Il caso Barclays e la manipolazione del Libor, un’altra storia di banksters

Bob “Red” Diamond, direttore generale di Barclays Bank

Giusto ieri il Serious Fraud Office, un dipartimento indipendente del governo inglese che investiga su casi di frode e corruzione, ha aperto una inchiesta sulla truffa del Libor. Il Libor è nientemeno che il London Interbank Offered Rate (tasso interbancario ‘lettera’ su Londra), un tasso di riferimento per i mercati finanziari. E’ il tasso di riferimento europeo al quale le banche si prestano denaro tra loro, spesso durante la notte (in batch notturno), dopo la chiusura dei mercati. Esso è minore del tasso di sconto che gli istituti di credito pagano per un prestito alla banca centrale (Wikipedia). Secondo la Financial service authority (Fsa), tra il 2005 e il 2009, funzionari e traders della Barclays hanno operato per favorire il proprio istituto bancario manipolando il regime delle transazioni. In poche parole, hanno dichiarato di applicare un tasso molto inferiore al reale. Proprio nel biennio del 2008-2009, quando le banche di mezzo mondo andavano in sofferenza per lo scandalo Lehman-Brothers. La cosiddetta “crisi dei titoli tossici”.

Ebbene Barclays era in procinto di essere nazionalizzata. Il Primo ministro inglese era Gordon Brown, laburista, antipatico, succeduto al collega (e guerrafondaio – ricordate le armi di distruzione di massa di Saddm Hussein?) Tony Blair. Paul Tucker era il vice-presidente della Banca d’Inghilterra (Bank Of England, BOE). Un promemoria interno rilasciata da Barclays Bank indicava che nel 2008 gli alti funzionari di Whitehall (via principale di Westminster, che conduce ai palazzi del governo inglese) avevano manifestato preoccupazione per il livello dei prezzi del Libor presentato dalla Banca. Il memorandum, datato 29 ottobre 2008, si riferiva ad una chiamata fatta da Paul Tucker a qualcuno chiamato RED, che potrebbe essere Bob (Robert Edward) Diamond. Bob Diamond è l’attuale direttore della banca, dimissionario per lo scandalo.

Diamond rispose che erano le altre banche ad operare prezzi al di fuori della realtà e Tucker gli rispose “questo sarebbe anche peggio…”. Diamond disse, “devi pagare quello che hai da pagare” e Tucker se la bevve d’un sorso. Diamond spiegò a Tucker che la politica del tasso di Barclays è una politica “orientata al mercato”, e questo aveva fatto sì che nel 2008-2009 il prezzo Libor della banca apparisse nel quartile superiore, occasionalmente anche nel decile superiore (si trattava quindi di prezzi visibilmente bassi rispetto al “rating” della banca). Diamond mentì per evitare di far passare al mercato l’idea che Barclays fosse in crisi. In realtà lo era, come tutte le altre banche del resto, ma in Barclays erano ostinati ad evitare il peggio, ovvero la nazionalizzazione della banca.

Non c’erano problemi di finanziamento, ha sostenuto Bob Diamond, ma ci sarebbero stati se l’idea, per quanto teorica, di un intervento della mano pubblica si fosse diffusa sui mercati compromettendo un deal che stava maturando […] Poche ore più tardi, infatti, investitori del Golfo iniettarono denaro nella banca, salvandola. Il precipitare del tasso con cui Barclays si finanziava secondo Diamond non dipende dalla diffusione di Libor manomessi, ma dai mercati che consideravano Barclays ormai salvata da Qatar e Abu Dhabi (Barclays, l’ex ceo si difende: «Non sapevo» – Il Sole 24 ORE).

Il salvataggio arrivò per mano dei petrodollari di Abu Dhabi, ma perché Whitehall non approfondì l’indagine? Perché Gordon Brown non intervenì? Si poteva fidare davvero della relazione di Bob “RED” Diamond? Il premier David Cameron ha il sospetto di trovarsi dinanzi ad uno scandalo “made in labour” ed infatti ha subito premuto per aprire una commissione d’inchiesta parlamentare, mentre Ed Milliband ha giocato in difesa vagheggiando di una inchiesta indipendente da parte di un organismo terzo (ammesso che ce ne siano).

