Dopo il Porcellum la tentazione perversa del proporzionale puro

Le motivazione della sentenza della Corte Costituzionale hanno posto definitivamente la parola fine alla vita della legge elettorale Calderoli, nota al mondo come Porcellum. Ma se pensate che sia tutto risolto, vi sbagliate di grosso. La sentenza è giocoforza emendativa essendo la legge elettorale “costituzionalmente necessaria”, come ribadito in diverse sentenze e in ultimo nella suddetta n. 1/2014. Il Consultum, come è stato ribattezzato il rottame di legge elettorale rimasto, è un proporzionale corretto con soglia di sbarramento al 4% per le liste, al 10% per le coalizioni e voto di preferenza. Un ritorno al futuro della prima Repubblica e della preminenza della rappresentatività sulla governabilità con gli effetti che sappiamo in termini di potere dei partiti. Se le urne non sono in grado di esprimere un vincitore in grado di governare, allora il sistema parlamentare corregge il voto con la mediazione in aula. Saranno i capi partito a cercare un accordo politico fra forze diverse e finanche in opposizione fra di loro al fine di governare. Tutto ciò ha effetto altrettanto distorsivo di un premio di maggioranza, che sarà deprecabile, ma almeno favorisce la coalizione uscita maggioritaria dal voto popolare.

Con questo non si intende difendere i meccanismi premiali del Porcellum. Essi sono stati dichiarati incostituzionali dalla Consulta sulla base di due ordini di ragioni: 1) lo strumento del premio di maggioranza alla Camera era sproporzionato e comprimeva oltre il limite il principio costituzionale della eguaglianza del voto (art. 48 Cost., secondo comma) nonché della rappresentanza (art. 67 Cost.) il premio di maggioranza al Senato era ancorché irrazionale, ovvero contro la ratio stessa della norma poiché in grado di creare maggioranze differenti rispetto all’altra Camera e quindi di vanificare la governabilità dell’istituzione. Ma una legge elettorale che non fosse in grado, stante alla frammentazione del quadro partitico italiano, di operare una sintesi e quindi di favorire una chiara governabilità frutto della rappresentanza, non sarebbe certo migliore del Porcellum. Per tale ragione, chi in queste ore sta sostenendo la possibilità di andare alle urne con il Consultum, è da ritenersi al limite della follia. Poiché non ha in vista il bene del paese, a cui antepone evidentemente un mero calcolo di convenienza per sé o per il proprio gruppo.

Non è vero quindi che la Consulta, bocciando il premio di maggioranza del Porcellum, abbia altresì invalidato qualsiasi altro accorgimento correttivo nel senso della governabilità. Tuttavia, anche questi strumenti devono essere limitati per non comprimere altri principi costituzionali. Qualsiasi strumento di correzione e di sintesi non è in grado di produrre un sistema partitico diverso dall’attuale. In alcune ricostruzioni, per esempio in quella di Aldo Giannulli sul blog di Grillo, si fa passare l’idea che sia la legge elettorale a produrre il sistema partitico, per cui il maggioritario tenderebbe a favorire il bipartitismo mentre il proporzionale sarebbe più flessibile e “aperto alla società civile”. Nella realtà non è così: in Italia, la legge Mattarella – maggioritaria con correzione proporzionale alla Camera, maggioritaria al Senato – non è mai effettivamente stata in grado di semplificare il quadro partitico. Ha prodotto un indebolimento dei partiti a favore di personalità politiche, ma ha anche reso evidenti le relative responsabilità di governo e l’elettore ha avuto possibilità di capire chi fosse il parlamentare che lo ha rappresentato. Però i partiti sono sopravvissuti alla Mattarella. Si sono uniti in coalizioni politiche deboli che, alla prova del governo, hanno segnato il passo, specie dinanzi alla radicalità delle posizioni nel periodo duro del berlusconismo. D’altro canto, non è vero che il sistema proporzionale è più flessibile del maggioritario: la flessibilità del quadro partitico è determinata storicamente, non per via elettorale. Per i lunghi anni della prima Repubblica, il proporzionale non è mai stato in grado di bucare lo schema di governo della Democrazia Cristiana. La ragione è nota ed era legata anche a fattori esogeni (la contrapposizione fra i blocchi, la guerra fredda). Se un sistema politico è bloccato, la legge elettorale può fare ben poco. Le due grandi cesure elettorali, in Italia, sono avvenute con le politiche del 1992 e del… 2013. Nel ’92 si rompe lo schema del pentapartito; nel 2013 il bipolarismo debole orientato sull’asse berlusconismo – antiberlusconismo. In questi due cambiamenti, la legge elettorale ha operato in senso conservativo, limitando l’erosione di voti dai partiti prevalenti.

Certamente il maggioritario puro ha effetti distorsivi nei confronti della rappresentanza. Ma è possibile operare correzioni con il doppio turno di collegio. Il doppio turno consente l’accesso dei partiti di minoranza (non tutti, quelli più rilevanti e omogenei geograficamente) nell’istituzione. Esiste inoltre il cosiddetto ‘diritto di tribuna’ (nella proposta di Matteo Renzi è pari addirittura al 10%) per disporre comunque un certo numero di seggi alla necessità di rendere l’istituzione effettivamente rappresentativa del voto. In ogni caso, la nuova legge elettorale non dovrà sacrificare la governabilità per garantire una rappresentanza pura ma sterile. Né essere frutto del calcolo o dell’opportunismo di taluni, o piuttosto di volontà punitive nei confronti del partitismo. Dovrà – questo sì – garantire un giusto bilancio fra i diversi principi costituzionali.

Tetto alle Pensioni d’oro e i confini della costituzionalità

Come promesso, ritorno sull’argomento pensioni d’oro cercando di rispondere in maniera più estesa ai commenti del precedente post (leggi qui).
La mozione Sorial, ho scritto, chiedeva al governo di introdurre una norma (il prelievo straordinario perequativo) già inserita in Legge di Stabilità ed in secondo luogo di applicare a tali trattamenti pensionistici il calcolo contributivo. Nei commenti segnalavo che la materia era già in corso di trattazione in Commissione Lavoro alla Camera e che, proprio il medesimo giorno in cui l’aula discuteva le mozioni, la Commissione adottava un testo base, nella fattispecie l’Atto Camera C. 1253, prima firmataria Giorgia Meloni. In simmetria con quanto accaduto per le mozioni, i progetti di legge in materia erano ben sei, uno per ogni partito di opposizione (M5S, LNP, Fratelli d’Italia, SEL), uno ciascuno per PD e Scelta Civica.
Il testo Meloni si avvicina molto a quanto richiesto da Sorial in aula al governo: contiene il ricalcolo delle pensioni sopra dieci volte il TM (trattamento minimo) con il metodo contributivo e il tetto massimo, posto appunto nel confine di dieci volte il TM; il gettito così ottenuto andrebbe indirizzato alle pensioni minime e agli assegni sociali.
La sorpresa è stato leggere il pdl presentato dal M5S a firma di Davide Tripiedi. Il testo Tripiedi non sembra collimare affatto con quanto richiesto da Sorial in aula, tanto più che la mozione precede la proposta (è datata 25 Settembre, il testo di legge 13 Dicembre). In essa, si intende introdurre un tetto ai trattamenti pensionistici sopra i 5000 euro per un triennio durante il quale sarebbe sospesa anche la rivalutazione. L’unico punto d’unione è la destinazione del gettito, che peraltro lo accomuna al pdl della Meloni, devoluto “a misure di perequazione dell’integrazione al trattamento minimo dell’INPS [e] dell’assegno sociale” (Atto Camera C. 1896). Nonostante la similitudine fra la proposta Meloni e la mozione Sorial, quando la Commissione acquisisce il testo base, Tripiedi non ci sta:

Davide Tripiedi (M5S) [ha] fatto presente che il suo gruppo non giudica pienamente convincente il testo della proposta di legge testé adottato come testo base, del cui contenuto si riserva di svolgere un adeguato approfondimento nei prossimi giorni, dichiara che si sarebbe aspettato una maggiore attenzione nei confronti del provvedimento presentato dal suo gruppo, a fronte dell’indiscutibile chiarezza e completezza del suo articolato (Resoconto Commissione Lavoro 08/01/2014).

