Ai confini della Rete: la Binetti diffamata e il blogger falsario

Calunnia, Botticelli

Paola Binetti è stata diffamata a mezzo blog. Il Simplicissimus ha pubblicato un post in cui si riportavano frasi attribuite alla parlamentare dell’UDC. Frasi, si è scoperto poi, essere in contrasto con le dichiarazioni pubbliche della Binetti in materia di terapia del dolore. Ci sono pagine e pagine di resoconti parlamentari che testimoniano dell’impegno in materia della a volte discutibile senatrice ultra-cattolica. Quindi le parole riportate dal Simplicissimus risuonavano subito, ai primi che le lessero, alquanto strane. Quella frase, “i bambini malati di cancro portino la croce”, era paradossale e abnorme, ma ha funzionato benissimo. Il blog Simplicissimus pubblicava il post il 28 Giugno scorso. Molti altri siti hanno replicato parimenti la notizia, senza alcuna remora, senza indugiare in difficoltose – e dispendiose in termini di tempo – verifiche. Tutti sono caduti nella trappola dell’indignazione, fino a vergognarsi di aver ceduto alla facile soluzione di ricavare un surplus di visualizzazioni da una notizia così ripugnante. Prendersela con i bambini. Una dichiarazione folle e inverosimile che solo quell’integralista della Binetti poteva fare.

Peccato che fosse completamente falsa. Binetti, dopo qualche giorno, ha smentito. Ieri ha scritto un commento in coda al post incriminato, senza dilungarsi in richieste di rettifiche o altro. Ha soltanto – e signorilmente, gliene deve esser dato atto – riferito la sua versione e ha invitato i lettori a diffidare dei dispensatori di bufale sul web.

Qui ci troviamo di fronte a un duplice problema. Da un lato, la ricerca delle fonti sul web è sempre stato uno degli argomenti di punta dei suoi detrattori. Umberto Eco afferma che non si sa mai se una notizia sul web sia vera o falsa. “Su Internet non ci sono filtri sociali: prima di aprire un giornale c’è bisogno di gente che dia il denaro necessario, di giornalisti, e via dicendo. A seconda di chi dà il denaro a un giornale, e di chi ci scrive, sappiamo se il giornale è comunista, se è fascista.. Al contrario, su Internet, nessuno sa chi sia il signor X”, disse Eco a El Pais in una intervista di due anni or sono. Noi non sappiamo perché sia stato pubblicato quel post, perché è stato dichiarato il falso su Binetti. Perché proprio ora. Sappiamo però – e questo è un merito, non tanto del web, ma dei lettori – che le notizie false hanno vita molto breve se pubblicate da un blog. La carta stampata resta, i kilobyte di un post possono essere trasformati, modificati, cancellati in ogni istante. Fino a far scomparire”l’errore”. Ma soprattutto sono oggetto di verifica da parte di migliaia di occhi e di teste, pronte a far girare i motori di ricerca.

In secondo luogo, ci scontriamo con un dilemma, forse sorto in seguito al tramonto dell’era berlusconiana, i cui protagonisti sono stati materiale eccellente per pubblicazioni orientate alla denuncia e allo scandalismo esasperato. Si tratta di un vero e proprio filone, il cui capostipite è stato il Blog di Grillo, il cui “spirito editoriale” è stato poi brillantemente implementato in una testata vera e propria, ovvero Il Fatto Quotidiano. L’imitazione di questi due campioni dell’indignazione da tastiera è diventato un modello per tantissimi blogger. Suscitare l’indignazione è un buon modo per ottenere visualizzazioni sul web. Essere visibili è il metro con cui si misura il successo di un sito. Non contano i contenuti, basta che essi procurino interesse.

Ecco, a mio avviso, dopo la fine del berlusconismo, questo filone ha vissuto una crisi. Ha perso la materia prima che produce indignazione, ovvero i berluscones. O perlomeno sono diventati merce rara. Di che parlare allora? Per alcuni può esser diventato una coazione a ripetere. E allora scrivere notizie false su dichiarazioni false in merito a cure anticancro sui bambini si configura come un altro modo di fare trollismo.

