].

Questi sono reati nei confronti dei quali è vero che l’evoluzione e la sensibilità dell’opinione pubblica sono montate in questi ultimi tempi per cui sono convinto debbano essere riviste anche con il nostro concorso quelle prassi parlamentare a cui ho accennato prima, andando ad estenderle a questo tipo di reati che generano un atteggiamento da parte dell’opinione pubblica che credo richieda da parte nostra un comportamento di estremo rigore.

Per concludere questo mio breve intervento, ritengo sia assolutamente importante creare quelle le condizioni per cui la procura di Napoli possa completare le sue indagini ascoltando il senatore De Gregorio e consentendogli di esercitare il suo diritto di difesa. Qui non accusiamo nessuno e tanto meno questo vuol essere un processo anticipato, bensì l’autorizzazione all’esecuzione dell’ordinanza applicativa della misura cautelare, nella convinzione, peraltro, che il diritto di difesa del senatore De Gregorio sia sacrosanto e inalterato e che vi siano tutte le condizioni per lui di dimostrare – come tutti noi auspichiamo – che il prosieguo delle indagini vedano chiarita la sua estraneità ai fatti che gli vengono contestati.

Come Gruppo Lega Nord confermiamo pertanto il nostro voto favorevole alla proposta della Giunta di concedere l’autorizzazione all’esecuzione dell’ordinanza applicativa della misura cautelare degli arresti domiciliari e ad eseguire le perquisizioni dei locali utilizzati dal senatore De Gregorio (Senato, resoconto stenografico in corso di seduta, seduta n. 738 del 06/06/2012).

Un discorso che è ambivalente. Dichiarano di votare sì all’arresto, ma esprimono una posizione di estremo garantismo nei confronti di De Gregorio, quando invece le carte dell’inchiesta sono piuttosto chiare ed eloquenti. Non accusiamo nessuno, concordiamo sul fatto che si tratta di reati di bassa pericolosità sociale, è un quadro assolutamente indiziario (lo dice De Gregorio, quindi è così). Sembra evidente che i voti che hanno salvato il senatore arrivino proprio dai banchi della Lega Nord, dai compagni di merende del finanziamento pubblico dei partiti.

 

De Gregorio, Li Gotti e quell’intervista a Buscetta

De Gregorio è stato oggi salvato dai colleghi senatori dall’arresto per le accuse rivoltegli dai pm napoletani nell’ambito dell’affaire Lavitola-L’Avanti. Questo è accaduto nonostante il voto favorevole, all’unanimità, della Giunta per le Autorizzazioni. In Aula il senatore Saro ha chiesto lo scrutinio segreto, scelta difesa da Quagliarello (Pdl) e da tutto il suo gruppo. Nel segreto dell’urna, De Gregorio è stato riconosciuto vittima di fumus persecutionis, smentendo completamente la Giunta e l’evidenza delle carte.

De Gregorio ha preso – in maniera un po’ irrituale – la parola durante il dibattito e, per lunghi tratti, si è rivolto direttamente al senatore Li Gotti, suo ex collega di partito.

Che cosa avrei dovuto fare, senatore Li Gotti? Per ben due volte sono andato spontaneamente, senza sapere di che cosa fossi accusato, alla procura di Napoli; ho varcato personalmente la soglia della Guardia di finanza decine di volte e ho rinunciato alle prerogative parlamentari quando sono venuti a Roma i militari; li ho fatti entrare in casa mia, mettendo per iscritto la mia rinuncia; ho mandato il mio legale, l’avvocato Carlo Fabbozzo, in procura, la stessa mattina in cui venivano sequestrati quei container, con le chiavi di quei container, e mi viene detto che le garanzie costituzionali in quel caso non sono rinunciabili, e nell’istruttoria si parla di questi container come contenenti chissà cosa. Invece io voglio aprirli, perché dentro ci sono scrivanie, computer, giornali: tutto quello che è servito per fare un’attività che mi si contesta essere falsa, e non lo è, perché io non posso svendere la mia storia professionale. “L’Avanti” l’ho riportato in edicola; l’ho fatto, e nel 2006 l’ho abbandonato, come il GIP riconosce in quella ordinanza, dicendomi che la mia responsabilità non va oltre il 2006. In quegli anni, ho costituito una scuola di giornalismo che, per grazia di Dio, chi vi ha partecipato e l’ordine dei giornalisti mi riconoscono come una grande esperienza editoriale. Ebbene, rispetto a quella esperienza di giornalismo e di fatica fisica, dovrei riconoscere che si tratta di una storia criminale? (Senato, resoconto stenografico in corso di seduta, seduta n. 738 del 06/06/201).