Il testo base non è convincente, ma è simile a quanto il collega Sorial si apprestava a dire in aula, e alla stessa maniera della proposta Tripiedi, del comma 486 della Legge di Stabilità, nonché degli altri progetti di legge presentati in materia (tranne uno), non è in grado di soddisfare i requisiti di costituzionalità richiesti e definiti dalla Consulta in almeno tre diverse pronunce. La Corte ha chiaramente specificato che, avendo il prelievo natura tributaria, non può che essere erga omnes (applicabile cioè a tutti i cittadini – criterio dell’uguaglianza dinanzi alla legge, articolo 3 Cost.) e applicato in misura progressiva rispetto al reddito (articolo 53 Cost.). Vediamo qui di seguito alcuni aspetti dirimenti (dalla sentenza 116/2013):

  • Natura Tributaria del prelievo: “Questa Corte ha già espressamente qualificato l’intervento di perequazione in questione come avente natura tributaria”;
  • Reddito da Pensione è Retribuzione differita: “i redditi derivanti dai trattamenti pensionistici non hanno, per questa loro origine, una natura diversa e minoris generis rispetto agli altri redditi presi a riferimento, ai fini dell’osservanza dell’art. 53 Cost., il quale non consente trattamenti in pejus di determinate categorie di redditi da lavoro”;
  • Progressività della tassazione: “la Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria; ma esige invece un indefettibile raccordo con la capacità contributiva, in un quadro di sistema informato a criteri di progressività, come svolgimento ulteriore, nello specifico campo tributario, del principio di eguaglianza, collegato al compito di rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti di fatto alla libertà ed eguaglianza dei cittadini-persone umane, in spirito di solidarietà politica, economica e sociale (artt. 2 e 3 della Costituzione) – (sentenza n. 341 del 2000);
  • Assimilabilità fra prelievo temporaneo e definitivo: “è necessario analogamente rilevare l’identità di ratio della norma oggi censurata rispetto sia all’analoga disposizione già dichiarata illegittima, sia al contributo di solidarietà (l’art. 2 del d.l. n. 138 del 2011) del 3 per cento sui redditi annui superiori a 300.000 euro”;
  • Irragionevolezza del diverso trattamento: “irragionevolezza ed arbitrarietà del diverso trattamento riservato alla categoria colpita, «foriero peraltro di un risultato di bilancio che avrebbe potuto essere ben diverso e più favorevole per lo Stato, laddove il legislatore avesse rispettato i principi di eguaglianza dei cittadini e di solidarietà economica, anche modulando diversamente un universale intervento impositivo”;
  • Imposizione discriminatoria: “il maggior prelievo tributario rispetto ad altre categorie risulta con più evidenza discriminatorio, venendo esso a gravare su redditi ormai consolidati nel loro ammontare, collegati a prestazioni lavorative già rese da cittadini che hanno esaurito la loro vita lavorativa, rispetto ai quali non risulta più possibile neppure ridisegnare sul piano sinallagmatico il rapporto di lavoro.

Il sito Formiche.net da diverse settimane ha avviato una battaglia informativa nei confronti delle norme assunte dal governo in Legge di Stabilità. In uno degli articoli si lamenta l’inadeguatezza delle norme proposte sia da governo, sia da opposizione, poiché nessuna di queste supererebbe il giudizio di costituzionalità della Corte in quanto “fortemente discriminatorie nei confronti di una categoria, i pensionati” (Formiche.net).

Se si vuole aumentare il gettito – ha detto uno degli interpellati – lo si deve fare in modo trasparente, tramite un’addizionale alle aliquote per i redditi elevati o tramite una rimodulazione delle aliquote medesime (Formiche.net).

L’unico progetto di legge che prevede l’inserimento dell’addizionale è l’Atto Camera C. 1842, primo firmatario Giorgio Airaudo (SEL). Nel testo si intende inserire una tassazione aggiuntiva pari all’1% per la parte eccedente i 90 mila euro e fino a 120 mila; la parte eccedente i 120 mila, viene tassata 0,5% in più ogni 30 mila euro. Il gettito ricavato andrebbe inserito in un fondo speciale per i disoccupati al fine di garantire la contribuzione figurativa nei periodi di mancato lavoro. La formula dell’addizionale avrebbe anche l’effetto di allargare la platea dei soggetti passivi, incrementandone il gettito.

In conclusione: se si vuole veramente intervenire sulle pensioni d’oro, occorre intervenire anche sulle altre forme di reddito da lavoro. Apporre dei tetti a trattamenti pensionistici significa legiferare in un campo limite rispetto ai confini della costituzionalità. Ed è più dannosa una norma incostituzionale che nessuna norma. La soluzione dell’addizionale era già sul campo, proposta da SEL, ma nella dinamica parlamentare, i 5 Stelle preferiscono fare da soli, con il risultato paradossale di presentare proposte di legge che differiscono dalle mozioni che portano in aula. Il Parlamento dovrebbe servire anche al confronto civile, alla discussione e al reciproco sostegno laddove si hanno medesime opinioni e intenti. Se i 5S avessero esaminato con più attenzione l’attività altrui, ora avrebbero la carta vincente in materia di limitazione delle pensioni d’oro. E invece tocca ricominciare tutto daccapo.

Il Porcellum non c’è più

Con il seguente comunicato, la Consulta questo pomeriggio ha dichiarato incostituzionali sia il premio di maggioranza che le liste bloccate della legge elettorale Calderoli.

La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Di fatto, la legge elettorale è diventata un mero proporzionale puro. Subito si sono sentiti volare appelli alle dimissioni dei parlamentari. Altri chiedono le urne. Tutto questo dopo otto anni e mezzo e tre legislature. Altri fanno accordi con Letta per fantomatiche leggi elettorali che replichino il modello a doppio turno per i sindaci. Non ho parole.

Niente illusioni sul Porcellum: la via di riforma è parlamentare

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza 12060, ha affermato che la legge elettorale comunemente detta Porcellum, in vigore dal 2005 e che ha influenzato la formazione di ben tre legislature (XV, XVI e XVII), presenta profili di incostituzionalità, specie per la sproporzione del premio di maggioranza, che viene assegnato a coalizioni elettorali senza requisiti minimi di consenso elettorale (esempio sotto gli occhi di tutti, il caso di Italia Bene Comune, la coalizione di centro-sinistra di PD, Sel e Psi, vincente alla Camera dei Deputati nel Febbraio 2013 per un miserrimo 0.3%). Il premio di maggioranza del Porcellum ha evidenti effetti distorsivi, tanto più che opera come un meccanismo che favorisce non il vincitore ma la più grande minoranza.

Tutto ciò è ampiamente noto. La Consulta si è pronunciata già diverse volte su questa legge. E non ha mai mancato di segnalare al legislatore i medesimi aspetti di criticità fatti emergere oggi dalla Suprema Corte della Cassazione.

Ma la persistenza della legge elettorale di Calderoli è dovuta a una semplice regola che la stessa Consulta ha consolidato in anni di giurisprudenza sulla base di precedenti ricorsi e di pronunce di ammissibilità dei referendum. La regola recita chiaramente che una pronuncia in via giudiziale non può produrre una vacatio legis in materia elettorale. Il Porcellum non può essere dichiarato tout court incostituzionale dalla Consulta per la semplice ragione che tale pronuncia non determina la reviviscenza della precedente normativa, abrogata mediante legge dal Parlamento. Cito testuale Cesare Salvi in un saggio pubblicato su Il Riformista nel lontano Settembre 2011: “Fin dalla sua prima sentenza (29/1987), che riguardava la legge elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura, la Corte Costituzionale affermò che «l’organo, a composizione elettiva formalmente richiesta dalla Costituzione, non può essere privato, neppure temporaneamente, del complesso delle norme elettorali contenute nella propria legge di attuazione. Tali norme elettorali potranno essere abrogate nel loro insieme esclusivamente per sostituzione con una nuova disciplina, compito che solo il legislatore rappresentativo è in grado di svolgere”. Che la funzione abrogativa sia esercitata mediante referendum o mediante pronuncia della Consulta, la faccenda non cambia: sempre di vacatio legis si tratterebbe.

