In Sicilia pronto il cartello delle Destre con Musumeci

La grande partita delle elezioni regionali siciliane diventa ogni giorno che passa sempre più ingarbugliata. Se a sinistra si è consolidata la rottura palermitana fra Idv-SeL e PD tanto che non è ancor chiaro – e forse non lo sarà mai – se si faranno primarie di coalizione per decidere fra Claudio Fava (SeL) e Rosario Crocetta (PD), a destra si sta ricompattando un cartello di partiti con vertice il PdL di Berlusconi.

In sostanza, il PdL dovrebbe fare da perno intorno alla triade di agglomerati personalistici che rispondono al nome del Mpa di Lombardo, governatore uscente, ex alleato di Berlusconi, poi al governo della Sicilia con il sostengo esterno del PD in una sorta di rievocazione storica del milazzismo; del Grande Sud di Gianfranco Micciché, ex Publitalia e Forza Italia, un berlusconiano della prima ora, poi a lungo dissidente ma per finta; e soprattutto del Pid, micropartito di Saverio Romano, ex DC e UDC, creatura di Calogero Mannino. Romano fece parte di quel gruppo di deputati che uscì dall’opposizione durante la prima delle campagne acquisti dell’ultimo governo Berlusconi, quando a fine Settembre 2010 la dipartita dei finiani sembrava dovesse metter fine anzitempo alla XVI legislatura, fatto per il quale si “guadagnò” la carica di ministro dell’Agricoltura conferitagli da Berlusconi a Marzo 2011. I quattro partiti si dovrebbero coalizzare e avere come candidato alla presidenza Nello Musumeci, ex missino, poi La Destra, grande collettore di preferenze in quel di Catania.

Inutile dire che i personaggi in opera sono quanto di più becero la politica siciliana ha prodotto in questi anni. Lombardo è un campione di trasformismo, sia nell’isola che a Roma; Micciché è un prodotto di Berlusconi, un disturbatore; la sua lista, Forza Sud o Grande Sud è una specie di Forza Italia in piccolo. Più che un dissidente di Berlusconi pare esserne la testa di ponte, l’avanguardista per eccellenza, colui che sperimenta forme partitiche per permettere al Cavaliere di tessere fittissime trame nascoste a Palermo come a Roma. Romano è invece il soggetto che mantiene in essere una sorta di continuità con il passato, con una specifica corrente DC, quella appunto di Mannino, fortemente correlata con un certo “tessuto connettivo” prettamente siciliano che sappiano essere alquanto torbido e intrinsecamente colluso con gli affari criminali mafiosi.

Questa analisi dovrebbe suggerire una sola conclusione: ovvero che il PdL – e quindi Berlusconi – mantiene ben saldo il rapporto con un certo ambiente. Quel rapporto che è forse alla base delle fortune del suo presidente, certamente delle sue televisioni e di quel partito-azienda che creò dal nulla nel 1994.

Sentenza Dell’Utri: i passi salienti sul pentito Spatuzza. Nessun diritto alla protezione

La sentenza di appello Dell’Utri ha messo in forte pregiudizio la credibilità del pentito Gaspare Spatuzza, il manovale delle stragi, l’uomo che rubò la cinquecento di Via D’Amelio e la caricò di tritolo, l’uomo che afferma di aver visto in quei frangenti, ovvero mentre imbottiva la vettura che ha ucciso Borsellino di esplosivo, un agente dei servizi segreti, individuato con estrema difficoltà nell’agente Sisde Narracci. Ebbene, i giudici della Corte di Appello di Palermo hanno tracciato uno schema argomentativo che critica l’uso delle dichiarazioni di Spatuzza e ne pone in evidenza due aspetti fondamentali che ne inficiano la veridicità:

  • la limitata se non insussistente consistenza nonché la manifesta genericità;
  • la colpevole tardività.

La genericità delle accuse di Spatuzza:

  1. [Incontro al Bar Doney di Roma con Graviano] fino a quel momento non aveva mai sentito neppure nominare Dell’Utri che pertanto era – e rimase – un perfetto sconosciuto non avendo chiesto alcunchè al suo interlocutore (pag.55: “PM: … All’epoca aveva mai sentito nominare l’odierno imputato Dell’Utri ? Spatuzza: No, no, mai. PM: E non chiese nulla a Graviano Giuseppe, <<ma chi è questo Dell’Utri>> ? Spatuzza: No, questo non lo chiesi”)
  2. anni dopo i fatti riferiti, nel 1999, mentre si trovava detenuto al carcere di Tolmezzo con i fratelli Graviano, aveva avuto modo di commentare con Filippo Graviano i discorsi che in quel periodo circolavano tra i carcerati riguardo ad una possibile dissociazione da cosa nostra […] Nell’occasione Flippo Graviano gli aveva fatto capire che la cosa non
    poteva interessare perché i magistrati non potevano dare nulla mentre “tutto deve arrivare dalla politica”
  3. richiesto di chiarire se egli avesse capito il senso di questa frase e da dove sarebbe dovuto arrivare qualcosa, Gaspare Spatuzza ha riferito che, sulla base delle parole pronunciate da Flippo Graviano, egli aveva subito capito che si riferiva a quanto egli aveva sentito dire nel colloquio del bar Doney ormai quasi 11 anni prima;
  4. frutto solo di una mera deduzione non avendo egli, dopo le poche criptiche parole di Filippo Graviano, rivolto alcuna domanda al suo interlocutore con il quale peraltro ha espressamente escluso di avere parlato, in questa o in altre occasioni, di Berlusconi o Dell’Utri, né soprattutto dell’incontro del bar Doney con il di lui fratello Giuseppe
  5. Spatuzza ha infatti dichiarato che non rivolse alcuna ulteriore domanda al Graviano, né al bar Doney, nè in auto durante il successivo viaggio da Roma a Torvaianica e ritorno, per cercare di comprendere a cosa il capomafia di Brancaccio facesse riferimento e quali fossero soprattutto i fatti che legittimavano una tale “euforica” convinzione.
  6. la pretesa euforia che animava il capomafia di Brancaccio per avere ormai “il paese nelle mani” grazie alla serietà delle persone che ciò avevano voluto e consentito, era destinata a svanire subito se proprio quello stesso Giuseppe Graviano, appena qualche giorno dopo quelle tanto entusiastiche quanto infondate previsioni, è stato arrestato a Milano assieme al fratello Filippo

La tardività delle dichiarazioni ai pm

  • oggettivo ed ingiustificato ritardo con cui i pochi fatti riferiti alla Corte erano stati dallo Spatuzza portati a conoscenza dell’A.G. nel corso delle indagini, ben oltre il termine dei 180 giorni che la legge sui collaboratori impone per riferire le notizie relative ai “fatti di maggiore gravità ed allarme sociale”
  • da quando ha formalmente manifestato l’intenzione di collaborare il 26 giugno 2008 […] Gaspare Spatuzza ha dolosamente taciuto quanto egli ha poi affermato di sapere riguardo all’incontro del bar Doney e soprattuto alla grave confidenza ricevuta da Giuseppe Graviano sul conto dell’odierno imputato e di Silvio Berlusconi
  • ha cercato in vario modo di spiegare l’evidente omissione affermando di non averne parlato volutamente in quanto si era espressamente “riservato” di farlo solo nel momento in cui gli fosse stato accordato il programma di protezione, dunque in palese violazione comunque della legge
  • lo Spatuzza vuol accreditare l’insostenibile tesi secondo cui, parlando di tabelloni pubblicitari e dei Graviano, egli aveva già effettuato un riferimento, non esplicito ma sottinteso, a Marcello Dell’Utri che sarebbe stato agevole rinvenire analizzando i pretesi “indizi” da lui “seminati”

La menzogna

  • già a novembre del 2008 lo Spatuzza aveva fatto il nome di Silvio Berlusconi, rivelandosi dunque falsa l’affermazione fatta alla Corte secondo cui egli prima del giugno 2009 non aveva voluto parlare dei politici […] Il verbale è quello del 9 luglio 2008, siamo ancora a ben … un anno quasi, prima del 16 giugno 2009, quando … pag.14 del verbale riassuntivo, a domanda risponde, parlando dell’episodio dell’incontro di Campofelice di Roccella [con i Graviano], a domada risponde: <<Né nel corso del colloquio a Campofelice di Roccella, né in altre circostanze, Graviano Giuseppe mi ha mai precisato chi o quali fossero i suoi eventuali contatti>>

Conclusioni:

  • Nel caso in esame deve ritenersi provato oltre ogni possibile dubbio che Gaspare Spatuzza ha volontariamente taciuto “notizie e informazioni processualmente utilizzabili su … fatti o situazioni … di particolare gravità” che erano a sua conoscenza attestando invece formalmente il contrario in seno al “verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione” da lui sottoscritto, condotta da cui deriva, secondo l’inequivoco contenuto della legge sopra richiamato, il divieto di concessione delle misure di protezione ovvero, se già accordate, la loro revoca