Ma di cosa si occupa Barclays? Lo so, non vi aspettate altro: Barclays fa parte di quella schiera di Banksters, della banda dei Derivati. Quello che fa Barclays è creare valore dalla carta. In sostanza, prestidigitazione. Secondo Il Sole 24 Ore, “l’immensa finanza di carta per Barclays valeva da sola a fine 2010 la bellezza di 56mila miliardi di euro”. In pratica due manovrine italiane fatte di nulla. Sono speculazioni sul prezzo del grano, dell’oro, del petrolio e via discorrendo. Tutto ciò che ha un prezzo ed è una merce e si vende può essere trasformato da Barclays in un pezzo di carta dal valore dieci o venti volte la merce cui fa riferimento. Non è magia ma somiglia molto alla truffa. “Un terzo del valore dell’intero bilancio” di Barclays proviene dai Derivati (Il Sole 24 Ore, cit.). Significa che i Derivati sono il suo core businness. Perché truccare il Libor? O l’Euribor? Perché dichiarare un millesimo di tasso in più o in meno sposta, per Barclays e banksters come Barclays, qualche miliardata di euro in un sol giorno. Sapete, per un CEO o un General Manager, legati alla catena della prestazione dai bonus milionari in palio, un millesimo di punto non dichiarato è una bazzecola. Il fine, nel terribile mondo della Finanza dove hobbesianamente “l’uomo è lupo all’uomo”, giustifica il mezzo.

Il problema semmai è un altro. Nei recenti accordi del Consiglio Europeo di Bruxelles si è pensato di fornire l’aiuto del Fondo Salva-Stati ESFS e quindi del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES o ESM) per ricapitalizzare gli istituti bancari in difficoltà. Sappiate però che alle banche non è richiesto nessun intervento in senso positivo: non devono fare alcuna ristrutturazione del proprio capitale, né rivedere in alcun senso la loro esposizione ai cosiddetti titoli tossici. Nemmeno è stato formalizzato in alcun modo la separazione fra banca finanziarie e banche commerciali. La City di Londra, la piazza affari di Francoforte possono continuare a speculare su tutto, con qualsiasi margine di rischio. Nessuno le controlla. Se pensate a quel che è stato chiesto alla Grecia, o quel che viene chiesto al nostro paese per potersi rifinanziare sul mercato o ottenere aiuti dai partner europei, potete capire chi comanda nel mondo. Ed è curioso che scavando in direzione del marcio ritrovi il Labour Party, con buona pace di Ed Milliband, faccia d’angelo in un partito compromesso dai brokers londinesi. Fu proprio Tony Blair, insieme a Bill Clinton, a firmare l’accordo per eliminare la separazione fra banche finanziarie e banche commerciali. Quell’atto spalancò le porte del mondo alla world economy. La sporca globalizzazione.

Il governo di David Cameron ha in progetto una legge che ripristini la condizione d’un tempo, quella della separazione fra investimenti e prestiti al consumo. Will Hutton, giornalista dell’Observer, si chiede se “chi critica questa riforma abbia pensato che qualunque ministro del commercio e dell’industria nei governi laburisti di Tony Blair o Gordon Brown avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato del conservatore Vince Cable”, cosa che invece non ha fatto. Poi, trionfale: “Questo è un grande momento, e dovremmo riconoscerlo tutti” (internazionale.it). Peccato che la legge avrà i suoi effetti soltanto dal 2015.

Death Bonds, ultima frontiera della Mala delle Banche

Ricevo&Pubblico

Il lupo perde il pelo ma non il vizio: Deutsche Bank ha lanciato per al prima volta in Europa i death-bonds.

Questi sinistri derivati esistono da oltre un decennio in USA, ed approfittano delle persone in crisi economica per vecchiaia o per malattia. Novanta milioni di americani hanno un’assicurazione sulla vita; molti di loro non possono più permettersi di pagare i premi, oppure hanno bisogno di incassare il denaro in anticipo. A questo punto intervengono gli speculatori, che offrono agli assicurati in ristrettezze questo “accordo sulla vita” (life settlement): gli comprano le polizze vita per metà o meno del risarcimento atteso (tipicamente, 400 mila dollari per un milione), e poi pagano le rate del premio, aspettando la morte dell’assicurato. Più precoce è la morte, più alto il profitto. 

Non a caso i death bonds conobbero i primi successi negli anni ’80 coi malati di Aids, ridotti in miseria dalla malattia e bisognosi di incassare a qualunque costo: arrivarono gli avvoltoi ad offrire il life settlement, e ad incassare lucri altissimi dato che quei pazienti morivano rapidamente. Il migliorare delle terapie ha prosciugato questo “mercato” , insieme ad inchieste giudiziarie sulle pratiche abusive condotte dagli speculatori a danno dei pazienti disperati, conclusesi con condanne. Un’altra condanna giudiziaria ha colpito due “finanzieri” che avevano assicurato l’intera comunità di negri poveri di Los Angeles South Central, e poi rivendevano i prodotti impacchettati e cartolarizzati (esattamente come i derivati sui mutui sub-prime) promettendo profitti del 25%, col motivo che “i negri americani muoiono prima degli altri gruppi razziali” (già, chissà perchè…).