L’unica scappatoia sarebbe una abrogazione parziale di singole norme della legge elettorale. Ma l’opera del Giudice delle Leggi potrebbe produrre una cosiddetta novella legislativa laddove la censura prefigurasse una legge elettorale profondamente differente da quanto voluto dal legislatore, configurando in tale opera un vero e proprio atto innovativo e pertanto sproporzionato rispetto ai poteri della Consulta medesima. Potrà la Consulta, per esempio con la sola abrogazione delle liste bloccate, non ricadere nella fattispecie descritta? L’attesa per il giudizio sarà ovviamente lunga.

Acqua pubblica, la Consulta cancella la norma fotocopia di Tremonti

Il Giudice delle Leggi ha stabilito che l’articolo 4 del decreto legge 138/2011, che regolava la materia della liberalizzazione dei servizi pubblici locali in seguito ai referendum di Giugno 2011, è incostituzionale. Le ragioni? Semplice, il legislatore non ha fatto alcuno sforzo per presentare una norma differente da quella abrogata dalla volontà popolare espressa con il voto. Non solo, la Corte afferma che il disposto dell’articolo 4 era addirittura eccedente le disposizioni comunitarie in materia:

A distanza di meno di un mese dalla pubblicazione del decreto dichiarativo dell’avvenuta abrogazione dell’art. 23-bis del d.l. n. 112 del 2008, il Governo è intervenuto nuovamente sulla materia con l’impugnato art. 4, il quale, nonostante sia intitolato «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e alla normativa dall’Unione europea», detta una nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che non solo è contraddistinta dalla medesima ratio di quella abrogata, in quanto opera una drastica riduzione delle ipotesi di affidamenti in house, al di là di quanto prescritto dalla normativa comunitaria, ma è anche letteralmente riproduttiva, in buona parte, di svariate disposizioni dell’abrogato art. 23-bis e di molte disposizioni del regolamento attuativo del medesimo art. 23-bis contenuto nel d.P.R. n. 168 del 2010 (Corte Costituzionale, sentenza n. 199/2012).

Anzi, la normativa è ritenuta ancor più restrittiva dell’ex articolo 23-bis del D.L. 112/2008 “in quanto non solo limita, in via generale, «l’attribuzione di diritti di esclusiva alle ipotesi in cui, in base ad una analisi di mercato, la libera iniziativa economica privata non risulti idonea a garantire un servizio rispondente ai bisogni della comunità» ma anche la vincola “al rispetto di una soglia commisurata al valore dei servizi stessi, il superamento della quale (900.000 euro, nel testo originariamente adottato; ora 200.000 euro, nel testo vigente del comma 13) determina automaticamente l’esclusione della possibilità di affidamenti diretti”, e questo “effetto si verifica a prescindere da qualsivoglia valutazione dell’ente locale, oltre che della Regione, ed anche – in linea con l’abrogato art. 23-bis – in difformità rispetto a quanto previsto dalla normativa comunitaria, che consente, anche se non impone (sentenza n. 325 del 2010), la gestione diretta del servizio pubblico da parte dell’ente locale, allorquando l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, in diritto o in fatto, la «speciale missione» dell’ente pubblico (art. 106 TFUE)”.

Così scrive la Corte: “la disposizione impugnata viola, quindi, il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare desumibile dall’art. 75 Cost., secondo quanto già riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale”, essendo l’articolo 4 una riproposizione fedele della ratio della norma abrogata. Anzi, le successive modifiche del governo Monti, non hanno alterato questa fedeltà all’impianto dell’ex art. 23-bis ma hanno operato nel senso di abbassare la soglia entro cui l’affidamento ai privati era automatico, mentre veniva rafforzata la posizione dell’Autority per la concorrenza la quale poteva esprimersi contro l’affidamento in house anche senza istruttoria da parte dell’ente locale (vedi Dl Sviluppo).

Leggi il dispositivo della Sentenza n. 199/2012

Referendum Porcellum, la Corte Costituzionale spiega l’inammissibilità

E’ stata pubblicata stamane la sentenza n. 13/2012 con la quale la Consulta ha bocciato i due quesiti referendari contro il Porcellum, dichiarandoli inammissibili. Ho a lungo scritto su questo argomento e potete trovare un sunto in alto nella home di questo blog, alla voce Referendum Porcellum.

Mi preme però citare questa parte del testo della sentenza, particolarmente illuminante sulla tesi della reviviscenza, criterio che secondo i promotori dei referendum avrebbe potuto far rivivere, ovvero ri-espandere, la precedente legislazione in materia elettorale semplicemente abrogando le norme che l’hanno abrogata. Questa tesi è sbagliata. Così scrive la Consulta:

5.3. – Anche recentemente questa Corte ha affermato che «l’abrogazione, a séguito dell’eventuale accoglimento della proposta referendaria, di una disposizione abrogativa è […] inidonea a rendere nuovamente operanti norme che, in virtù di quest’ultima, sono state già espunte dall’ordinamento» (sentenza n. 28 del 2011), precisando che all’abrogazione referendaria «non conseguirebbe alcuna reviviscenza delle norme abrogate» dalla legge oggetto di referendum, «reviviscenza […] costantemente esclusa in simili ipotesi» dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 24 del 2011, n. 31 del 2000 e n. 40 del 1997). Inoltre, l’ipotesi della reviviscenza di norme a séguito di abrogazione referendaria è stata negata da questa Corte con specifico riguardo alla materia elettorale: quando essa ha stabilito che una richiesta di referendum avente per oggetto una legislazione elettorale nel suo complesso non può essere ammessa, perché l’esito favorevole del referendum produrrebbe l’assenza di una legge costituzionalmente necessaria, ha implicitamente escluso che, per effetto dell’abrogazione referendaria, possa «rivivere» la legislazione elettorale precedentemente in vigore (da ultimo, sentenze nn. 16 e 15 del 2008).

Il fenomeno della reviviscenza di norme abrogate, dunque, non opera in via generale e automatica e può essere ammesso soltanto in ipotesi tipiche e molto limitate, e comunque diverse da quella dell’abrogazione referendaria in esame. Ne è un esempio l’ipotesi di annullamento di norma espressamente abrogatrice da parte del giudice costituzionale, che viene individuata come caso a sé non solo nella giurisprudenza di questa Corte (peraltro, in alcune pronunce, in termini di «dubbia ammissibilità»: sentenze n. 294 del 2011, n. 74 del 1996 e n. 310 del 1993; ordinanza n. 306 del 2000) e in quella ordinaria e amministrativa, ma anche in altri ordinamenti (come quello austriaco e spagnolo). Tale annullamento, del resto, ha «effetti diversi» rispetto alla abrogazione – legislativa o referendaria – il cui «campo […] è più ristretto, in confronto di quello della illegittimità costituzionale» (sentenza n. 1 del 1956).

Né l’ipotesi di reviviscenza presupposta dalla richiesta referendaria in esame è riconducibile a quella del ripristino di norme a séguito di abrogazione disposta dal legislatore rappresentativo, il quale può assumere per relationem il contenuto normativo della legge precedentemente abrogata. Ciò può verificarsi nel caso di norme dirette a espungere disposizioni meramente abrogatrici, perché l’unica finalità di tali norme consisterebbe nel rimuovere il precedente effetto abrogativo: ipotesi differente da quella in esame, in quanto la legge n. 270 del 2005 non è di sola abrogazione della previgente legislazione elettorale, ma ha introdotto una nuova e diversa normativa in materia. Peraltro, sia la giurisprudenza della Corte di cassazione e del Consiglio di Stato, sia la scienza giuridica ammettono il ripristino di norme abrogate per via legislativa solo come fatto eccezionale e quando ciò sia disposto in modo espresso. Per questo le «Regole e raccomandazioni per la formulazione tecnica dei testi legislativi» della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica stabiliscono che «se si intende far rivivere una disposizione abrogata o modificata occorre specificare espressamente tale intento» (punto 15, lettera d, delle circolari del Presidente della Camera dei deputati e del Presidente del Senato della Repubblica, entrambe del 20 aprile 2001; analoga disposizione è prevista dalla «Guida alla redazione dei testi normativi» della Presidenza del Consiglio dei ministri, circolare 2 maggio 2001, n. 1/1.1.26/10888/9.92). E anche in altri ordinamenti (quali ad esempio quello britannico, francese, spagnolo, statunitense e tedesco) il ripristino di norme a sèguito di abrogazione legislativa non è di regola ammesso, salvo che sia dettata una espressa previsione in tal senso: ciò in quanto l’abrogazione non si limita a sospendere gli effetti di una legge, ma toglie alla stessa efficacia sine die.