Ma la tardività delle dichiarazioni di Spatuzza può essere presa come fattore di pregiudizio della veridicità delle stesse? Forse Spatuzza ha difettato di precisione. Si è rivelato essere poco informato, anche in virtù del fatto che era più che altro un manovale della mafia, un assassino specializzato in stragi. Tant’è che lui non conosce nemmeno Dell’Utri e deve chiedere a Graviano se quel Berlusconi fosse veramente quello di Canale 5. La vaghezza delle sue rivelazioni è legata alla sua posizione gerarchica in Cosa Nostra: egli sa, ma non conosce. L’episodio del cartello pubblicitario da abbattere, che lui verifica su indicazione di Graviano esser stato realmente abbattuto, lui lo riconduce a Dell’Utri soltanto in quanto il Dell’Utri era ai vertici di Publitalia, ergo interessato di pubblicità. Eppure analisi e retroanalisi giornalistiche avevano costruito ipotesi su quel cartellone pubblicitario che interessava Dell’Utri: si era detto che fosse il cartellone pubblicitario del primo esperimento politico di Dell’Utri medesimo, quel Forza Italia! Sicilia Libera che forse nei progetti doveva essere il referral politico di Provenzano, di chiara impronta regionalista e secessionista, l’alter ego della Lega Nord, e che invece divenne un partito nazionale destinato a governare (con alcune brevi parentesi) il paese per i susseguenti quindici anni.

E qui ritorna l’intervista, ripresa da questo blog, a Calogero Mannino: Mannino, forse per primo, negò che le stragi fossero soltanto opera della mafia – Riina non ne è capace, disse; ipotizzò l’esistenza di un piano militare e di uno politico-finanziario; legò la fase di destabilizzazione del 1992-93 all’esistenza di un vuoto politico “da riempire”. E guarda caso, già nel 1992, come spiegava Ezio Carlo Cartotto – ex manager Fininvest – ai pm Tescaroli, Gozzo e Palma in due deposizioni datate Giugno 1997:

Nel maggio-giugno 1992 sono stato contattato da Marcello Dell’Utri perché lo stesso voleva coinvolgermi in un progetto da lui caldeggiato. In particolare Dell’Utri sosteneva la necessità che, di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo Fininvest, il gruppo stesso “entrasse in politica” per evitare che una affermazione delle sinistre potesse portare prima ad un ostracismo e poi a gravi difficoltà per il gruppo Berlusconi (L’Odore dei Soldi, di Elio Veltri e Marco Travaglio, Origini e misteri delle fortune di Silvio Berlusconi, Editori Riuniti).

Dell’Utri inaugura il progetto nel maggio-giugno 1992. Il “crollo degli ordinari referenti politici del gruppo” per opera dell’inchiesta Mani Pulite era appena avviato. Nessuno allora poteva ipotizzare che la DC e il PSI sarebbero scomparsi. Fino all’aprile 1992, Mario Chiesa era un semplice “mariuolo” (definizione che fu di Craxi); Falcone sarebbe saltato in aria a Maggio, durante il voto per il Presidente della Repubblica (una congiura della mafia/massoneria contro Andreotti?); Borsellino venne ucciso a Luglio. Mentre accadeva questo, Dell’Utri operava per creare un contenitore politico a beneficio degli interessi di Fininvest, contro l’ascesa delle Sinistre, ritenute un pericolo per l’azienda. A settembre 1992 si tenne la convention dei manager Fininvest a Montecarlo, nel corso della quale Berlusconi fece il suo primo discorso politico: “I nostri amici che ci aiutavano, contano sempre di meno; i nostri nemici contano sempre di più; dobbiamo prepararci a qualsiasi evenienza per combatterli” (rivelando una indiscussa propensione per le categorie amico-nemico, ritenute dalla politologia contemporanea come il fondamento della guerra, del conflitto e della divisione, più che della politica). Poi le stragi del ’93, la guerra del Sisde che voleva decapitare lo Stato, la preparazione di nuove elezioni e il vox populi sul nuovo partito-azienda di Berlusconi. Tutto in una precisa scansione temporale che per ora è possibile solo definire come “coincidenza”.

