Fusione Hera-Acegas-Aps, il PD si spacca a Forlì. Chi fermerà il piano Passera?

Forlì resiste. Il consiglio comunale della città, a maggioranza di centro-sinistra, ha votato contro la fusione dell’azienda multiutility dell’Emilia-Romagna, Hera, con Acegas e Aps, aziende analoghe delle province di Padova e Rovigo. Thomas Casadei, consigliere regionale del PD e esponente politico della città di Forlì, ha così commentato, in aperto contrasto con l’orientamento del Partito in tutta la regione Emilia-Romagna, che la decisione assunta dal consiglio comunale di Forlì è di estrema importanza sul piano politico e anche simbolico.

Con questa decisione si chiede al patto di sindacato di sciogliere il nodo della governance pubblica di Hera. E’ infatti urgente risolvere le contraddizioni che si sono determinate tra la gestione dei servizi a mercato liberalizzato e la gestione dei servizi regolamentati. Altrettanto urgente è la definizione di una normativa per i servizi pubblici locali, che sia coerente con i quesiti referendari sui beni comuni del 2011, e che porti ad una gestione dei servizi priva di rilevanza economica. Per i servizi pubblici locali – questo il punto decisivo – l’interesse dei cittadini deve prevalere sulle logiche finanziarie (Thomas Casadei, pagina Fb).

Il dissenso interno al Partito Democratico è emerso anche a Modena, dove invece i democrats hanno interrotto i rapporti con Sel e IDV ed hanno votato per la fusione suscitando i malumori di alcuni consiglieri, fra tutti Giulia Morini, giovane e civatiana, attivista dei movimenti per l’Acqua Pubblica. “Esprimerò voto difforme da quello del mio partito. Sulla fusione Hera-Acegas il confronto con la città non è stato sufficiente e l’operazione non garantisce la qualità della governance”, ha detto Giulia.

In sostanza, la fusione creerà una super azienda che tratta rifiuti, forniture di acqua, di gas, di energia. Il progetto di fusione fa parte di un più generale disegno di integrazione e concentrazione delle imprese multiutility in due grossi monopoli, uno operante a nordovest, l’altro a nordest. I cardini normativi di questo disegno si possono rintracciare nei Decreti Sviluppo a firma Corrado Passera. La spartizione dei mercati acqua-gas-luce-rifiuti del nord dovrebbe avvenire con la fusione di A2a più Iren  e di Hera più Acegas.

La prima fusione ha subito degli intoppi, anche a causa delle resistenze di Tabacci, nella sua veste di assessore al bilancio di Milano (A2a è partecipata dai comuni lombardi di Milano e di Brescia ). Ma, a quanto pare, Passera ha trovato un eccellente alleato nel Pd emiliano-romagnolo. L’idea di Passera è quella di far uscire i comuni dal controllo delle multiutility per dare un limite all’ingerenza del potere politico nella gestione delle nomine ma, al tempo stesso, di creare delle super aziende appetibili sul mercato finanziario e quindi scalabili dai gruppi bancari. L’idea di Passera è semplice: prevede l’ingresso di nuovi soci nella superutility, in primis, la Cassa Depositi Prestiti (al fine di pubblicizzarne il debito), ma in subordine fondi di investimento che potrebbero prendere il posto dei Comuni. E così realizzare di fatto la privatizzazione dei servizi (che il referendum del 2011 aveva scongiurato) della gestione dell’acqua, dell’energia e della gestione dei rifiuti.

Il progetto cui sta lavorando il ministero dello Sviluppo economico porta la firma degli esperti di McKinsey. Non deve stupire visto che lo stesso Passera ha iniziato la sua carriera negli uffici milanesi della società di consulenza. E che al ministero ha scelto come direttore generale del settore energia un manager proprio di derivazione McKinsey. L’incarico ha prodotto un “dossier” che suggerisce un percorso in più tappe per arrivare alla costituzione della Rwe italiana. Secondo quanto è stato possibile ricostruire, il progetto parte inizialmente dalla fusione tra A2a e Iren. Le due società (controllate dai comuni di Milano e Brescia la prima, da Genova, Torino, Piacenza, Parma e Reggio la seconda) metterebbero assieme le loro attività industriali; aprendo poi il loro capitale alla Cassa Depositi e Prestiti in modo da abbattere parte dell’indebitamento. In un secondo momento, si arriverebbe alla superutility vera e propria, con l’aggregazione di Hera (Bologna, Ravenna, Modena e un’altra quarantina di comuni dell’Emila- Romagna) e Acegas-Aps (Padova e Trieste). A differenza di altri studi, il dossier McKinsey non prevede l’ingresso in scena di Acea, che resterebbe, al momento, isolata. Ma non è questa l’unica esclusione. Dall’aggregazione delle attività industriali delle utility non farebbero parte le reti (elettricità, gas e acqua): restano nel patrimonio dei Comuni azionisti, in cambio di una parte delle loro quote azionarie (Repubblica, 28/05/2012).