[…]

La volontà di far «rivivere» norme precedentemente abrogate, d’altra parte, non può essere attribuita, nemmeno in via presuntiva, al referendum, che ha carattere esclusivamente abrogativo, quale «atto libero e sovrano di legiferazione popolare negativa» (sentenza n. 29 del 1987), e non può «direttamente costruire» una (nuova o vecchia) normativa (sentenze nn. 34 e 33 del 2000). La finalità incorporata in una richiesta referendaria non può quindi andare oltre il limite dei possibili effetti dell’atto. Se così non fosse, le disposizioni precedentemente abrogate dalla legge oggetto di abrogazione referendaria rivivrebbero per effetto di una volontà manifestata presuntivamente dal corpo elettorale. In tal modo, però, il referendum, perdendo la propria natura abrogativa, diventerebbe approvativo di nuovi principi e «surrettiziamente propositivo» (sentenze n. 28 del 2011, n. 23 del 2000 e n. 13 del 1999): un’ipotesi non ammessa dalla Costituzione, perché il referendum non può «introdurre una nuova statuizione, non ricavabile ex se dall’ordinamento» (sentenza n. 36 del 1997).

(Corte Costituzionale, Sentenza 3/2012).

Tutto ciò era largamente noto in giurisprudenza. Quindi ribadisco questa richiesta: i promotori dei referendum spieghino perché hanno proposto tali quesiti. Spieghino perché li hanno proposti nel bel mezzo della riscossa civica dei referendari dello scorso Giugno, mentre cioè le organizzazioni e i movimenti non partitici si stavano adoperando per appoggiare il referendum Passigli. Senza una risposta a questa semplice domanda, è inutile e superfluo prendersela con la Corte Costituzionale. Essa ha fatto solo il suo dovere.

Referendum, inammissibili entrambi i quesiti

TUTTI I POST IN CUI ANTICIPAVAMO LA DECISIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE

Come volevasi dimostrare. I referendum erano un imbroglio. Chi li ha proposti ora spieghi perché ha truffato un milione di italiani.

Tratto da il Fatto Quotidiano leggi l’articolo:

La Corte costituzionale ha detto no ad entrambi i quesiti per l’abrogazione (parziale e completa) della legge elettorale, il famigerato Porcellum firmato dal leghista Roberto Calderoli nel 2006. I giudici della Corte Costituzionale chiamati a decidere sull’ammissibilità dei quesiti referendari erano riuniti in camera di consiglio da questa mattina. Dopo l’udienza partecipata a porte chiuse di ieri mattina nella quale sono stati ascoltati i legali rappresentanti del comitato promotore del referendum e i rappresentanti dell’Associazione giuristi democratici, i giudici della Consulta hanno ritenuto di proseguire oggi l’esame delle due questioni loro sottoposte. Con la prima veniva chiesto loro di dichiarare ammissibile il quesito con cui si chiede l’abrogazione totale della legge elettorale studiata dall’ex ministro, che prevede liste bloccate e dunque toglie la facoltà agli elettori di esprimere una preferenza. Il secondo quesito chiedeva di eliminare, ad una ad una, le novità introdotte dalla stessa legge Calderoli alla precedente legge elettorale abrogata nel 2005, il cosiddetto ‘Mattarellum’, secondo un’espressione coniata dal politologo Giovanni Sartori.

Ecco la nota diffusa dalla Consulta al termine dell’udienza: “La Corte costituzionale, in data 12 gennaio 2012, ha dichiarato inammissibili le due richieste di referendum abrogativo riguardanti la legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l’elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica). La sentenza sarà depositata entro i termini previsti dalla legge”.

[…]

La legge elettorale verrà riformata in ogni caso in Parlamento, continuano intanto a ripetere Pdl, Pd e Terzo polo, sfidando chi ritiene che senza la ‘miccia’ referendaria non si farà niente. Ma il dialogo si presenta in partenza complicato, se solo si considera lo scontro già emerso tra Pd e Idv. Fa infuriare infatti il partito di Di Pietro la proposta di Enrico Letta di “costituire molto rapidamente un forum” sulla riforma elettorale tra “i partiti della maggioranza”. Leoluca Orlando si appella a Napolitano e tuona: “Vogliono escluderci”. Riecheggiando così una preoccupazione già espressa dalla Lega.

Ma c’è anche chi lancia un allarme di altro tipo: “Se oggi venisse approvato il referendum e ci fosse il via libera all’arresto di Cosentino – dice Luciano Sardelli, mettendo in relazione due appuntamenti importanti della giornata – ci sarebbe un’innegabile accelerazione verso il voto anticipato in primavera”. La Consulta ha disinnescato il primo allarme. Resta da vedere se Montecitorio farà il resto.

Referendum Legge Elettorale, i dubbi sull’ammissibilità

Questo post è stato scritto sulla base delle informazioni contenute nell’ottimo documento prodotto dalla NOMOS, una rivista telematica quadrimestrale diretta dal Prof. Fulco Lanchester, intitolato Referendum Abrogativo e Reviviscenza.
Se la Corte Costituzionale, mercoledì prossimo, deciderà per l’inammissibilità dei referendum sul Porcellum, non gridate allo scandalo. Perché è tutto già scritto.
Quando a Bersani fu chiesto di spiegare la posizione ondivaga del PD circa i quesiti referendari sulla legge elettorale, lui usò, come è solito fare, una similitudine: il referendum è come “una pistola sul tavolo”. Tradotto: il pericolo di una consultazione elettorale sul Porcellum obbligherà l’allora maggioranza a modificare quella tremenda legge. Erano secoli fa. Nel frattempo non è stata avanzata alcuna proposta condivisibile e il Porcellum è ancora al suo posto. Quella maggioranza si è sciolta al sole e la ‘pistola sul tavolo’ ora appare per quello che è: una chimera.

Già, perché i due quesiti referendari anti-Porcellum, sui quali sono state raccolte un milioneduecentomila firme, hanno i crismi, oserei dire le stigmate, dell’inammissibilità. Per due ragioni:

  1. non è possibile la vacatio legis in materia elettorale;
  2. la reviviscenza di una norma abrogata per mezzo di referendum nel nostro diritto è impossibile.

In merito al punto 1) cito la sentenza della Corte Costituzionale 29/1987, relativa alla legge elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura. La Consulta affermò che «l’organo, a composizione elettiva formalmente richiesta dalla Costituzione, non può essere privato, neppure temporaneamente, del complesso delle norme elettorali contenute nella propria legge di attuazione. Tali norme elettorali potranno essere abrogate nel loro insieme esclusivamente per sostituzione con una nuova disciplina, compito che solo il legislatore rappresentativo è in grado di svolgere».

Mentre il primo quesito referendario Morroni-Parisi intende abrogare in toto il Porcellum, il secondo quesito opera in forma di abrogazione di quelle norme del Porcellum che abrogano le norme del Mattarellum. In entrambi i cas,i nelle intenzioni dei prootori, dovrebbe agire con modalità diverse una forma di reviviscenza della norma abrogata (punto 2). Va da sé che nel nostro ordinamento non vi è alcuna disposizione che esplicitamente la ammetta o diversamente la escluda. Inoltre, “una legge è abrogata in conseguenza di una sua valutazione di non più idoneità a conseguire il fine per il quale era stata preordinata, per cui il ritorno in vita della norma abrogata, escluso il suo automatismo, potrebbe riaversi solo in presenza di una esplicita volontà di richiamarla” (nomos n. 0 del 2011).