A corredo di ciò, va ricordato che l’autore del blog Il Simplicissimus non ha provveduto né a rettificare il post, né tantomeno a rispondere ai commenti e alle sollecitazioni di chiarimenti da parte dei lettori e degli altri blogger caduti nella trappola. Un comportamento scorretto, da censurare. Che speriamo non venga impiegato come pezza d’appoggio per disegni di legge censori nei confronti della libertà di espressione.

(A causa della scorrettezza de Il Simplicissimus, questo blog non inserisce alcun trackback al post incriminato).

Ma l’iperdemocrazia non è antidoto alla Casta

Se possiamo intendere i corpi intermedi della società – partiti e sindacati – come indispensabili alla comunicazione di domanda e sostegno dalla società civile al sistema politico (si faccia riferimento alla teoria sistemica della società e in particolar modo a David Easton), altrimenti non possiamo intendere il sistema politico come un circuito parzialmente chiuso, con una modalità di reclutamento dei soggetti incaricati alla sua funzione solo ed esclusivamente correlata al legame fiduciario, o di fratellanza o tantomeno di genitorialità. Un sistema politico che non ha criteri di reclutamento oggettivi, fondati sul merito, legittimati dal consenso sociale, allora è un sistema con un forte deficit democratico: quella che giornalisticamente chiamiamo “la Casta” e che ha a che vedere con la mancata circolazione delle élite (Pareto) o per meglio dire, con una società priva di mobilità, è il vizio storico della nostra democrazia rappresentativa.

L’esigenza emersa negli ultimi quattro anni di una maggiore partecipazione dei cittadini alla vita politica tende ad evolversi in una volontà di essere attori del sistema politico proprio in quanto cittadini. I sostenitori del modello della e-democracy, di una forma di democrazia diretta che impiega la tecnologia del web per smettere di essere utopia, ritengono che dalla sostituzione delle istituzioni rappresentative con l’agorà virtuale sempre connessa possa scaturire solo del bene. La Casta è individuata negli occupanti del sistema politico, che amministrano per nome e per conto di interessi di parte. La legittimazione del voto popolare non è più sufficiente. Essi reclamano che il “deputato” sia completamente assoggettato alla volontà del gruppo di elettori di riferimento. Tramite il mandato imperativo, essi trasformano il deputato in un mero portavoce, un incaricato che esprime la volontà altrui raccolta con una sorta di plebiscito quotidiano. Il cittadino è “cittadino totale”, pienamente politico. La sfera pubblica è primaria e coinvolge tutto. La sfera privata smette di esistere in questa estrema pubblicizzazione dell’io. L’individuo non ha senso di essere nel mondo ipersociale della iperdemocrazia (M. Prospero, l’Unità 01/06/12): esso è immerso nella rete virtuale dei rapporti sociali, costantemente sotto la luce del pubblico poiché osservato e monitorato; dalla téchne del web 2.0, dai “netizen” concittadini dell’agorà virtuale, da sé stesso.

In questo contesto l’individualità non ha senso di esistere. La libertà di non essere connessi, di non essere avvinti nella trama della Rete, la libertà di non essere “politico”, non è permessa. Devi avere un’opinione. Devi esprimere un voto. La macchina della iperdemocrazia è obbligata ad alimentarsi con la perpetua deliberazione pubblica. Il tuo voto può essere il voto decisivo. In quanto produttore di opinione e di voti, servi alla macchina e non puoi essere escluso. In questo senso, l’iperdemocrazia è alla stregua di una ideologia totalitaria “che sussume e cancella gli individui e gli eventi particolari, il rilievo dato alla singolarità e alle differenze” (S. Forti, 1994).