In ultima istanza, resta estremamente critica l’interpretazione data dalla Corte d’Appello di Palermo circa la delusione dei mafiosi per le aspettative riversate nel partito Forza Italia, in virtù delle posizioni garantiste manifestate in campagna elettorale, andate invece deluse:

Deve tuttavia registrarsi, all’esito dell’esame delle dichiarazioni di Maurizio Di Gati, che comunque anche da tale collaboratore proviene la conferma del fatto che in cosa nostra, pur dopo l’impegno sostenuto a favore di Forza Italia nel 1994 (senza che il collaborante sia a conoscenza di pretese garanzie ed impegni dati in cambio del sostegno elettorale: pag.21 esame), erano diffusi alla fine degli anni ’90 i malumori degli uomini d’onore che, a fronte di sperati ed attesi interventi legislativi di favore da parte del governo di “centro-destra”, si ritrovavano invece a subire una legislazione sempre più sfavorevole come nel caso della trasformazione in legge del regime detentivo del 41 bis (pag.13 esame: “La lamentela nostra è stata, come abbiamo votato tutti per fare salire il Centro-Destra, e adesso ci stanno mettendo il 41 bis? Ce lo stanno confermando come legge ? La promessa era che il 41 bis veniva, anche se veniva confermato come legge, veniva più agevolato nel senso del regime carcerario”).
Emerge dunque con evidenza che si cominciò a diffondere tra gli appartenenti all’associazione mafiosa una crescente delusione perché le aspettative di una legislazione che si riteneva sarebbe stata più favorevole da parte di un governo di “centro-destra”, fondate o meno che fossero su pretesi ma in realtà non provati impegni specifici assunti da esponenti politici e soprattutto, per quel che qui interessa, dall’imputato Marcello Dell’Utri, risultavano del tutto smentite dalla constatazione oggettiva di un progressivo inasprimento dell’azione di contrasto alla mafia che lo Stato e le sue articolazioni istituzionali, al di là delle contingenti e mutevoli maggioranze di governo, hanno voluto e saputo complessivamente e costantemente realizzare (Sentenza d’Appello Processo Del’Utri, p. 516).

La domanda è la seguente: può un Tribunale, una Corte d’Appello dare una valutazione della politica in fatto di antimafia di un governo? la constatazione oggettiva è tale poiché proviene dall’interno di Cosa Nostra? Ma non è una mera deduzione, questa?

Stragi del 1993, quando Mannino ipotizzava la mano dei Servizi Segreti

Il 27 Maggio 1993 avvenne l’attentato di Via Dei Georgofili. Cinque furono i morti. Il giorno dopo sui giornali compaiono le dichiarazioni dei politici, del Presidente del Consiglio, Ciampi, del Presidente della Repubblica Scalfaro, del Ministro degli Interni Mancino. Il quale, in una maniera un po’ enigmatica, giunge a ipotizzare la mano della mafia dietro alla strage. Perché, incalzano i giornalisti. E lui, sibillino: “chi capisce quello che è successo qui, capisce l’Italia”.

La Stampa, 28.05.1993, prima pagina

Senza indugi, Mancino dice chiaramente, qualche ora dopo l’attentato, che si tratta dell’opera della mafia. La mafia vorrebbe sviare l’attenzione da “quanto sta accadendo a Palermo e ovunque operi la criminalità organizzata, perché la mafia è dappertutto”. Mentre invece Piero Luigi Vigna dubita di questa ricostruzione: parla di “strategia terrorizzante” più che di mafia. La strage verrà poi rivendicata dal sedicente gruppo chiamato Falange Armata. Lo stesso giorno, l’inchiesta sulla strage di Via D’Amelio fa un grosso passo in avanti: viene arrestato Pietro Scotto, il telefonista di Via D’Amelio secondo la ricostruzione fasulla della prima inchiesta dei giudici di Caltanissetta, quella realizzata con la regia occulta di Arnaldo La Barbera e forse di Giovanni Tinebra. Una coincidenza che solo oggi possiamo considerare “strana”.

Accanto alle dichiarazioni di Mancino, la Stampa pubblicò una intervista all’esponente della DC siciliana Calogero Mannino, ai tempi un pezzo forte della politica italiana, avversario della corrente andreottiana che fu di Salvo Lima. La sua e quella di Vigna erano le uniche voci discordanti rispetto alla ricostruzione ufficiale fatta dal Ministro Mancino. Il giorno dopo, Mancino già sapeva che si trattava di mafia. Oggi sappiamo della trattativa Stato-Mafia, sappiamo dell’esistenza di mandati occulti, dell’esistenza di un livello militare stragista e di un livello politico e finanziario che finora non è stato svelato. Mannino, a sua volta accusato di mafia dai pentiti e assolto solo dopo una travagliatissima battaglia giudiziaria, a quel tempo indicò prima di altri l’evidenza di una sproporzione fra le capacità di Riina e la devastazione provocata dall’esplosione in Via Dei Georgofili. Le sue parole, raccolte da un allora promettente abile cronista di nome Augusto Minzolini, acquistano oggi una valenza diversa, quasi profetica:

Mannino: ma quali boss

«Il complotto viene dall’Est Riina non ne avrebbe le capacità»

ROMA. «E adesso non mi vengano a dire che questa bomba l’ha messa la mafia di Toto Riina. Anzi, a questo punto dubito anche sulla matrice mafiosa degli omicidi di Lima, Falcone e Borsellino». Seduto su una poltrona di Montecitorio, Calogero Mannino, ex-ministro dell’Agricoltura e primo attore della DC siciliana, si lascia andare ad un serie di congetture sulla bomba di Firenze. Sarà l’emozione per quello che è avvenuto, o, il fatto, di aver tenuto in corpo per tanti mesi questo sfogo, ma Mannino parla senza pausa e dalla sua bocca, come da un fiume in piena, esce di tutto.