La abrogazione non comporta un effetto necessariamente ripristinatorio delle norme vigenti anteriormente alla legge ora abrogata: essendo il risultato di un giudizio negativo di non rispondenza di una legge ai bisogni del momento in cui è disposta, «non potrebbe l’antica legge emanata in vista di una situazione diversa rivivere per virtù propria, ma solo per una nuova valutazione della sua opportunità
attuale ad opera dell’organo che procede all’abrogazione» (C. MORTATI, Abrogazione legislativa e instaurazione di un nuovo ordinamento costituzionale, cit., 116, nt. 23 – ibidem).

Nel caso “di abrogazione legislativa esplicita di norma meramente abrogativa”, sarebbe ammessa la reviviscenza della norma precedente abrogata, non potendosi riconoscere al legislatore altra volontà, in questa successione di atti, che quella di riportare in vita quella norma che era stata delimitata. Badate bene, tale facoltà è riconosciuta al legislatore. Il problema risiede nella assimilazione dell’abrogazione per via referendaria alla abrogazione per via legislativa. Che potrebbe non essere attuabile per taluni aspetti di natura tecnico-giuridica:

  • l’abrogazione legislativa esplicita opera come un fenomeno di successione di atti, mentre l’abrogazione referendaria opera come una successione di norme;
  • il potere legislativo, anche quando opera nel senso dell’abrogazione di norme, ha sia un carattere positivo che negativo, ovvero “potrebbe modificare l’ordinamento giuridico attraverso la previsione (in positivo) di una nuova disciplina efficace pro futuro, ma sceglie di incidere sull’ordinamento attraverso la mera delimitazione nel passato dell’efficacia delle disposizioni ora abrogate” (nomos, cit.); invece la potestà referendaria agisce nel senso di “una valutazione negativa sulla opportunità politica di quella determinata scelta legislativa oggetto del quesito referendario”, e non potrebbe essere quella stessa scelta intesa come volontà positiva di riqualificazione dell’efficacia di una disciplina precedentemente abrogata;
  • con l’abrogazione esplicita il legislatore ha voluto gli effetti normativi che scaturiscono dalla mera abrogazione della legge precedente; con l’abrogazione referendaria, invece, il corpo elettorale si è espresso sulla legge oggetto del quesito, ma non ha “voluto” la normativa di risulta (sebbene sia implicito nel secondo quesito la volontà di ripristinare la legge precedente, caratteristica ancor più invalidante, poiché qualificherebbe il quesito come ‘eterogeneo’, ovvero “l’elettore si troverebbe a esprimere, con un solo voto, due volontà, quella di abrogare la legge Calderoli e quella di ripristinare la legge Mattarella, quando invece la sua volontà potrebbe essere quella di abrogare la legge Calderoli, ma di volere una disciplina elettorale diversa da quella precedente”).

CONCLUSIONE: “se l’abrogazione legislativa esplicita di disposizione meramente abrogatrice può comportare, quale manifestazione della volontà di colmare la lacuna, la reviviscenza della disposizione precedentemente abrogata, l’abrogazione referendaria, seppur di norme meramente abrogatrici, non comporta alcuna reviviscenza, non essendo possibile individuare alcuna altra volontà se non quella di delimitare l’efficacia di una norma (a meno di non voler riconoscere un ruolo determinante alla intenzione dei promotori referendari)”. Ne consegue che, resa impossibile qualsiasi reviviscenza del Mattarellum, e considerata la contemporanea impossibilità di una vacatio legis in materia elettorale, entrambi i quesiti sarebbero inammissibili.

La sentenza n. 32 del 1993 della medesima Corte Costituzionale ha individuato due condizioni per l’ammissibilità dei referendum in materia elettorale:

  1. che sia individuabile dal quesito una matrice razionalmente unitaria;
  2. possa comunque trarsi dall’ordinamento una “normativa di risulta” immediatamente applicabile.

Ora il problema è che il Mattarellum non è normativa di risulta, ma è normativa precedentemente abrogata. C’è differenza infatti fra normativa di risulta e reviviscenza di norme abrogate:

Le norme abrogate [quelle che si vorrebbe rivivessero] «non sarebbero “norme residue” o “preesistenti” (rispetto all’ablazione referendaria), ma semplicemente “norme abrogate” dalla legge abrogatrice, ma che al cospetto del criterio dell’effetto di sistema tornerebbero in vita sub specie di “nuove norme”, create (rectius: ri-create) artificiosamente dai promotori del referendum» (nomos, cit.).

Sia ben chiaro, la Consulta, quando si è espressa in materia, ha sempre escluso la reviviscenza: sentenze nn. 40 del 1997 e 31 del 2000, nonché la recente sentenza n. 24 del 2011 (Referendum sui servizi pubblici locali), nonché la sentenza n. 28 del 2011 in cui si afferma esplicitamente che “l’abrogazione, a seguito dell’eventuale accoglimento della proposta referendaria, di una disposizione abrogativa è, infatti, inidonea a rendere nuovamente operanti
norme che, in virtù di quest’ultima, sono state già espunte dall’ordinamento“.

Per tutte queste ragioni, i dubbi sull’ammissibilità prevalgono sulle certezze. Tanto più che i quesiti di Morroni-Parisi ebbero l’effetto politico di tagliare le gambe alla proposta Passigli, che invece avrebbe potuto avere maggior fortuna; uno dei due quesiti di Passigli rispettava infatti entrambi i punti della sentenza n. 32 del 1993 (razionalità del quesito e esistenza di una normativa di risulta) poiché puntava a smontare dall’interno gli effetti perversi del Porcellum alla maniera del referendum del 1993, riadattandolo ad una legge elettorale proporzionale con sbarramento al 4% (una formula tanto cara ai dalemiani).

Si potrebbero qui fare alcune considerazioni di natura politica, che verrebbero rafforzate eventualmente dalla sentenza della Corte prevista per mercoledì prossimo. Provo ad abbozzarle.

In primo luogo, la raccolta di firme per i quesiti pro-Mattarellum aveva lo scopo prioritario di sabotare il referendum Passigli: non c’era – e non c’è – alcuna volontà di modificare l’attuale legge elettorale. Ciò è rafforzato dal fatto che le ragioni della inammissibilità dei quesiti pro-Mattarellum sono arcinote in ambito giuridico. In realtà qualcuno ha cercato di cavalcare l’onda referendaria di giugno in vista di ipotetiche elezioni, che all’epoca sembravano programmabili per l’inizio del 2012. Le cose sono andate diversamente e ora quel referendum è diventato un sasso nella scarpa. Ma i sostenitori dei quesiti Morroni-Parisi cadranno in piedi e la collera popolare si scaricherà sugli innocenti giudici della Consulta.

Verrò smentito?

Manovra Monti e l’annosa questione dell’IVA applicata alla tassa rifiuti

Ricorderete il caso della Tassa Rifiuti e della pronuncia n. 238/2009 della Corte costituzionale che sanciva la natura tributaria della tassa e quindi apriva il contenzioso per il rimborso dell’IVA, riscossa sino ad allora illecitamente. Se ricordate bene, esisteva la TARSU, quindi venne il governo Prodi, il primo, e il ministro Ronchi, e fu varata la TIA1 o TIA Ronchi, (D. Lgs. 22/97), poi fu il tempo del Prodi2 e si fece anche la TIA2 con il D.L. 152/2006, Testo Unico ambientale. Alcuni comuni passarono pertanto alla nuova tariffa, ma la formulazione della norma lasciava adito alla trasformazione della tariffa da tributo a corrispettivo per un servizio reso: e da allora si cominciò a versare la tassa sulla tassa, ovvero l’IVA sulla TIA.

La Corte costituzionale nel 2009 ha cassato la TIA1 restituendole i crismi del tributo, a cui per definizione non è applicabile l’IVA per “la rilevata inesistenza di un nesso diretto tra il servizio e l’entità del prelievo – quest’ultima commisurata, come si è visto, a mere presunzioni forfetarie di producibilità dei rifiuti interni e al costo complessivo dello smaltimento anche dei rifiuti esterni – porta ad escludere la sussistenza del rapporto sinallagmatico posto alla base dell’assoggettamento ad IVA ai sensi degli artt. 3 e 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 e caratterizzato dal pagamento di un «corrispettivo» per la prestazione di servizi”, Corte cost. sentenza n. 238/2009).