Perché proponiamo alla nostra società bloccata, in deficit democratico, guidata da élite vecchie e maleodoranti e che pretendono di essere insostituibili, di passare all’estremità opposta di una democratizzazione assoluta e totalitaria? Perché dimentichiamo la politica della libertà? La necessità di riaffermare l’interesse pubblico rispetto alla ingerenza della sfera privata, che in Italia negli ultimi diciassette anni ha di fatto privatizzato il pubblico, non può passare dalla erosione della sfera delle libertà individuali. Il meccanismo della democrazia diretta può funzionare soltanto come elemento di un sistema che è per forza rappresentativo, non potendo prescindere dal problema della complessità delle società di massa. I corpi intermedi sono i principali responsabili della malattia che si chiama “Casta” e che in un primo momento era etichettata come “berlusconismo”. Essi sono “i guardiani” (o gatekeepers) del sistema politico. Presiedono al sistema democratico senza essere democratici. Obbligare partiti e sindacati ad avere regole democratiche di selezione delle classi dirigenti potrebbe essere la giusta proposta di riforma per questo paese. In tal modo non si rischierebbe nessuna deriva iperdemocratica, ma più semplicemente si provvede ad aggiustare il deficit attuale aprendo le porte alla società civile (e così smontando il grumo di posizioni dominanti che la caratterizza). Non che sia sufficiente promuovere e organizzare liste elettorali fittizie di candidati superstar (come nel caso della lista Scalfari/La Repubblica). Un partito politico deve essere esso stesso permeabile alla società: dalla definizione delle cariche organizzative interne, alla definizione delle politiche. Non può essere cooptato da interessi particolari, ma deve consentire alla competizione delle opinioni in un quadro di libertà comunicativa e partecipativa. Perché è possibile non essere interessati alla vita pubblica, è possibile essere ripiegati completamente nell’ombra della sfera privata; è possibile, in definitiva, esser sé stessi, e scegliere da chi esser visti (e giudicati).

Internet batte televisione 4 (sì) a 0. Ma ora liberiamoci da Facebook

Miguel Mora su El Pais commenta il voto di domenica prendendo spunto da quel video parodia di ‘L’aereo più pazzo del mondo’. In volo sull’oceano, i berluscones di ritorno dal soggiorno di Antigua vengono avvisati dell’esito dei referendum. Hanno abolito il legittimo impedimento, dice l’hostess ai passeggeri. E scatta l’isteria. La “Primavera dei Cittadini”, scrive Mora, “è sorta e si espande ogni giorno attraverso internet”. Esattamente come sulla riva sud del Mediterraneo, ma in una forma più pacifica e ricorrendo più all’ironia e alla satira che alla rabbia, il territorio infinito senza censura della Rete sembra aver giocato un ruolo chiave nel nuovo vento politico che sferza l’Italia.

Ma sembra chiaro che il problema è che la destra italiana non è a conoscenza del crescente potere di Internet. Che le nuove tecnologie non sono il punto di forza del suo leader è emerso pochi giorni prima del voto, quando ha detto che qualcuno gli aveva passato una “cassetta” per vedere un programma che aveva perso. “Possibile che un primo ministro e magnate dei media del XXI secolo ignorari che il DVD è stato inventato nel 1995, proprio l’anno in cui l’ultimo referendum in Italia ha vinto il quorum? Sembra improbabile, ma il fatto è che il referendum è stata una sconfitta finale non solo per il governo, ma anche per l’ambiente in cui Berlusconi è stato un mago (Miguel Mora, El Pais).

Così sembra. Il voto ha testimoniato il cambio di paradigma mediatico: non più l’oligarchia televisiva, che esclude e impone i piani argomentativi alla discussione pubblica, di cui è rimasto celebre il caso della violenza contro una donna a Roma poche settimane prima del voto del 2006, fatto che infiammò il dibattito televisivo contro l’immigrazione clandestina e fece emergere un clima di paura convogliato dai media di casa Berlusconi verso Lega e PdL; tanto per rinfrescarvi la memoria, quelle elezioni politiche furono poi vinte ugualmente dal centrosinistra ma Berlusconi riuscì nell’impresa di recuperare a Prodi almeno 8 punti percentuali. Quel caso ha rappresentato l’apice della forza persuasiva della televisione. I fatti criminosi compiuti nel paese erano in calo, ma la percezione delle persone era di un aumento. Si viveva un’emergenza che non c’era, indotta dalla suggestione televisiva che ogni giorno riproduceva quel fatto all’infinito, trasmettendo le immagini di retate, di sgomberi di campi Rom, parlando di tolleranza zero e di ergastoli e di pena di morte.

