Obama ieri ha parlato di Afghanistan ed ha messo il freno sull’invio di nuove truppe. Egli, a differenza del nostro governo, ha preso un’iniziativa. Ha stoppato le richieste del comandante Mc Chrystal, che invece pretendeva altri 40mila uomini.
Il governo italiano non è in grado di poter affermare le proprie posizioni in sede NATO, quindi La Russa riferirà in Parlamento chiedendo rinforzi per garantire la sicurezza dei soldati stessi. L’Italia ha le mani legate. E questo a causa della mancanza di leadership a livello internazionale del presidente del consiglio nostrano. Solo D’Alema ha parlato della necessità di una conferenza internazionale. E’ l’unica idea sensata. D’Alema ha tralasciato di dire che la conferenza non porterà la pace, bensì lascerà l’Afghanistan in balia del conflitto fra le fazioni locali. Ha tralasciato di dire che la missione ONU non ha condotto alla pace poiché non era tecnicamente una peace keeping: in Afghanistan le armi non hanno mai smesso di sparare. L’obiettivo era distruggere la fantomatica “rete del terrore”. L’esito è stata l’anarchia e la distruzione. Di fatto, per la comunità internazionale, Enduring Freedom e Isaf rappresentano una sconfitta. Sconfitta: la parola che nessuno usa.
Ignazio Marino, senatore del Pd e candidato alla segreteria, vuole sapere se l’Italia sta combattendo una guerra oppure no. Se le condizioni dei nostri soldati sono le stesse di quando si è votata la missione. E, se sono cambiate, come. Per verificare che non siano in contrasto con l’articolo 11 della nostra Costituzione, quello che dice che “l’Italia ripudia la guerra come risoluzione delle controversie internazionali”. Perché se così fosse, non si potrebbe più stare lì. E gli unici che possono dirlo sono i ministri degli Esteri e della Difesa, invitati a riferire al più presto in Parlamento.
Senatore, lei ieri ha detto che “sono cambiate le condizioni per la nostra presenza in Afghanistan”. Cosa intende dire? Sarei arrogante se dicessi che sono sicuro che le condizioni sono cambiate. E quindi non lo dico. Ma ci sono degli indizi che lo fanno pensare, e da cui bisognerebbe partire per aprire un ragionamento sull’opportunità o meno della nostra presenza in quel paese.
Parla dei sei soldati morti l’altro giorno? Non solo. Già nell’agosto scorso alcune dichiarazioni del ministro della Difesa La Russa facevano intendere che qualcosa era cambiato. Ecco, ci devono spiegare cosa.
In che modo? I ministri degli Esteri e della Difesa, che sono gli unici che davvero hanno il quadro completo della situazione, devono venire in Parlamento con una relazione dettagliata sulla vicenda afghana, e dirci chiaramente se il nostro paese sta partecipando a una guerra.
Secondo lei sì? Non ho gli strumenti per poterlo dire. Sicuramente alcune azioni lo sono, e questo lo ammettono anche gli americani. Come stiamo noi in quel paese ce lo deve dire il governo. A quel punto bisognerà capire se il nostro atteggiamento è in contrasto o meno con l’articolo 11 della Costituzione.
Se così fosse bisognerebbe pensare a una exit strategy, come richiesto da Umberto Bossi. Le uscite di Bossi e Berlusconi (che ieri ha parlato di una “transition strategy”, ndf) vanno lette all’interno di una strategia internazionale. Mi spiego: c’è in corso una manovra della destra internazionale di delegittimazione e accerchiamento del presidente statunitense Barack Obama. In questo contesto si inseriscono le dichiarazioni dei nostri rappresentanti di governo. Non credo che se alla guida degli Stati Uniti ci fosse ancora George W. Bush avrebbero detto quelle parole.
Il Partito democratico sembra schierato su una posizione chiara: si resta in Afghanistan. Le dichiarazioni dei membri del mio partito mi sembrano corrette: non si deve e non si può rincorrere “l’onda emotiva” del momento. Sarebbe da irresponsabili. Ma una riflessione sui nostri compiti a livello internazionale va fatta. Non ci si può appiattire su una posizione senza capire davvero se e come le cose sono cambiate.
Dove va fatto questo ragionamento? In Parlamento, che è l’organo sovrano e che può prendere queste decisioni. Se le condizioni dei nostri soldati in Afghanistan sono cambiate, se siamo là con un mandato parlamentare per compiere una missione di pace e poi invece ci troviamo coinvolti in una guerra, deve essere il Parlamento a decidere se la cosa va bene, se dobbiamo continuare a restare, oppure no.
In che tempi? Il prima possibile. Adesso so bene che è il momento del cordoglio, del dolore per la morte dei nostri militari. E in questo momento il Parlamento deve essere unito per rappresentare al meglio il dolore della nostra nazione per la morte dei nostri soldati. Immediatamente dopo però deve esserci questo dibattito, non si può aspettare ancora a lungo.
Ma secondo lei il ministro La Russa verrà in Aula dicendo “siamo in guerra”? Il ragionamento va fatto sulla base di quello che ci diranno i ministri. A quel punto avremo chiara la situazione. E si dovrà prendere una posizione. Che deve tenere al centro la sicurezza dei nostri uomini e il rispetto dell’articolo 11 della Costituzione, e solo in secondo piano gli equilibri internazionali.
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