Naturalmente contrari alla fusione i 5 Stelle: “La fusione Hera S.p.A. con Acegas sembra proprio un trucco col quale ignorare e raggirare l’esito dei referendum sull’acqua, consentendo l’ingresso in massa dei privati nella super-multiutility. Il grimaldello sono un paio di modifiche agli articoli 7 e 26 dello Statuto”, ha scritto Giovanni Favia, consigliere regionale del Movimento 5 Stelle.

Sicurezza dopo il naufragio del Giglio? Con le trivellazioni off-shore a cinque miglia dalla costa

Insomma, freschi di naufragio, con una emergenza ancora in corso, un’emergenza che è anche ambientale con un rischio severo di sversamento di gasolio pesante sulle coste della Toscana, troviamo nel decreto legge sulle liberalizzazioni una serie di articoli che hanno lo scopo di rilanciare le trivellazioni e la ‘coltura’ di idrocarburi liquidi e gassosi nei nostri mari.  La bozza di decreto contiene all’articolo 21 una modificazione molto serie nelle regole di ricerca dei siti e nello stabilimento delle piattaforme. Ecco le modifiche proposte alla normativa vigente in materia:

Art 21 – (Modifiche al decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, in materia di promozione degli investimenti offshore)

2. All’articolo 6, comma 17, secondo e quarto periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, le parole “dodici miglia” sono sostituite con le parole “cinque miglia”.

3. All’articolo 6, comma 17, secondo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006 n. 152, le parole “linee di base” sono sostituite con le parole “linee di costa”.

Così il relatore spiega la necessità di questa norma:

Si vuole […] rendere possibili le attività di ricerca e prospezione di idrocarburi in una area più vicina alle coste senza compromettere l’ecosistema che è, in ogni caso, già protetto dalle stringenti normative nazionali di tutela ambientale. Il limite proposto delle 5 miglia appare adeguato a garantire la protezione ambientale rispetto alle attività di ricerca e prospezione salvaguardandone al contempo le ricadute economiche non solo per le imprese del settore ma anche per lo Stato e gli enti locali. Così come il riferimento alle linee di costa anziché alle linee di base rende omogeneo l’impianto della norma e ne garantisce un’applicazione parametrata a un dato fisico certo, le linee di costa, piuttosto che convenzionale e incerto, come le linee di base (bozza decreto liberalizzazioni.pdf).

Per comprendere, la linea di base “detta così in quanto base di partenza per la definizione delle acque interne e delle acque internazionali, si definisce una linea spezzata che unisce i punti notevoli della costa, mantenendosi generalmente in acque basse, ma laddove la costa sia particolarmente frastagliata o in casi in cui delle isole sono particolarmente vicine alla costa, la linea di base può tagliare e comprendere ampi tratti di mare” (Wikipedia, voce Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare). La linea di costa, invece, “è la linea di confine tra la terra e l’acqua di un bacino aperto come un oceano o un mare, o di un bacino chiuso come un lago o un fiume; questa linea può spostarsi in modo più o meno prevedibile e regolare a seconda del ritmo circadiano, mensile o stagionale del livello del mare” (Ulisse). Ora, se la matematica non è un’opinione, prima avevamo dodici miglia dalla linea di base, quindi non la costa, ma una linea ideale tracciata sulle carte marine e che può essere distante svariate centinaia di metri dalla costa medesima; ora avremo cinque miglia, meno della metà, misurate dalla costa, con avvicinamenti notevoli delle attività di ricerca e perforazione del fondale marino.