Lei ha davvero dubbi sul fatto che non c’entri la mafia?

«Io dietro alla bomba di Firenze vedo ben altro. E, se non sbaglio, tra le minacce ricevute all’epoca da Falcone c’era anche quella della falange armata. La verità è che gli assassinii che ci sono stati in Sicilia hanno messo in ginocchio la DC o il sistema di potere andreottiano. E non è cosa da poco conto: in Italia quello che è avvenuto può essere paragonato alla caduta del muro nei Paesi comunisti. Quindi chi l’ha fatto deve avere degli obiettivi ben più grandi di quelli della mafia. Solo che dopo aver fatto fuori i partiti di governo, nessuno si è fatto avanti per prenderne il posto».

E allora?

«Proprio per questo si possono fare solo delle ipotesi su chi muove i fili dell’intera vicenda. Può esserci in atto, ad esempio, un’utilizzazione di servizi segretti deviati, ad opera di altri Paesi. O, ancora, bisogna vedere chi si muove dietro alla Serbia. Ed ancora, si dice che in Russia i comunisti si stanno riorganizzando e la stessa cosa sta facendo l’esercito. Infine bisogna fare un discorso un po’ più complesso sulla mafia…».

Si spieghi.

«Ma lei crede davvero che un personaggio come Toto Riina possa stare dietro a tutto questo? Suvvia, al massimo quello può fare ridere o, come succede a me, può far girare le scatole. La verità, secondo me, è che esiste un apparato militare molto efficiente e, poi, una mente politico-finanziaria, che non si trova certo in Italia. E questi due livelli si incontrano raramente: o meglio, nei momenti importanti la mente finanziaria ordina all’apparato militare quello che deve fare».

Ma lei crede davvero a queste sue ipotesi, non le paiono un po’ azzardate?

«Senta, le faccio una domanda: perché Giuliano i carabinieri lo hanno trovato morto, mentre Riina è stato trovato vivo? La verità è che Riina si è sganciato. Fatto il lavoro che gli era stato commissionato si è sganciato».

Ma quale interesse potrebbe avere quell’«entità» che, secondo lei, starebbe dietro a tutto questo?

«Non vogliono avere a che fare con un governo degno di questo nome. Quello attuale è come se non ci fosse. Sono passate due settimane e vedete, non esiste. E non avere a che fare con un governo significa tante cose: ad esempio da la possibilità di comprare i beni dello Stato a pochi soldi. E se, poi, si arrivasse a provocare una divisione dell’Italia in due, qualcuno potrebbe ricavarne altri vantaggi. Potrebbe, ad esempio, disporre senza problemi, di basi militari dell’Italia meridionale di grande importanza strategica, come Fontanarossa e Comiso. Sì, potrebbe usarle come vuole, a proprio piacimento, senza rischiare incidenti diplomatici con il governo italiano come è avvenuto a Sigonella. Le mie, comunque, sono solo ipotesi che partono, però, da una convinzione».

Quale?

«Tutto quello che sta avvenendo pone una questione: qualcuno insidia la nostra sovranità nazionale».

Secondo lei siamo a questo punto?

«Ci siamo e nessuno se ne rende conto. Ad esempio, i giudici hanno fatto il loro lavoro, diciamo che la loro è stata un’operazione chirurgica, ma adesso dovrebbero lasciare di nuovo il posto alla politica. E lo stesso problema dovrebbero porsi anche i pidiessini, insieme a noi devono porsi il problema di salvare il Paese. Fatto questo potrebbero governare loro».

Ma senta non è che le sue supposizioni nascono solo dalla voglia di far dimenticare quello che è avvenuto in questi mesi? Insomma, un tentativo di azzerare il tutto nel nome dell’emergenza?

«Non scherziamo. Io la politica la lascio. Guardi io ho già fatto un patto con mia moglie: io lascio, ma lei deve accettare di lasciare la Sicilia. Io non posso rimanere lì, perché so quello che ho fatto contro la mafia. Voglio andarmene, non all’estero, magari a Roma».

[Augusto Minzolini]