Tuttavia, questa speculazione sulla morte (e la miseria) non è mai cessata, anzi è cresciuta in America: i bond relativi danno interessi sicuri attorno all’8 per cento, perchè niente è sicuro come la morte. E sono venduti, impacchettati in titoli, ad hedge funds e a fondi pensioni.

E’ questo il motivo per cui Deutsche Bank, per prima in Europa, ha lanciato questo “prodotto finanziario”, che il business preferisce chiamare eufemisticamente “Life Settlement Backed Securities” (LSBS). La crisi economica che colpisce i detentori di polizze-vita, nonchè l’invecchiamento della popolazione e il fatto che si dovrà lavorare fino ai 70 per le nuove austerità pensionistiche, ciò che probabilmente ridurrà la longevità, apre rosee possibilità di profitto. E’ il derivato ideale per profittare delle ristrettezze delle famiglie e dei privati, indotte dalla recessione. Tanto pù che questi titoli derivati hanno il vantaggio di essere “uncorrelated assets”, ossia le loro performances non soffrono per gli alti e bassi degli altri mercati speculativi. I tassi di mortalità non dipendono dal rincaro delle commodities o dai corsi azionari, dopotutto. E in tempi di collasso della finanza speculativa, troppo interconnessa a livello globale, “uncorrelated assets” come questi hanno un alto valore nei portafogli.

E pensare che Josef Ackerman, il capo supremo della Deutsche Bank, solo pochi giorni aveva detto che la Deutsche Bank sente una speciale responsabilità di perseguire i suoi scopi economici “in modo onorevole e morale”.

Als Marktführer in Deutschland und eine der führenden Banken weltweit sehen wir uns in einer besonderen Verantwortung, (…) unsere ökonomischen Ziele auf ehrbare, das heißt moralisch vertretbare Weise zu erreichen“

Maurizio Blondet
Fonte: http://www.rischiocalcolato.it

SPQI, sono porci questi (titoli di stato) italiani

Tremonti che strilla contro i “banksters” non è surreale? Perché dovrebbe, qualcuno se lo è chiesto? Ci sono forse dubbi sull’economia italiana? Sul suo trentennale debito – che in quanto a persistenza ha qualcosa a che fare con i rifiuti napoletani – Tremonti ha spergiurato: l’Italia non corre rischi. Ha però sforbiciato a lungo il bilancio statale, tant’è che l’istruzione pubblica è soltanto più l’ombra di sé stessa. Per non parlare dei servizi erogati dagli enti locali (trasporti e sanità), quasi a rischio di chiusura.

E allora? I soldi rastrellati con la politica delle lacrime e del sangue non bastano? La novità risiede nel fatto che l’Italia sarà la prossima vittima sacrificale sul patibolo dei mercati finanziari. Gira la voce – Fondo Monetario Internazionale – che prima o poi, più prima che poi, l’Europa dovrà occuparsi seriamente di noi. L’Italia nel mirino della speculazione, come è accaduto per la Grecia? Pare di sì, ma tranquilli, siamo in buona compagnia:

L’Italia corre seri rischi per la sua ripresa economica in conseguenza delle “tensioni” di mercato sui suoi titoli di Stato che si avranno nell’ultimo trimestre del 2010 e nel 2011. La previsione è stata fatta dal Fondo monetario internazionale nel suo World Economic Outlook e riguarda anche altri Paesi come Giappone, Francia e Stati Uniti (Rinascita).

C’è aria, insomma, di crisi sistemica. Che metterà in ginocchio l’unione monetaria (ovvero l’Euro). L’obiettivo dei banksters è quello di “far crollare sui mercati la considerazione per l’affidabilità dei nostri Cct e Bpt e di conseguenza obbligare il Tesoro ad alzare i rendimenti” (Rinascita, cit.). L’attacco verrà sferrato con il solito trio di assi di Agenzie di Rating: Moody’s, Standard & Poor’s, Fitch. I tre abbasseranno il rating dell’Italia, o della Francia, scatenando il panico. L’obiettivo di lungo termine è sfaldare l’Euro, mettendo i tedeschi dinanzi alla prospettiva di un abbandono dell’Unione. L’Euro, in questo subdolo progetto, verrà diviso in Euro dell’europa Meridionale e Euro-Marco (una riedizione della vecchia moneta tedesca).