Forse Passera e soci hanno dimenticato la Bp e il disastro del Golfo del Messico. La questione, nella relazione allegata al decreto, è trattata da un punto di vista squisitamente economico:

I divieti imposti sfavoriscono il rimpiazzo della produzione nazionale di petrolio e gas naturale dei giacimenti maturi, che attualmente contribuisce a circa il 6% del fabbisogno nazionale di petrolio e gas. La produzione di idrocarburi in Italia assicura una strategica fonte di approvvigionamento di materie prime a fronte di una dipendenza estera del1’84%. Inoltre, la disposizione oggetto di modifica ha comportato i seguenti effetti:

  • riduzione degli investimenti in tecnologie e servizi forniti dalle imprese italiane con un crollo dei progetti in corso, stimabile in circa 3-4 miliardi di euro nei prossimi anni, con abbandono degli investimenti in corso sul territorio italiano da parte delle imprese italiane ed estere operanti nel settore (recente esempio la EXXON);
  • riduzione dei posti di lavoro nel settore stimabile in 65 mila addetti di cui 15 mila direttamente coinvolti nell’attività nazionale;
  • riduzione del 50% del gettito fiscale nell’arco di 3-4 anni, nel 2009 il solo settore E&P e per la sola attività in Italia (escludendo l’indotto), contribuisce alla fiscalità per oltre un miliardo e 200 milioni di euro l’anno comprensivo di royalties e canoni. Sono state stimate minori entrate fiscali a seguito della disposizione in oggetto per circa 600 milioni euro l’anno (bozza decreto liberalizzazioni, cit.).

Questa profonda discrasia fra il bene per l’economia e il bene dell’ambiente sembra già risolto, nelle parole del decreto. L’ambiente? Abbiamo già un sacco di aree protette. Ciò che resta possiamo devastarlo.

Lo Stato garante delle perdite delle Banche: gran festa a Piazza Affari

Eravamo sull’orlo del credit crunch, di una stetta creditizia che avrebbe acuito la crisi di liquidità, bloccato l’accesso al credito da parte delle imprese e affossato il paese in una spirale recessiva senza fine. Poi è arrivato Corrado Passera e in soli diciassette giorni di governo si inventa una norma, piccola piccola, ma sufficiente a rinviare l’Armageddon. Per carità, deisioni incontrovertibili, necessarie, urgenti, ineludibili, praticamente obbligatorie. Così da oggi lo Stato si è fatto garante delle perdite delle banche. In Borsa stanno ancora brindando a champagne.

La manovra Monti raccoglierà una cifra netta di circa 20 miliardi euro e guarda caso verrà istituito un fondo di garanzia per i prestiti che le banche concederanno alle imprese di circa 20 miliardi: quindi, senza fare troppi complicati conteggi, l’intero ammontare del cosiddetto decreto salva Italia verrà destinato alle banche (we-news).

Ora sulle cifre indicate nell’articolo citato non metterei la mano sul fuoco. Però quello che salta agli occhi è che le banche hanno avuto un trattamento – per così dire – preferenziale. Nessun governo populista, sia in stile Merkel che in stile Sarkozy, si sarebbe mai potuto permettere una norma del genere in un clima di ostilità verso il mondo della finanza come quello attuale. Di fatto il governo si è mostrato realista più del Re: ha accantonato qualsiasi valutazione di tipo etico sul mondo bancario ed ha di fatto rivalidato l’impianto sistemico finanziario al punto tale da considerare essenziale mettere lo Stato alle spalle delle banche italiane nonostante sia lo Stato sull’orlo della bancarotta.

Non parlerei di conflitto di interesse. Ci sarebbe conflitto laddove uno o più ministri avessero dei tornaconti in conseguenza di questa decisione. Invece no, credo proprio che Monti e soci credano ancora di trovare la soluzione alla crisi con la vecchia ricetta del mondo capitalista, quel mondo oggi sul punto di crollare, quello stupido mondo basato sulla finzione di terra, moneta e lavoro come merce. Delle tre, la moneta è quella che si regge solo sulla fiducia e la fiducia oggi nel mondo è persa. Dare garanzia alle banche significa fidarsi di esse. Lo ha fatto anche Obama, ed ora paga in moneta elettorale tutto lo scotto di quella non-decisione di non punire Wall Street quando era ora.