Perché prendersela con il senatore Li Gotti? Perché questo duello fra i dure? Semplice, c’è un precedente. Bisogna risalire agli anni ’90. Li Gotti all’epoca era l’avvocato di Tommaso Buscetta, il super pentito di mafia. L’uomo dei segreti della Cupola che permise al giudice Falcone di ricostruire la mappa del potere mafioso.

De Gregorio nasce come giornalista e si evolve come editore televisivo di una tv strana, chiamata Italiani nel Mondo, poi diventa politico e crea un assurdo partitino che si chiama come la televisione che ha fondato. E arriva in Parlamento senza che nessuno – dico: nessuno! – sappia spiegare come.

Ebbene, il signore, prima di mettersi in affari con il Lavitola, prima di far cadere il governo Prodi, a quanto pare pagato profumatamente per questo, faceva il giornalista e fu protagonista di un mezzo scandalo: l’intervista a Tommaso Buscetta, scovato in crociera nel 1995. De Gregorio salì sulla medesima nave. Conosceva gli spostamenti di Buscetta. Sapeva che era in crociera e forse si prestò per una manovra finalizzata a far perdere la protezione sia a Buscetta che alla famiglia. “Un favore alla mafia”, disse Tommasino. Pensate le coincidenze: il difensore di Buscetta era appunto Luigi Li Gotti, oggi collega senatore di De Gregorio. De Gregorio è stato direttore de L’Avanti, nominato da Craxi, poi in Forza Italia, poi indipendente nel suo Movimento Italiani nel Mondo; quindi diventa a sorpresa (o forse no) direttore editoriale nell’Italia dei Valori. Un mistero che ancor oggi Di Pietro fa fatica a spiegare.

In ogni caso, nel lontano 1995, Li Gotti e De Gregorio stavano su sponde opposte. De Gregorio scriveva per Oggi e lavorava per TG2 Dossier. De Gregorio raggiunse sulla nave il Buscetta ma non si qualificò subito come un giornalista. Lo imbeccava con frasi del tipo: “Certo che dietro una grande fortuna c’è un grande crimine”. Voleva metter in bocca a Buscetta frasi che lui non aveva pronunciato. Ovvero che il giudice Caselli stava interrogando alcuni pentiti “sul conto di Berlusconi”. A causa di quel tiro, la vita di Buscetta e della famiglia fu messa in pericolo. Una nave della Marina militare lo prelevò e lo portò in una località segreta. All’epoca, Buscetta era “l’accusatore di Andreotti”.

Lo scopo di quella manovra era quindi suggerire ai lettori di Oggi che Caselli stava indagando Berlusconi. Uno schizzo di fango diretto a Caselli, un modo per far naufragare le indagini fin dalla partenza. Le indagini sullo stalliere di Arcore. Oppure no. De Gregorio non ha mai spiegato come fece a rintracciare Buscetta. Non ha mai rivelato la sua fonte. Anni dopo, voterà la sfiducia al governo Prodi II, determinando le condizioni per nuove elezioni nel 2008 e la vittoria di Berlusconi. Indiscrezioni giornalistiche narrano di un voto di sfiducia pagato molto caro da Berlusconi. Ma anche in questo caso la verità farà molta fatica ad emergere.