Vi sarà chiaro il fatto che qui non si tratta più solo di economia. Ma si usa l’economia per sradicare realtà politiche – come l’Unione Europea – e incidere localmente per metter fine a ciò che resta dello Stato Sociale:

nel caso dell’Italia e della Francia, contempla l’invito ad andare avanti con le politiche di riduzione del debito e del disavanzo, attraverso tagli alle pensioni, agli stipendi dei dipendenti pubblici e più in generale alle spese dello Stato sociale, come la Sanità nella quale dovrebbe progressivamente crescere il peso degli operatori privati. Quelli del Fmi, apparentemente dei consigli, sono in realtà chiari moniti ai governi a smantellare progressivamente ogni presenza della mano pubblica, per creare un unico enorme mercato globale (Rinascita, cit.).

Un mercato globale in cui si schiacciano le persone e le comunità a cui appartengono. Questo per il benessere di pochi attempati massoni trincerati dietro le loro corporation.

I fantamiliardi dell’Europa: ora un’altra stretta al bilancio statale, vero Mr Tremonti?

Basta la parola. Seicentomila miliardi. E la Borsa esplode in giubilo. Una scena già vista. I mercati non funzionano sulla base di criteri oggettivi, ma di emozioni. Ai mercati basta suggerire le paroline giuste, salvo poi venir scoperti in flagrante.

Ecco perché già la scorsa settimana il Ministro Tremonti ha annunciato la manovrina autunnale di 25 miliardi di euro – avete letto bene, 25… – che si abbatteranno come una scure sul più che emendato bilancio statale. A cosa si dovrà far a meno, d’ora in poi? Abbiamo tagliato anche i cori lirici. Non resta che il Palazzo (che sia la volta buona?).

Di fatto, senza una strategia di ristrutturazione del debito – pubblico e pèrivato – non se ne esce. I cittadini, ed è una costante per tutti i paesi dell’Eurozona, non hanno riserve: hanno sinora vissuto a debito, più o meno come lo Stato. Comprare una macchina o una casa, un televisore al plasma piuttosto che l’I-phone, è possibile solo facendo debito. La società occidentale non riesce più a creare sufficiente ricchezza per mantenere il proprio status né per ripagare il debito. Questo il punto cruciale: la produzione di ricchezza è inceppata. I piccoli e medi imprenditori o rinnovano o sono fuori; possono tutt’al più esternalizzare, ovvero trasferire la ‘baracca’ laddove il costo della manodopera è basso. A produrre qui in Europa, nell’Europa dell’ovest, quella dell’Euro, non si crea valore aggiunto. In primis perché non il proprio prodotto non permette ulteriori margini di sviluppo e diversificazione. Buona parte del settore manifatturiero italiano è in questa situazione, e subisce naturalmente la concorrenza cinese contro la quale non può opporrre alcuna strategia difensiva. Anche il grande capitale estero è in fuga: in Italia almeno una decina di casi eclatanti, fra cui quello della chimica (LyondellBasell – caso giunto alla ribalta nazionale in questi giorni per il rischio chiusura degli impianti di Terni, in realtà società multinazionale in crisi sin dal 2008, dai giorni del primo ‘mostro’ della crisi, durante i quali la LyondellBasell USA chiese l’ammissione al Chapter 5, l’amministrazione controllata).

E allora basta con i festeggiamenti. L’accordo raggiunto in Ecofin ha in realtà sancito:

  1. la fine delle politiche keynesiane di stimolo della domanda aggregata sostituite da un rigido monetarismo sganciato dall’economia reale e rivolto alla sola conservazione di valore della moneta;
  2. l’inizio del governo della BCE, vero soggetto politico della UE, sovraordinato agli organi istituzionali – Commissione, Consiglio, Parlamento – sganciato da qualsiasi dinamica democratica e dotato ora anche di potere di intervento sui mercati mediante la pratica del quantitative easing e di emissione di eurobond che impegneranno tutti i paesi aderenti all’Unione.

La sbornia durerà poco e i banksters torneranno a cannoneggiare qualche altro paese che viene appena dopo la Grecia. Ora sanno che paga l’Unione e che non c’è fine al (fanta)fondo di garanzia. Tanto basta fare dei clic su un computer: si chiama ‘finanza elettronica’, signori.