No, quel tempo è finito. Così sembra. Al posto della tv, una discussione eterodiretta che si autoalimenta grazie al contributo di tutti, senza necessità di conduttori o di presentatori, di opinionisti o di registi. Si afferma l’argomento prevalente in un susseguirsi di piani argomentativi in libera competizione fra loro. Questo è consentito da un mezzo straordinario che è la rete, essa stessa piano altro in cui l’individuo si dispiega in una multipolarità di voci che altrimenti gli sarebbero negate. Se l’azione dell’individuo non è più direttamente coercita se non in casi eccezionali stabiliti dalla legge, la parola era (ed è) fortemente compromessa, sottaciuta, senza alcuna rappresentanza nel teatro degli specchi che va in onda ogni giorno nello schermo televisivo. Internet sembra restituire all’individuo la parola, e al contempo gli riassegna lo status di cittadino, ovvero di individuo partecipe alla vita della polis.

Ho usato il termine sembra perché neppure Internet è priva del rischio oligarchico. Anzi: la sua tecnologia è talmente complessa da creare sistemi che sfuggono alle parole che possediamo. Per esempio: lo spazio di Internet è pubblico o privato? Se la discussione è politica, allora Internet diventa condizione propedeutica alla discussione pubblica. Diventa naturale considerarlo un diritto poiché nel web l’individuo si esprime e esprimersi è una delle libertà civili fondanti della modernità. Peccato che tutto ciò avvenga a casa di Zuckerberg. Rendetevene conto: abbiamo lottato per sconfiggere il demone televisivo, per poter contare, per poter fare prevalere l’interesse pubblico contro quello privato. Lo abbiamo fatto attraverso un social network che è estremamente inclusivo ma che è privato. Facebook non è un bene comune, non è nostro: ho una pagina a casa di Zuckeberg. Zuckerberg detiene il mio profilo di utente di Facebook. Di fatto mi controlla. E controlla tutti noi. Controlla l’informazione che passa attraverso il suo social network. Volendo, la potrebbe condizionare. Potrebbe far prevalere un argomento piuttosto che un altro. Esattamente come il media televisivo, ma in maniera ancor più subdola. E globale. Un mostro ben peggiore della nostra piccola videocrazia.

Facebook, il McDonald’s del social networking (segnalazione de Il Nichilista).

Il de profundis di Pansa e Ferrara per Berlusconi

Non basta rievocare tutto il passato per deglutire il rospaccio della sconfitta di domenica scorsa. Tutti i pennivendoli della Casa Madre stanno alzando le mani dinanzi alla strategia suicida del duo Sallusti-Santanché che guida l’armata milanese dei Moratti e dei Lassini.

I segni della crisi cominciano a percolare anche sulla superficie uniforme de Il Giornale. Oggi Giuliano Ferrara si è lasciato andare ad uno sconsolante editoriale in cui dice apertamente che la strada intrapresa è sbagliata e che non ci sono parole a sufficienza perdescrivere il disagio:

se la strada è quella dell’invadenza arrogante a reti unificate, del monologo che umilia gli interlocutori e gli elet­tori, del semplicismo e del ba­by talk arrangiato, sciatto, po­veramente regressivo, mi man­ca il fiato […] Perché farsi del male con parole d’ordine primitive, giocando irrespon­sabilmente la carta dei cosid­detti «valori conservatori» in una offensiva lanciata da gen­te di governo contro «gay e drogati», una caricatura del motto Dio-patria-e-fami­glia, quando quella carta è sempre stata pudicamente scartata quando si doveva giocarla con sensibilità e in­telligenza nelle occasioni giu­ste e per motivi giusti? […] Vedo in questa deriva la vit­toria dell’avversario di tutti questi anni, e di quello più in­carognito e miserabile. Farsi simili alla caricatura che il ne­mico fa di te è il peggiore erro­re possibile per un leader po­litico. È l’errore che può ca­gionare «l’ultima ruina sua», che lo isola con le tifoserie, che ne avvilisce l’indipen­denza intellettuale e di tono, la credibilità personale (Giuliano Ferrara per Il Giornale).

Insomma, si sente puzza di sconfitta. Una sconfitta inaspettata che sta gettando nel panico e inducendo agli errori più stupidi, come cedere alla violenza e alla caricatura della violenza. Gli argomenti per spiegare ai lettori del centrodestra la disfatta sono esauriti. Lo confessa candidamente Vittorio Feltri, in risposta al fondo di Giampaolo Pansa, su Libero. “Mi piacerebbe avere degli argomenti per ribattere punto su punto a Giampaolo Pansa”, scrive l’inventore del metodo Boffo, “ma ho solo una lunga lista di attenuanti” (L’editoriale – Libero, Vittorio Feltri – Libero-News.it). La sconfitta parte proprio da qui: dalla mancanza di parole. Anche la difficoltà nel descrivere quel che accade è testimonianza di una povertà che è prima di tutto lessicale e ideale. Pansa torna ad evocare il 25 Luglio 1943, data in cui il Gran Consiglio del Fascismo dimissionò il Duce. Pansa sbaglia. Il voto di Milano non produrrà un altro Piazzale Loreto. Tanto più che i milanesi si accingono ad esercitare il loro diritto di autodeterminare il governo cittadino. Nulla di più pacifico. Metaforicamente, è vero, la sconfitta milanese, se mai avverrà, equivale come portata storica a una Caporetto. Una Waterloo. Il nostro Napoleone cadrà alla campagna di Russia. Ma non c’è da sorprendersi, basterebbe saper perdere. E riconoscere che è giunto il tempo per farsi da parte:

Berlusconi è il più anziano tra i tanti capi di governo europei. Alla fine di settembre compirà 75 anni, che non sono pochi anche per uomo energico e di grande vitalità come è lui […] La forza fisica diminuisce. La lucidità si appanna. C’è chi diventa apatico e chi litigioso, condizioni entrambe rischiose […] la domanda da fare è un’altra: che centro-destra può essere quello guidato da un uomo che si ostina a ritenersi indispensabile […] Anche se gli eredi giusti esistono, a cominciare da Giulio Tremonti. Berlusconi non vuole sentirne parlare. Ma allora non resta che il bunker, l’ultima ridotta, la trincea della disperazione. Sono tutte vie di fuga suicide, come ci dimostra la storia. Nel bunker non si vive, si sopravvive. Soprattutto in una fase delle vicende mondiali dove tutto muta con la velocità della luce […] Mentre la Prima Repubblica stava agli sgoccioli, un politico di insuperabile cinismo, Giulio Andreotti, a proposito di un suo ennesimo governo disse: “Meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Era diventato il motto di quell’epoca. Sappiamo tutti come è finita (Giampaolo Pansa, Milano o Napoli, importa poco o nulla: Silvio è cotto e la colpa è soltanto sua  Libero-News.it).

Non è solo una questione anagrafica. E’ chiaro a tutti che è finita. Lo sa anche lui. Sa che il suo tempo è arrivato. Ma non ci pensa un secondo di lasciare. Andrà a fondo e la colpa sarà soltanto sua.