Mazzamuto Sottosegretario ma non troppo

Salvatore Mazzamuto è diventato sottosegretario alla Giustizia il 28 Novembre 2011. E’ laureato in Giurisprudenza ed è Professore Universitario. Ha insegnato Istituzioni di Diritto Privato all’Università di Palermo. Diviene preside della Facoltà di Giurisprudenza della stessa università. E’ stato Avvocato cassazionista. Dal 1998 al 2002 è stato membro del Consiglio Superiore della Magistratura. È ordinario di Diritto civile all’Università degli Studi Roma Tre. Ė stato, inoltre, docente di “Ordinamento Giudiziario” – cattedra di Diritto Processuale Civile – presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’ Università “Kore” di Enna. Nell’ultimo governo Berlusconi è stato consigliere giuridico del ministro della Giustizia Angelo Alfano. Il 28 novembre 2011 è stato proposto dal governo Monti come Sottosegretario alla Giustizia. Ha giurato il giorno successivo (Wikipedia, alla voce Mazzamuto).

Ieri, il governo ha espresso parere favorevole alla norma che cancella l’emendamento al DdL Corruzione di Italia dei Valori volto a ripristinare il meccanismo sanzionatorio di tipo penale per il reato di falso in bilancio. Il rappresentante del governo era proprio Mazzamuto, il quale sostituiva il collega Zoppini, dimessosi – che coincidenza! – proprio il giorno prima in quanto indagato in un’inchiesta della procura di Verbania. Mazzamuto dichiara poi al Corsera che lui di quell’emendamento non ci capiva nulla, che la scheda illustrativa del contro-emendamento non era chiara, erano “solo sette righe”.

Naturalmente quelli del PdL l’emendamento lo avevano capito benissimo e l’hanno votato. Ed è chiaro che Mazzamuto non ha capito un accidente e il suo ruolo come “consigliere giuridico” dell’ex ministro della Giustizia – guarda un po’! – Alfano non ha nulla a che vedere con quanto accaduto in aula. Ed è singolare che il sottosegretario Zoppini, uno dei più giovani sottosegretari del governo Monti e anche uno dei più ricchi, 46 anni,  si sia dimesso perché indagato per frode fiscale, nel 2010, e raggiunto da un avviso di garanzia della procura di Verbania  che neanche le bombe intelligenti di George W. Bush. “Secondo l’ipotesi dei magistrati piemontesi, attraverso la sua attività di consulenza, Zoppini avrebbe aiutato i titolari della Giacomini a realizzare una frode fiscale internazionale” (Il Sole 24 ore).

Sarà pur vero, ma intanto oggi, il redivivo Berlusconi ha così potuto tranquillamente andare a pranzo dal premier Monti.

Rosy Mauro e il Sindacato Padano che non era un sindacato

Proseguo a rovistare nell’Archivio de La Stampa nella convinzione che quanto stia accadendo oggi non sia casuale, non sia frutto di una malattia che ha colpito uno spregiudicato segretario di partito, bensì sia il prodotto di un’anomalia accettata come tale e lasciata crescere a dismisura sapendo che aveva le radici marce, completamente marce. Per anni molti di voi si sono fatti incantare dal bel teatrino del Bossi e dell’indipendentismo padano. Dietro il palco si faceva mercimonio delle vostre convinzioni al solo scopo di arricchimento personale. Null’altro.
La figura di Rosy Mauro è emblematica. Così come lo è quella del Sindacato Padano. La storia di Rosy Mauro nella Lega Nord è la storia del Sindacato Padano. La sua avventura comincia nel 1990. Rosy Mauro fonda insieme a Antonio Magri il Sindacato Autonomo Lombardo (SAL). Poi il SAL si trasforma in Confederazione, come tutta la Lega Nord, e diventa Sin.pa. E’ chiaro fin dall’inizio che il Sin.pa. è diretta emanazione della Lega Nord. E’ organo della Lega Nord. I suoi iscritti sono un mistero, ampiamente documentato su molti giornali (qui ne parla La Stampa).
Nel 1993 il SAL era chiaramente presieduto da Rosy Mauro. La Telecom si chiamava ancora Sip. La Sip di Milano escluse il SAL dalla possibilità di ricevere la trattenuta diretta in busta paga ai dipendenti che risultassero iscritti al sindacato leghista. Il pretore diede ragione alla Sip: il SAL «E’ un movimento politico, non può incassare le trattenute».
Secondo il pretore, il Sal, nel suo statuto, faceva "riferimento esplicito al «perseguimento degli interessi nazionali del popolo lombardo» e afferma di voler «realizzare l’autentica solidarietà e la giustizia sociale fra il popolo lombardo»" (La Stampa, Archivio Storico, 18/06/1993, p. 9).