Crisi UE: Il debito che non ti aspetti

Venerdì, il blog di Beppe Grillo pubblicava questo post, Il Debito dei Maiali (e oggi ci riprova con ‘La crisi piovuta dal cielo’), in cui con tanto di video si evidenziavano i rapporti di debito fra i paesi europei e i cinque cosiddetti P.I.I.G.S., i maiali d’Europa, appunto, che prosperano accumulando debito. Si dà il caso che il grafico impiegato e l’impianto argomentativo fossero ripresi da un articolo del The New York Times:

Il grafico naturalmente viene impiegato dal sito di Grillo per riaffermare la tesi secondo cui ‘adesso tocca alla Grecia, ma i veri maiali siamo noi italiani e prima o poi subiremo la stessa sorte’, cavallo di battaglia del Grillo economista. Ma l’analisi di Nelson D. Schwartz, il vero autore, difetta di ‘americanocentrismo’ poiché nel quadro così delineato si è ben guardato da includere le “bolle” del debito a stelle e strisce, nonché quella britannica, certamente non così piccola come si potrebbe immaginare:

Il debito pubblico degli Stati Uniti, nel 2009, rappresentava il 70% del Pil [il nostro nel 2009 è salito a 122.9%] mentre il deficit di bilancio ha toccato la stratosferica cifra di 1.400 miliardi di dollari che, secondo il budget della Casa Bianca, nell’esercizio in corso diventeranno 1.556 miliardi: cioè, il 10,6% del Prodotto interno lordo [il nostro è circa il 6% nel 2009]; il rapporto debito/Pil dell’Inghilterra si è attestato, nel 2009, a quota 68,5 per cento. E le stime sono per una veloce crescita: il 79,5% nel 2010 e l’88,5% per il 2011. (I debiti di Usa e UK non sono puniti dai mercati. Ecco perchè, Vittorio Carlini).
I conti degli inglesi sono migliori dei nostri? Si direbbe, ancora per poco. Per esempio, un’agenzia di rating che dovesse valutare il debito inglese dovrebbe certamente considerare il fatto che le stime per gli anni a seguire sono di crescita. In seguito a questa semplice constatazione, dovrebbe esprimersi con un giudizio previsionale, il cosddetto outlook, negativo o parzialmente negativo; almeno dovrebbe esprimere dei rilievi al governo inglese. Rispetto agli USA, un’agenzia di rating ne avrebbe già declassato i titoli di Stato. Si consideri anche che la condizione finanziaria dei singoli stati della federazione statunitense non è migliore di quella della Grecia (caso della California, sull’orlo del default da circa un anno e mezzo). Perché ciò non avviene? Perché i vari Moody’s e S&P si ostinano a assegnare la tripla A con outlook stabile ai bond “Tresaury” USA?
Qualcuno (non Grillo) ha avanzato alcune ipotesi:
  1. “le solite big investment bank di Wall Street usano i soldi prestati dalla Fed per acquistare i Treasury, alzando così i prezzi e tenendo schiacciati i rendimenti” [rendimenti bassi garantiscono rating ottimi] quegli stessi Treasury che poi, attraverso il quantitative easing [l’alleggerimento quantitativo], la Banca centrale americana si ricompra”;
  2. “Se si applicassero i criteri dei paesi emergenti – articola maggiormente Luca Mezzomo, responsabile dell’ufficio studi di Intesa Sanpaolo – la tripla “A” non ci sarebbe già da un pezzo […] non può dimenticarsi un altro aspetto importantissimo». Vale a dire? «Con la loro moneta fanno signoraggio. Le banche centrali acquistano enormi quantità di asset in dollari, usando il bliglietto verde come attività di riserva” (I debiti di Usa e UK non sono puniti dai mercati. Ecco perchè, Vittorio Carlini).

I banksters, ancora loro, che tramano nell’ombra: prima fanno quasi fallire il sistema bancario statunitense, poi ricevono gli aiuti dal Tesoro di Washington e con questi denari freschi tornano sul mercato e fanno incetta di Treasury, facendone così alzare il valore. Al resto ci pensa la Federal Reserve, che stampa carta moneta e con questa ratrella i titoli USA. Capito? Sì, si tratta del signoraggio, quel particolare benefit che riceve chi è investito del diritto di stampare carta moneta. Negli USA, la Fed; in Unione Europea, la BCE. Qui sta l’inghippo:

Nei paesi dell’area euro, il reddito da signoraggio viene incassato dai paesi membri per il conio delle monete metalliche, e dalla Banca centrale europea (BCE) per la stampa delle banconote, che emette in condizioni di monopolio. Tali redditi sono poi ridistribuiti dalla BCE alle banche centrali nazionali in ragione della rispettiva quota partecipazione (per la Banca d’Italia ad esempio il 12,5% […] i singoli stati nazionali provvedono in seguito a prelevare gran parte di tali redditi dalle banche centrali tramite il prelievo fiscale. In taluni casi, come per la Bank of England, essendo la banca centrale completamente di proprietà statale, il reddito derivato dall’emissione delle banconote viene indirettamente incamerato interamente dallo stato (Signoraggio – Wikipedia).
Va da sé che il reddito di signoraggio per produzione delle monete – a carico del singolo stato nazionale – è parecchio modesto per l’alto costo della ‘materia prima’ (metallo). Secondo aspetto: con le monetine non si possono acquistare i titoli del proprio debito (pensate al costo di stampare miliardi di euro in monete da due euro). Ne consegue che gli USA, pur essendo in condizioni debitorie non dissimili dalla Grecia, mantengono inalterata la propria sovranità e possono così spingere la Fed a intervenire sul mercato dei Treasury quando ve ne è la necessità, con l’effetto opposto di aumentare il capitale circolante e svalutare la moneta. La Grecia? Non può stampare carta moneta. Non può recuperare i propri titoli di debito attraverso il quantative easing. Lo può fare la BCE, ma la BCE non risponde ad alcun governo nazionale. Risponde solo a sé medesima. Questo è il problema.
Alcuni governi hanno fatto pressing per superare le ritrosie della Bce ad acquistare titoli di Stato dei paesi in difficoltà (Quattro mosse a difesa dell’Euro – CorSera).
Il vertice di ieri del Consiglio Europeo, presideuto dall’uomo ombra Van Rompuy, non è servito a chiarire se e come la BCE interverrà con il quantitative easing. Non è chiaro cioè se la BCE interverrà sui mercati in difesa dei paesi dell’Eurogruppo qualora uno di questi avesse difficoltà con il quantitativo debitorio in circolo. La BCE non ha alcuna guida politica, né pertanto potrebbe allo stato delle cose, senza una precisa presa di posizione dei governi europei, operare in tal senso. Di fatto la Grecia è sull’orlo del default non solo perché attua politiche finanziarie poco rigorose ed ha una spesa pubblica fuori controllo. Non ha potuto far leva sulla moneta, ed è ricorsa giocoforza al credito bancario, finendo nella spirale debitoria in cui si trova ora. Una politica di riduzione del debito non è sufficiente senza una copertura strategica da parte della BCE.
Che le vie del debito siano incrociate è quanto di più ovvio si potesse scrivere. Se il debito dell’Italia è in mano francese, è pur vero che quello americano è in gran parte in mano cinese. E se un debito può voler significare un certo grado di controllo di un paese sull’altro, è pur vero che il paese creditore dipende dalle scelte finanziarie del paese debitore poiché scelte sbagliate potrebbero metter a pregiudizio il proprio “investimento”.
La questione del debito incrociato non risolve la domanda ‘perché i titoli USA hanno la tripla A con outlook stabile?’
[Secondo] Joel Naroff, noto economista Usa indipendente – [Una revisione del giudizio di outlook stabile] vorrebbe dire, giocoforza, che si pensa ad una revisione del rating. Cui potrebbe seguire l’ipotesi che gli Stati Uniti, seppur in un’ipotesi lontanissina, potrebbero diventare insolventi sul qualche emissione. Un vero e proprio non sense. In realtà – dice Naroff – gli Stati Uniti sono un caso a parte, e come tale devono essere valutati.
Gli USA sono, per le agenzie di rating, un “caso a parte”. E’ implicito in questa affermazione una valutazione di tipo patriottistico. Tant’è vero che i PIIGS d’Europa sono i paesi ‘meridionali’ più gli irlandesi. Forse che le valutazioni di Moody’s del debito inglese siano diverse? Si dice che per la revisione del rating attendano l’esito delle elezioni, che guarda caso non hanno avuto esito certo. Un calcolo molto semplice però può aiutare a capire che la mancata revisione del giudizio di outlook è stato per USA e UK un aiutino concreto. Guardiamo ai dati. Questo il rapporto debito/pil di Italia, USA, UK, Francia e Germania, anni 2005-2010 proiezione (dati OECD). La seconda tabella ci mostra gli incrementi relativi. Va da sé che il rapporto debito/pil del biennio riflette il cattivo andamento economico, però di fatto si può così comprendere che la prestazione peggiore non l’ha avuta l’Italia, ma UK nell’anno 2009; quindi a seguire USA, Francia, Germania e Italia, pur avendo avuto subito quest’ultima decrementi significativi del PIL. Infatti, gli USA, a fronte di un incremento del rapporto debito/pil del 22.93%, mantengono nel 2009 un tasso di crescita del 1%: significa che il debito a stelle e strisce è esploso. Medesimo discorso per UK che nel 2009 cresce dello 0.7%. Senza sottovalutare che il rapporto deficit/pil – l’altra croce di Maastricht – degli USA salirà quest’anno al 12%, lo stesso della Grecia; che il forte indebitamento privato fa salire il rapporto debito/pil al 300%. Chi è più PIIGS?
Nessuno crederà mai ad un paese in cui i cittadini vivono a credito, disse Uriel. Tranne se possiedi una agenzia di rating.
2005 2006 2007 2008 2009 2010
Italy 119,9 117,2 112,5 114,5 122,9 127,3
US 62,3 61,7 62,9 71,1 87,4 97,5
UK 46,1 46,0 46,9 57,0 75,3 89,3
Germany 71,1 69,4 65,5 69,0 78,2 84,1
France 75,7 70,9 69,9 76,1 86,4 94,2
Eurozone 75,10 75,90 77,00 74,50 71,20 73,40
2006 2007 2008 2009 2010
Italy −2,25% −4,01% 1,78% 7,34% 3,58%
US −0,96% 1,94% 13,04% 22,93% 11,56%
UK −0,22% 1,96% 21,54% 32,11% 18,59%
Germany −2,39% −5,62% 5,34% 13,33% 7,54%
France −6,34% −1,41% 8,87% 13,53% 9,03%
Eurozone 1,07% 1,45% −3,25% −4,43% 3,09%