Se, poi, si considerano gli elementi autoritativi sopra evidenziati, propri sia della TARSU che della TIA, entrambe le entrate debbono essere ricondotte nel novero di quei «diritti, canoni, contributi» che la normativa comunitaria (da ultimo, art. 13, paragrafo 1, primo periodo, della Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006; come ribadito dalla sentenza della Corte di giustizia CE del 16 settembre 2008, in causa C-288/07) esclude in via generale dall’assoggettamento ad IVA, perché percepiti da enti pubblici «per le attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità» (ibidem).

Detto questo, ricorderete anche che nel 2010 il governo Berlusconi intervenne sulla questione per scongiurare l’ipotesi che la TIA2 fosse assimilata alla TIA1 e quindi di perdere gettito IVA, Tremonti sfornò un comma interpretativo infilato nella manovra finanziaria 2010, il DL n. 78 del 26/05/2010. Tale comma si trovava all’articolo 14 e recitava così: “33. Le disposizioni di cui all’articolo 238 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, si interpretano nel senso che la natura della tariffa ivi prevista non è tributaria. Le controversie relative alla predetta tariffa, sorte successivamente alla data di entrata in vigore del presente decreto, rientrano nella giurisdizione dell’autorità giudiziaria ordinaria“. Quindi sì all’IVA e sottrazione della competenza della Commissioni tributarie a dirimere le relative controversie.

Poi venne il momento del Federalismo Municipale e fu approvato il decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23. L’art. 14, comma 7 confermava,, sino alla revisione della disciplina relativa alla gestione dei rifiuti solidi urbani, la vigenza dei regolamenti comunali adottati in base alla normativa concernente la tassa sui rifiuti solidi urbani e la tariffa di igiene ambientale (TARSU e TIA1) nonché la possibilità per i comuni di adottare la tariffa integrata ambientale (TIA2).

Si potrebbe dire che le cose fossero state sistemate definitivamente. E invece il governo Monti ha operato anche sulla TIA2, cambiandola nuovamente.

La TIA2 non ha mai visto la luce. L’art. 238 del DL 152/2006 abrogava la TIA1 ma poneva una condizione per la nascita della TIA2, ovvero l’emanazione di un decreto attuativo, mai avvenuta. Con quesata manovra, invece, si ripristina la natura tributaria della tariffa sui servizi relativi alla raccolta e allo smaltimento dei rifiuti.

Art. 14 comma 1. A decorrere dal 1° gennaio 2013 è istituito in tutti i comuni del territorio nazionale il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi, a copertura dei costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento, svolto in regime di privativa dai comuni, e dei costi relativi ai servizi indivisibili dei comuni.

E’, di fatto, una riedizione della TARSU. Il tributo comunale sui rifiuti e sui servizi copre:

  1. i costi relativi al servizio di gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti assimilati avviati allo smaltimento, svolto in regime di privativa dai comuni;
  2. i costi relativi ai servizi indivisibili dei comuni.

La tariffa, che deve assicurare la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio (comma 11), è composta da:

  1. una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio di gestione dei rifiuti, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti;
  2. una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all’entità dei costi di gestione;
  3. i costi dello smaltimento dei rifiuti nelle discariche.

A decorrere dal 1° gennaio 2013 sono quindi soppressi tutti i vigenti prelievi relativi alla gestione dei rifiuti urbani, sia di natura patrimoniale sia di natura tributaria, compresa l’addizionale per l’integrazione dei bilanci degli enti comunali di assistenza. E’ infine abrogato, con la medesima decorrenza, il predetto articolo 14, comma 7, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23 in materia di federalismo fiscale municipale.

Su questo aspetto, almeno, il governo Monti ha messo le cose a posto.

Il referendum abrogativo del Porcellum è inammissibile. A che servono le firme?

La teoria bersaniana del referendum abrogativo del Porcellum come di “una pistola sul tavolo” rischia di essere la bufala del secolo. Fallito il tentativo di Passigli, che tendeva ad abrogare le norme del Porcellum contenenti il cosiddetto abnorme ‘premio di maggioranza’ e quindi a ripristinare un proporzionale puro con le indicazioni di preferenza, il PD ha sposato non senza tentennamenti i quesiti abrogativi – in toto e parziali – di Arturo Parisi. Peccato che la giurisprudenza costituzionale in merito implichi l’inammissibilità di quei quesiti referendari sulle leggi elettorali poiché è inammissibile la vacatio legis in materia elettorale. Lo spiega bene Cesare Salvi su Il Riformista di qualche giorno fa. Articolo che vi ripropongo qui di seguito. Una domanda, però, vorrei rivolgere a Bersani e ai “nostalgici” del Mattarellum: a che servono le firme?

Per qualche approfondimento: Sentenza corte costituzionale n. 47/1991

Il Riformista 09-09-2011

 L’inammissibilità dei referendum elettorali

di Cesare Salvi

La serietà nell’iniziativa politica, in un momento nel quale purtroppo cresce la sfiducia dei cittadini nei confronti dei partiti, è più che mai necessaria. Vorrei quindi sottoporre ai sostenitori del referendum, che dicono di voler abrogare l’attuale legge elettorale per sostituirla con la precedente legge Mattarella, se hanno riflettuto sulle conseguenze che si determineranno tra i cittadini, chiamati in questi giorni a firmare, quando la Corte Costituzionale dichiarerà inammissibili i quesiti.

Allo stato attuale della giurisprudenza della Consulta, questo esito negativo sarà infatti inevitabile.

Fin dalla sua prima sentenza (29/1987), che riguardava la legge elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura, la Corte Costituzionale affermò che «l’organo, a composizione elettiva formalmente richiesta dalla Costituzione, non può essere privato, neppure temporaneamente, del complesso delle norme elettorali contenute nella propria legge di attuazione. Tali norme elettorali potranno essere abrogate nel loro insieme esclusivamente per sostituzione con una nuova disciplina, compito che solo il legislatore rappresentativo è in grado di svolgere».

Questo principio è ribadito da tutta la giurisprudenza successiva.

Il primo dei due quesiti sottoposto in questi giorni alle firme dei cittadini, che prevede l’abrogazione in toto della legge Calderoli, dunque palesemente inammissibile. Né si può sostenere, come pure ho avuto purtroppo occasione di leggere, che l’abrogazione dell’attuale legge fa rivivere quella precedente. Come dovrebbe essere noto, «la natura del referendum abrogativo nel nostro sistema costituzionale è quello di atto-fonte dell’ ordinamento dello stesso rango della legge ordinaria». E, come si insegna al primo anno di giurisprudenza, «l’abrogazione di una norma, che a sua volta aveva abrogato una norma precedente, non fa rivivere quest’ultima» (cito dal noto manuale che adotto per i miei studenti, il Torrente-Schlesinger).

Naturalmente, se uno studente rispondesse all’esame sostenendo il contrario, sarebbe subito bocciato.

Probabilmente non ignari di ciò, i promotori hanno proposto anche un secondo quesito, che abroga solo parzialmente la Legge Calderoli. La Corte costituzionale ha affermato, infatti, che il referendum in materia elettorale è ammissibile se dal “ritaglio” della legge vigente emerge una normativa immediatamente applicabile: se cioè si può andare a votare senza bisogno di ulteriori interventi legislativi. In passato, proprio perché questo esito non era garantito dal quesito, la Corte costituzionale (sent. 47/1991) dichiarò inammissibile il referendum sulla legge elettorale del Senato; mentre, avendo i promotori riformulato il quesito, la Corte lo ritenne questa volta ammissibile (sent. 32/1993) appunto perché la normativa di risulta avrebbe consentito l’operatività del sistema elettorale, senza alcun ulteriore intervento del legislatore.

Per cercare di infilarsi in questo spiraglio, i promotori hanno provato a ritagliare la legge Calderoli, per far emergere una normativa direttamente applicabile.