Conclude così Cecconi, in risposta al ricorso del Sal contro la Sip. «Il vostro sindacato afferma – sembra perseguire legittime finalità politiche non qualificabili però come semplici attività a carattere sindacale. Per questo motivo non si può garantire al Sai nemmeno la tutela privilegiata prevista dalla Costituzione». Addirittura, conclude il decreto: «Le finalità evidenziate fanno mettere in dubbio anche il requisito della nazionalità del Sai». Insomma, non solo il Sai non è un sindacato, ma una forza politica camuffata. Ma il sindacato leghista, addirittura, si mette fuori dalla comunità italiana innalzando la bandiera dei lumbard (La Stampa, cit.).

Che razza di sindacato è il SAL, poi Sin.pa.? Non ha mai partecipato ad alcuna contrattazione né ha avuto grande visibilità, a parte una volta, a Cuneo nello stabilimento della Michelin di frazione Ronchi, quando nel 2000 conquistò il 40% dei voti alle elezioni della RSU. Non è mai intervenuto nel dibattito sui contratti collettivi. Nulla. E pretendeva la trattenuta diretta in busta paga.

Promotori con interessi troppo diversi, nessuna organizzazione di scioperi di stampo sindacale, nessun intervento nei contratti collettivi… Insomma, quello è il Carroccio sotto altre spoglie e nulla più. […] il Sai non fa attività sindacale ma politica allo stato puro (La Stampa, Archivio Storico, 18/06/1993, p. 9).

Per anni tutto ciò è stato tollerato. Un sindacato che non era un sindacato ha intascato le Vostre trattenute in busta paga. Era – ed è – un organo di partito costituito per distrarre i soldi del finanziamento pubblico, poi rimborso elettorale. Uno strumento come altri, fatto apposta per drenare denaro pubblico. E, quel che è più grave, sapevamo tutto. Tutto. Sin dall’inizio. Ma l’inerzia, la stupidità, la nostra stupidità, hanno permesso che questo raggiro durasse venti anni. Venti lunghissimi anni.

Quando Rosy Mauro trafficava in rifiuti: era il 1996, si poteva fermare ben prima

Rosy Mauro incastrata da un fax, La Stampa 1996

I critici di Roberto Maroni sostengono che ha dato sinora prova di scarsa, se non scarsissima, leadership. Eccolo infatti che attacca Rosy Mauro, che chiede “pulizia, pulizia, pulizia” alla maniera di una Toga Rossa, che fa la voce grossa e tende a spiegare il marciume leghista come limitato al temibile Cerchio Magico, quella specie di combriccola che raggira dei poveri malati anziani. In realtà nella Lega Nord tutti sapevano. Sapevano, e il massimo che sono riusciti ad organizzare come forma di protesta sono i timidi fischi di Pontida dello scorso autunno. Maroni si rifiutò poi di stringere la mano alla “Nera”, su quel palco, in Piazza Duomo. Il massimo della sua opposizione interna: togliere il saluto.