Maria Nadotti e le donne che vanno alla Crociata

L’appello “Se non ora, quando?” a firma di donne illustri della politica, della letteratura, del giornalismo è passato oggi sotto il vaglio critico di Maria Nadotti (1) sulle colonne del Corriere della Sera. Il complesso argomentativo messo in campo dalla Nadotti manda in pezzi un testo che dovrebbe far elevare gli animi e spingere alla mobilitazione. Ma perché la Nadotti dice ‘No’ alla Crociata? Perché a suo modo si mobilita denunciando tutto lo sdegno che sorge dalla lettura di questo appello? Il fine di questo suo intervento non è sabotare l’iniziativa del 13 Febbraio, bensì quello di renderla più trasparente, “meno ecumenica”, “più situata”. E la critica di Nadotti prende spunto già dall’incipit dell’appello rivolto alle “Italiane” (e gli italiani, sono forse immuni da tanto fango? e le straniere?), ovvero quella ‘maggioranza’ di donne che lavora dentro e fuori casa, crea ricchezza, cerca lavoro, studia ecc., “il vecchio angelo del focolare ammodernato”, l'”acrobata del quotidiano” tutta “produzione e riproduzione”, figlia-madre-moglie, che è “sacrificalmente” presente sulla scena pubblica in quanto tesserata di un partito o di un sindacato. Insomma, un ritratto a tinta unica, privo di sfumature che pure nella realtà esistono, poiché è assolutamente possibile immaginare una donna che ha invece “sviluppato altre strategie”, o sogni o desideri o semplicemente più astuta e abile a profittare delle situazioni. Viene proposta un’immagine bidimensionale delle donne, quelle donne “che hanno costruito l’unità nazionale”: poco conta se nell’arco di questi 150 anni possano aver avuto un ruolo complice e servile in vicende non proprio democratiche. La donna destinataria dell’appello è una sola. Tutte e altre donne, che non sono lavoratrici o non sono madri o sono implicate in destini infami, sono semplicemente messe dall’altro campo. Da una parte le donne “sacrificali”, che vanno a letto presto; dall’altra le vestali del Re, inquinate sino al midollo, non-donne – in quanto oggetto – prive delle dignità, quindi da osteggiare e da combattere.

Ecco, Nadotti rifiuta tutto ciò. Rifiuta che delle donne siano messe da una parte e altre dall’altra. Rifiuta l’idea semplificatoria che ci sia una figura di donna giusta e una ingiusta, che non ha alcun diritto d’asilo in questo mondo.

(1) Giornalista, saggista, consulente editoriale e traduttrice, Maria Nadotti scrive di teatro, cinema, arte e cultura per testate italiane e estere tra cui “Il Secolo XIX”, “Il Sole 24 Ore”, “La Repubblica Donne”, “Lo Straniero”, “L’Indice”. Ha curato vari libri tra cui: Off Screen: Women and Film in Italy (New York 1988); Immagini allo schermo: La spettatrice e il cinema (Torino 1991); Elogio del margine: Razza, sesso e mercato culturale (Milano, 1998) e Il cinico non si addice a questo mestiere: Conversazioni sul buon giornalismo (Roma, 2000). Negli ultimi anni si è dedicata in particolare alla cura e diffusione di opere letterarie e saggi utili a far luce sulla questione palestino-israeliana, tra cui: Edward W. Said, Fine del processo di pace, (2002); Suad Amiry, Sharon e mia suocera (2003) e Se questa è vita (2005); Jamil Hilal e Ilan Pappe, Parlare con il nemico (2004); Michel Khleifi e Eyal Sivan, Route 181: Frammenti di un viaggio in Palestina-Israele (2004). Ha inoltre ideato e organizzato vari eventi culturali e artistici utili a fare da ponte tra Italia e Palestina-Israele: dalla tournée dello spettacolo Guerra della Compagnia Pippo Delbono a Betlemme, Ramallah, Gerusalemme, Nazareth e Haifa, a una serie di seminari sullo story-telling affidati a grandi maestri della narrazione contemporanea (John Berger, Ryszard Kapuscinski, Svetlana Alexievitch…) e rivolti a scrittori, filmmaker, fotografi e artisti attivi nei territori occupati.