Ma non ci sono riusciti. Diversi punti del quesito numero 2, infatti, contengono abrogazioni di legge abrogate (mi si scusi il bisticcio). Il quesito prevede in particolare l’abrogazione delle norme della legge vigente, che a loro volta avevano abrogato i decreti legislativi sulla determinazione dei collegi uninominali della Camera e del Senato. Ma, come si ricordava, l’abrogazione non può far rivivere norme abrogate, e quindi l’eventuale approvazione del quesito produrrebbe una legge priva della normativa che riguarda il suo punto centrale, cioè l’adozione dei collegi uninominali. Ne risulterebbe una legge non immediatamente operativa, in contrasto con quanto richiesto dalla Corte costituzionale.

Chiedo scusa per i tecnicismi. Sono anch’io contrario al “porcellum”, e comprendo le ragioni di un’iniziativa referendaria. Per esempio, quella promossa da Passigli (il quesito sull’abolizione del premio di maggioranza è sicuramente ammissibile). Ma, come dicevo all’inizio, il problema è un altro: quando nei talk show televisivi sento promettere che con i referendum si tornerà alla legge elettorale Mattarella, mi indigno, come si dice adesso. Da giurista e da politico di altri tempi.

 

Referendum Nucleare, il nuovo quesito e la bufala

La delibera della Corte di Cassazione in ordine alle conseguenze del decreto Omnibus sul referendum che abroga le norme del nucleare, confermata oggi dalla corte costituzionale con voto unanime, ha cambiato del tutto il testo del quesito referendario, che ora è il seguente:

Vediamo in dettaglio i commi sottoposti alla consultazione abrogativa:

Art. 5 c. 1:  Al fine di acquisire ulteriori evidenze scientifiche, mediante il supporto dell’Agenzia per la sicurezza nucleare, sui profili relativi alla sicurezza nucleare, tenendo conto dello sviluppo tecnologico in tale settore e delle decisioni che saranno assunte a livello di Unione europea, non si procede alla definizione e attuazione del programma di localizzazione, realizzazione ed esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare.

Art. 5 c. 8: Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dello sviluppo economico e del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e acquisito il parere delle competenti Commissioni parlamentari, adotta la Strategia energetica nazionale, che individua le priorita’ e le misure necessarie al fine di garantire la sicurezza nella produzione di energia, la diversificazione delle fonti energetiche e delle aree geografiche di approvvigionamento, il miglioramento della competitivita’ del sistema energetico nazionale e lo sviluppo delle infrastrutture nella prospettiva del mercato interno europeo, l’incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo nel settore energetico e la partecipazione ad accordi internazionali di cooperazione tecnologica, la sostenibilita’ ambientale nella produzione e negli usi dell’energia, anche ai fini della riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, la valorizzazione e lo sviluppo di filiere industriali nazionali. Nella definizione della Strategia, il Consiglio dei Ministri tiene conto delle valutazioni effettuate a livello di Unione europea e a livello internazionale sulla sicurezza delle tecnologie disponibili, degli obiettivi fissati a livello di Unione europea e a livello internazionale in materia di cambiamenti climatici, delle indicazioni dell’Unione europea e degli organismi internazionali in materia di scenari energetici e ambientali».

Il dubbio sorto nelle scorse ore è ambiguo: il referendum abroga le norme che abrogano le norme che reintroducono il nucleare in Italia, ergo bisogna votare NO. E’ corretto? Provo a rispondere. Le norme che reintroduco il nucleare in Italia sono già abrogate dalla L. 75/2011, che contiene i succitati commi 1 e 8 dell’art. 5. La Corte di Cassazione ha spostato il bisturi da una legge all’altra, non già per riabilitare le norme di cui al decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31 (cosiddetto Decreto Nucleare), oramai abrogate, bensì per colpire quanto di quelle norme è resistito nel decreto Omnibus, vale a dire appunto i commi 1 e 8. In particolare, il comma 1 attua una sospensiva mentre il comma 8 lascia aperta la “porta” alla decisione governativa di reintrodurre la produzione di energia di origine nucleare dietro parere della UE circa la sua sicurezza. Non è vero che eliminati i due commi, le norme che la Legge 75/2011 ha abrogato ritornino in vigore. I due commi dell’art. 5 non abrogano alcuna norma. Quindi non credete a chi vi dice che bisogna votare NO. La vostra volontà di dire No al Nucleare corrisponde anche con il nuovo quesito alla croce sul Sì. Non è cambiato nulla. Con il referendum si azzoppa la strategia meschina del governo di schivare il colpo e di mettere al riparo interessi cospicui (e occulti).

Quindi votate sì per dire no al nucleare.

Conflitto di attribuzione retroattivo

Correva l’anno 2010. Durante un’udienza del processo Mediaset, Berlusconi si avvalse del legittimo impedimento. In programma nella sua mutevole agenda vi era un Consiglio dei Ministri. Ma i giudici di Milano respinsero l’istanza. Per una serie di semplici ragioni:

  1. l’udienza era stata fissata tenendo conto dell’agenda degli impegni del presidente del Consiglio;
  2. era già stata presa in considerazione la necessità di contemperare le esigenze della “giustizia” con quelle istituzionali inerenti alla funzione rivestita dall’imputato;
  3. le difese dell’imputato Berlusconi non fecero emergere in sede di definizione dell’agenda delle udienze alcuna necessità di fissare per quel giorno un Consiglio dei Ministri;
  4. erano già state soppresse ben tre udienze e la funzione giudiziaria non può essere ulteriormente svilita.

In questi cinque punti non vi è nulla di politico. Oggi la Presidenza del Consiglio ha sollevato il conflitto di attribuzione – con un ritardo, badate bene, di 13 mesi – presso la Corte Costituzionale. Le ragioni addotte dall’Avvocatura di Stato sono le seguenti:

Per quanto riguarda il caso in questione, il Consiglio dei ministri – si fa notare nel ricorso – era stato fatto slittare dal 24 febbraio al 1° di marzo per la «necessità di procedere a una compiuta stesura» del ddl anti-corruzione «che ha comportato una complessa elaborazione» […] Di fronte alle «esigenze sopraggiunte che imponevano lo spostamento» del Cdm, lo «spirito di leale collaborazione tra le istituzioni» richiamato dalla stessa Corte Costituzionale «è stato del tutto disatteso» da parte dei giudici di Milano che «hanno privilegiato esclusivamente l’esercizio del potere giudiziario, senza tenere in debito conto la posizione processuale dell’organo costituzionale, quale è il presidente del Consiglio dei ministri, e il diritto-dovere di svolgere le proprie funzioni costituzionali» (Corriere della Sera).

Pensate, il CdM slittò per il ddl anti corruzione. Un provvedimento talmente importante che è rimasto parcheggiato in qualche cassetto di qualche commissione parlamentare, altro che binario morto. E questi avvocati – la relazione porta la firma di Michele Dipace e Maurizio Borgo – si sono arrovellati per un anno e sono riusciti a motivare questo ennesimo tentativo di annichilire la giustizia con l’urgenza di un provvedimento che urgente non è mai stato. Assurdo. Non solo: i due avvocati si spingono più in là. I giudici avrebbero leso le prerogative costituzionali del presidente del consiglio, poiché solo egli può convocare il CdM e solo lui può decidere quando è necessario farlo. Senza Presidente del consiglio, il CdM non può svolgersi, quindi verrebbe negata la sua capacità di definire e fissare la direzione politica del governo. Peccato che lo stesso Presidente del Consiglio sia anche imputato in svariati procedimenti penali – almeno quattro: la giustizia deve quindi soccombere nei confronti del potere esecutivo?

Ora Berlusconi ritenta la scalata alla Consulta

Come se fosse la Mondadori, ora B. andrà all’assalto della Corte costituzionale, ultimo baluardo della legalità costituzionale in questo paese. Ci aveva già provato con quella cena a Palazzo Grazioli, invitando alcuni giudici della Consulta che poi votarono a favore del Lodo Alfano pur rimanendo in minoranza. Il progetto attuale dovrà insidiarsi nel profondo, rivoltare la Corte come un calzino, snidare tutti quei giudici di sinistra che votano contro di lui.