Incrementi rapporto debito/pil anni 2006-2010 (fonte OECD)

Conclusione? Non è tutto debito quel che fanno i maiali. E forse una lettura più attenta dei numeri sarebbe necessaria. La verità è che il copia-incolla non insegna nulla.

Per approfondire: Gli USA stanno peggio della Grecia http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=32189

Gli unici incontestabili giudici sulla qualità del debito continuano a essere tre società inaffidabili. Detengono un potere enorme, ingiustificato. Agiscono in una zona grigia, senza contrappesi, senza concorrenza. E in queste ore contribuiscono in modo decisivo a indebolire l’euro, moltiplicare i dubbi sulla sua tenuta, e dunque rivalutare miracolosamente l’indebitatissima America. Di fronte a un’Europa che potrebbe esplodere, molti investitori sono indotti a pensare che tutto sommato siano meglio i Treasury bonds Usa.

Il salvataggio della Grecia salva le banche

Borse a picco, oggi. Nuovamente. Colpite Atene, Madrid, Lisbona. L’euro è sceso a 1.3025 sul dollaro. I mercati non credono al piano congiunto UE-FMI per salvare la Grecia dal default. Per tutti gli operatori finanziari la Grecia è fallita. Non c’è più la componente essenziale che regge il mercato: la fiducia.

L’Unione europea sta cercando di allestire in fretta la zattera di salvataggio da 110 miliardi di euro, con il contributo dell’Fmi, a favore della penisola ellenica. E Atene cerca di fare altrettanto suoi suoi impegni anti deficit, calendarizzado per giovedì il voto del Parlamento sulla manovra correttiva supplementare, 30 miliardi di euro prevalentemente di tagli alla spesa sui prossimi due anni (La Stampa.it).

A dire che si tratti di “salvataggio” della Grecia si farebbe dell’ironia, l’unica cosa autentica in questa storia. Se i mercati oggi vanno giù, nessuno si spaventi. Poiché succede solo grazie alla disponibilità dei paesi europei, tanto ‘magnanimi’ nell’aiutare il proprio socio di club. Le cosiddette istituzioni finanziarie, le banche, i banksters, increduli, si leccano le dita. Eh sì, l’aiuto alla Grecia non aiuta la Grecia. Nel paese, per le finanziarie distruttive che verranno approvate dal governo e dal parlamento, aumenteranno le tensioni sociali mentre i lavoratori statali e quelli privati vedranno compromessi i loro diritti (TFR e pensioni). Non si può parlare di aiuto ai greci senza passare per ipocriti. A nessuno frega qualcosa dei greci. I governi europei sono intervenuti solo perché spinti dalle stesse persone che hanno contribuito a mettere la Grecia sull’orlo del default. Il meccanismo creato è quanto di più perverso e bieco si potesse pensare. Prendiamo per esempio la posizione dell’Italia. Il suo rapporto deficit/PIL raggiungerà quest’anno il 5.8%, forse più. Su di esso graveranno i 5.5 miliardi di euro, anzi no, i 9 miliardi di prestito alla Grecia? La risposta è no, e questo per un semplice giro di conti reso noto oggi da Il Fatto Quotidiano. Questo aspetto è fondamentale; infatti, gratta gratta, scopri l’inghippo.