Sappiate però che i nostri Druidi del Rimborso Elettorale hanno un passato, un passato molto poco limpido. Un passato da arrampicatori sociali, da spregiudicati amministratori locali. Prendete Rosy Mauro, per esempio. Il Vicepresidente del Senato, prima di arrivare sin lì, ne ha fatta di gavetta. E non è vero che la Rosy vien fuori dalla mischia quando l’Umberto ha l’ictus. Rosy non è la badante di Bossi. E’ molto di più. E come una sorta di antitesi. L’antitesi del “buon amministratore padano”. Mi fa ridere sentir oggi dire che Rosy deve dimettersi. Dovevate pensarci anni prima, quando l’avete notata, cari leghisti, e le avete permesso di fare questa folgorante carriera. Rosy Mauro poteva essere fermata quindici anni fa. Se la Lega Nord avesse avuto maggiore trasparenza interna, maggiore democrazia, Rosy Mauro non sarebbe arrivata dove è arrivata. Ma ciò non è avvenuto.

Rosy Mauro, nel 1996, era già la pasionaria leghista. Non si sa bene perché. Può darsi perché era una delle fondatrici, una delle primissime militanti. Peccato che nel 1996 la Signora veniva pizzicata a raccomandare un suo socio in affari, tale Dalmerino Ovieni, anzi, Rosy Mauro pretese che l’Amsa, l’Azienda municipale servizi ambientali di Milano appaltasse la gestione dei rifiuti proprio ad una società di Ovieni, l’Astri. Sindaco di Milano era il leghista Formentini mentre Ovieni era anche sindaco Dc (Dc!) di un paese dell’hinterland milanese:

Peccato che Ovieni, allora sindaco de nell’hinterland, sia stato arrestato nel 1994 per tangenti. Peccato per Rosy e le sue pressioni in favore della «Astri». I fax risultano inviati dall’utenza della società «Ba.Co» e della «Cooperativa II Quartiere», quelle di Rosy, del sindacato leghista Sai e Dalmerino. In questo bel verminaio tanto basta, e da giovedì scorso Consiglio comunale e cronache non fanno altro che il loro dovere: discutere e raccontare. Forse, non ci fosse di mezzo Rosy, tutta questa vicenda sarebbe durata meno, e con minor spazio. Ma c’è di mezzo Rosy, mica una leghista qualsiasi. Rosy che passa le vacanze con Umberto Bossi, Rosy che si fa smanacciare in piscina e finisce in bella foto sulle copertine dei rotocalchi. Rosy che se Bossi è nel raggio di cento metri gli è subito a fianco. Rosy, già sindacalista della Uil, vulcanica corvina. Per farsi conoscere, nel ’90 debuttò con questa dichiarazione: «Non è vero che la Lega è razzista o discrimina le donne, io sono pugliese e dirigo il Sai». Si fece conoscere anche al congresso di Bologna, gennaio ’93, con le urla contro il sindaco Walter Vitali. Quella volta, a Bologna, era convinta d’aver inventato cosa gradita al Capo. Ma rischiò l’espulsione. E anche questa volta è malmessa. Sabato, a Mantova, Bossi era furibondo: «La Lega non deve farsi autogol. Per l’amor di Dio, tutti fuori dalle cooperative e dagli affari!». (Giovanni Cerruti, La Stampa, Archivio Storico, 13/02/1996).

Rosy Mauro era anche segretaria cittadina della Lega e si dimise per l’occasione. Bossi vedeva “in questa brutta storia l’occasione per «un attacco mafioso e fascista a Milano»”. Ripeteva che il piano rifiuti toccava interessi forti. E fece il nome della Compagnia delle Opere, citò gli interessi berlusconiani nelle discariche. “Da quando c’è la Lega le Mafie sono isolate”, tuonava il Senatùr, ancora in forze. E tutti noi gli credevamo, mentre avevamo dinanzi solo una banda di malfattori. L’hanno fatta franca sinora, sappiatelo.