La notizia di De Siervo, l’attuale presidente della Corte, già sulla via del tramonto, passa quasi inosservata. Ci pensa Sergio Rizzo, sul Corsera di stamane a gettare un’ombra di dubbio su uno scenario che altresì sarebbe sembrato del tutto normale. Eppure c’è una coincidenza temporale da non sottovalutare. De Siervo è pure quel presidente di Corte che ha segato in due il Legittimo Impedimento. Un personaggio scomodo. Ma l’avvicendamento sarà indolore, soprattutto per lui. Certo, l’articolo di Rizzo si concentra sulla esosità del pre-pensionamento dei presidenti emeriti della Corte. auto blu, super-pensione, possibilità di trovare impiego in qualunque campo come manager.

L’ombra sulla corte si allunga da oggi pomeriggio, dopo il voto all’ultimo ministro e all’ultimo ‘responsabile’ disponibile: lasciando De Siervo, il prossimo presidente sarà il giudice più anziano eletto dopo di lui. Poi toccherà al successivo, e via discorrendo. Il posto vacante dovrà essere rimpiazzato dal voto parlamentare (art. 135 della Costituzione – i membri della corte sono eletti per un terzo dal parlamento, per la restante parte da Presidente della Repubblica e dalla suprema maistratura)? Se sarà così, si aprirà il caos: il parlamento non deciderà alcunché, lasciando i giudici in ‘inferiorità numerica’, per così dire. Un modo come un altro per riequilibrare gli anti-berlusconiani dentro la Corte. Via De Siervo, dentro nessuno. Se poi il prossimo presidente fa già parte dei membri in quota PdL, il gioco è fatto. B. farà sua anche la Corte Costituzionale. Un’OPA pubblica, ma neanche tanto.

L’articolo di Sergio Rizzo per il Corsera.

Lodo Alfano Costituzionale Mai

Levata di scudi, ieri, contro il Lodo Alfano in versione legge costituzionale. Sdegnate le opposizioni, IdV in testa, ma pure il PD. I finiani dicono che il Lodo Alfano costituzionale non è una priorità. Tutto nasce dalle dichiarazioni di Bossi, secondo il quale “al premier Berlusconi qualcosa va concesso” – tanto per non far capire che si tratta di legge ad personam. Pare che l’intenzione sia quella di portare il provvedimento in aula già dopo l’approvazione della manovra, ovvero a fine Luglio. Lo dice Federco Bricolo, capogruppo al Senato per la stessa Lega Nord. Sembra che la Lega abbia molto a cuore le sorti di questo provvedimento. Di certo non si sono sprecati molto in autocritica sulla nomina di Brancher, allora perché mai perder tempo a riflettere su questo disegno di legge.

Il Lodo Alfano nuova versione si ‘pregia’ di essere fondato sull’interesse al sereno svolgimento delle funzioni, al fine di attuare il “principio della continuità e regolarità delle più alte cariche pubbliche” (Legislatura 16° – Atto n. 2180) in armonia con il principio di eguaglianza contenuto nell’art. 3 della Costituzione. In sostanza, il nuovo provvedimento vorrebbe superare tutte le obiezioni della Corte Costituzionale – contenuti nelle sentenze 24/2004 e 262/2009 – ai precedenti tentativi operati con il Lodo Schifani prima e con il Lodo Alfano poi, entrambi naufragati sullo scoglio dell’eguaglianza. Il ‘regime differenziato’ potrebbe essere accolto nel nostro ordinamento “a patto che risultino concretamente tutelati anche gli altri valori costituzionali” (ibidem). Così il legislatore.

Chi sono i fortunati legibus soluti? I soliti: il Presidente della Repubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri e i ministri, che “durante lo svolgimento della carica o delle funzioni, non possono essere sottoposti a processo penale qualora il Parlamento decida in tal senso. La norma “opera esclusivamente con riguardo ai reati extrafunzionali, posto che, per i reati commessi nell’esercizio delle funzioni, gli articoli 90 e 96 della Costituzione già prevedono speciali regole giurisdizionali per le alte cariche dello Stato” (ibidem).

Il concetto di base che sorregge tutto l’impianto argomentativo del legislatore è concentrato nella “esigenza di assicurare la continuità nello svolgimento del munus facente capo a tali alte cariche dello Stato”, esigenza che sussisterebbe anche in relazione al processo ordinario. Va da sé che il legislatore qui non opera alcuna distinzione fra la funzione e la persona che la svolge, anzi, compie una vera e propria fusione tale per cui la persona è la funzione e tolta essa, la funzione è compromessa. Ciò è concepibile in un sistema democratico dove le Alte Cariche dello Stato qui indicate non sono cariche elettive, tranne una, quella del presidente della Repubblica? Presidente del Consiglio e Ministri sono nominati. La costituzione prevede le forme per il loro avvicendamento. Non c’è ragione per cui la funzione del Presidente del Consiglio non possa svolgersi, se non dopo il naturale avvicendamento della persone che la interpretano. La carica resta, la persona no. Se la persona che svolge tale funzione è sottoposta a processo, essa dovrebbe semplicemente farsi da parte. Uno scudo è sì necessario: non per la persona, bensì per la funzione. Nell’interesse collettivo, affinché una persona possa essere nominata presidente del consiglio non dovrebbe avere né indagini né processi pendenti sul proprio capo.Tutto questo è già stato detto ai tempi della seconda sentenza della Consulta, lo scorso Ottobre. Cosa è cambiato da allora? Nulla. Si cerca di riproporre lo stesso cannovaccio di allora, arricchito di una formula un po’ barocca che assegna l’onere della decisione non più a un meccanismo anodino ma al Parlamento, che naturalmente voterà secondo l’indicazione dell’interessato.

Il voto parlamentare sospenderebbe così il processo in corso, ma non l’attività giudiziaria:

  1. il giudice, se ne ricorrono i presupposti, può acquisire, nel processo sospeso, le prove non rinviabili. Si tratta di una «valvola di sicurezza», che, escludendo la paralisi assoluta delle attività processuali, salvaguarda il diritto alla prova e impedisce che la sospensione operi in modo generale e indifferenziato sul processo in corso;
  2. è sospeso anche il corso della prescrizione dei reati in esso contestati. Secondo il principio generale previsto dall’articolo 159 del codice penale, la prescrizione riprenderà il suo corso dal giorno in cui cessa la causa della sospensione (ibidem).

E la parte civile? Vedrebbe compromesso il suo interesse soggettivo? Il legislatore, in questo caso, non ha lasciato cadere il suggerimento della Consulta: “il comma 5 prevede la possibilità, per la parte civile, di trasferire l’azione in sede civile, in deroga all’articolo 75, comma 3 del codice di procedura penale”. Una deroga che è in linea con i principi espressi dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 24/2004 ( Lodo Schifani), mentre la parte civile verrebbe ulteriormente tutelata trattando la causa “con priorità, attraverso la riduzione del termine a comparire” (ibidem).

Mera consolazione: l’iter legislativo è quello definito dall’art. 138 della costituzione. L’atto, affinché divenga legge costituzionale, deve essere approvato “con due successive deliberazioni ad intervallo non minore di tre mesi, e […] a maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera nella seconda votazione” (Cost. art. 138, c. 1 ), a cui segue il referendum consultativo. Servono, come ben saprete, i 2/3 dei componenti per evitare la consultazione degli elettori. Una maggioranza qualificata che questo parlamento non sarà comunque in grado di esprimere (thanks, God). Ergo, Lodo Alfano Costituzionale Mai.

Nucleare, ricorsi delle Regioni respinti

La Corte Costituzionale ha oggi discusso i ricorsi delle Regioni contro la legge delega del 2009 sul Nucleare. Le questioni sollevate dalle Regioni sono alcune infondate, altre inammissibili. Le motivazioni verranno depositate la prossima settimana. Fino ad allora non potremo discutere dell’aspetto giuridico. Da un punto di vista politico, è un brutto periodo per le Regioni a Statuto Ordinario: da un lato la sentenza della Consulta, che le espone ora alle decisioni del governo sulla scelta dei siti, decisioni che in extrema ratio possono anche scavalcarle; dall’altro la manovra economica che vede i trasferimenti statali alle Regioni ridotti del 40%. Ma Tremonti ha avvisato tutti, da Formigoni a Errani: se si tocca la manovra, è il collasso.

Avviso per tutti i sostenitori del ritorno al nucleare: cliccate qui. Pronti a mettere un reattore nelle mani dei vostri politici?