Ecco come funziona:

  1. la BCE ha rimosso i vincoli di rating per l’uso dei titoli greci come garanzia per i prestiti che concede alle banche“, quindi una banca esposta in titoli di Stato greci bussa alla porta della Banca Centrale del proprio paese e si fa cambiare quella carta straccia con moneta sonante, che restituirà in comode rate;
  2. lo Stato italiano si prende la cartaccia greca, la userà come titolo di credito verso le banche, le quali potranno così disporre di denaro fresco, dato oramai per perso, definitivamente e irrimediabilmente, da rimettere in circolo nel circuito finanziario, ovvero moltiplicandolo in altri titoli di credito da vendere e comprare sui mercati secondo quella dinamica criminale che dal 2007 è sotto accusa ma che nessuno è in grado di arrestare;
  3. lo Stato italiano emetterà ulteriori titoli di debito della medesima entità della raccolta delle banche consegnando il tutto alla Grecia in forma di prestito al 3%; va da sé che gli indici di riferimento (deficit/pil e debito/pil) resteranno invariati poiché la nuova voce di debito si annullerà con la voce di credito che lo Stato crea ritirando i titoli greci;
  4. riassumendo: le banche si salvano dal rischio default, gli Stati non vedranno alimentarsi la spirale del debito, ma si accollano in toto il rischio greco creato da quelle stesse banche che nuovamente riescono a farla franca;
  5. last, but not least: perché accontentarsi di 110 miliardi in tre anni?

Grecia, Formigoni, Bond: chi resta con il cero corto

Domani, in tempi molto sospetti, Angela Merkel applaudirà al voto tedesco sul maxi prestito al governo di Papandreou e tutti vivranno nuovamente felici e contenti. Così Formigoni vorrebbe, ardentemente vorrebbe. Ma i 30 mld di euro del prestito UE-FMI sono lievitati nel frattempo a 45 e il Bundestag sarà costretto a ingoiare un boccone indigesto. Tutti siamo certi sarà l’unico. E invece si scopre che il bubbone finanziario ha radici molto profonde, radici malate, eppure con diramazioni fittissime  e non pienamente conosciute. Rendiamo grazie ai banksters e al capitalismo finanziario made in ‘swinging London’ (naturalmente Washington ha dato una mano).

Dove sono diramati i perfidi tentacoli dei bond della Grecia? C’è chi parla di rischio sistemico. C’è chi è convinto che salvare la Grecia sarà come salvare sé medesimo. Se la speculazione ha colpito la Grecia, è come se avesse colpito alla base un castello di ‘carte’: cade la Grecia, cadono tutti, poiché i titoli tossici sono nelle tasche non di ignoti, ma delle nostre istituzioni finanziarie, dalle banche agli enti locali.

E’ il caso – lo avrete letto – della Lombardia e del famoso prestito obbligazionario dell’anno formigonensis 2002, quando l’amministrazione regionale decise di accendere un bond da un miliardo di euro, per “finanziare opere infrastrutturali e interventi nella net economy” (siamo nel 2010 e la Lombardia a che punto è nella net economy?). Una parte del prestito – 115 mln – fu deciso di reinvestirla in strumenti finanziari sicuri, ovvero in bond di un paese europeo aderente all’euro: la Grecia. Ma la curiosa coincidenza è che questo giochetto dell’investimento con i soldi degli altri sono proprio le banche a gestirlo. Banche che rispondono al nome di Ubs e Merril Lynch. Le medesime che piazzano sul mercato il bond di Formigoni. Qualcuno cercò di indagare sul bond lombardo già nel 2007. Un trucchetto che funziona così:

La particolarità dell’emissione consiste nella modalità del rimborso, che non viene diluito mensilmente o annualmente, ma tutto insieme alla fine del contratto. Nel frattempo, però, la Regione per non trovarsi a dover sborsare tutto il debito in una sola volta, accantona in un fondo (sinking fund) il capitale da restituire. Il fondo non è un semplice fondo di ammortamento, ma viene gestito attivamente dalle due banche. Ovvero possono investire quei soldi in altri titoli, riconoscendo in caso di buon esito un rendimento alla Regione pari agli interessi del bond e tenendo per sé l’extra-rendimento. Qualora le cose andassero male, il rischio resta semplicemente a carico dell’Ente. Il risvolto peggiore è che quei soldi vadano in fumo e l’Ente si trovi a dover pagare due volte l’ importo del bond (Archivio Storico – La Repubblica.it).

Morale della favola? Formigoni è convinto che la Grecia non fallirà. Beata incoscienza.