M5S / Dimissioni in bianco e divieto di Mandato Imperativo

Il rapporto eletto-elettore dovrebbe rappresentare per i 5 Stelle un fattore di distinzione. Essi intendono la vera democrazia solo in senso rousseauiano (per Rousseau esiste solo un tipo di democrazia ed è quella diretta), almeno in teoria. Poiché rileggendo le parole di Giancarlo Cancelleri, raccolte per Pubblico Giornale da Angela Gennaro, viene spontanea una riflessione.

Alcuni vi hanno accusato di far firmare dimissioni in bianco ai vostri candidati…
Non è vero. Abbiamo chiesto ai candidati di firmare un documento che si chiama “la voce del movimento”. Recita: «Io sottoscritto mi impegno, qualora venissi eletto, a presentarmi ogni 6 mesi davanti agli elettori e agli attivisti del Movimento 5 Stelle». Gli eletti presenteranno il loro operato e i loro progetti. Se insoddisfatti, gli attivisti potranno proporre una votazione per chiedere le dimissioni dell’eletto.

Che però può rifiutarsi di dimettersi…
Certo. In questo caso lo buttiamo fuori dal movimento. Nell’accordo firmato dai candidati c’è questa formula: «Autorizzo il Movimento 5 Stelle Sicilia a pubblicare su giornali, blog e su qualsiasi mezzo questa frase: “Io XY ho tradito l’idea del movimento 5 stelle e non mi sono dimesso”».

Il tema sono le dimissioni dei candidati eletti ogni sei mesi. Si tratta di una sorta di riesame della ‘buona condotta’ dell’eletto a 5 Stelle, al quale l’Assemblea (degli iscritti?) può revocare la delega. L’eletto, in un modello simile, non è libero di votare secondo la propria coscienza ma deve render conto delle proprie decisioni agli iscritti del Movimento e eventualmente ammettere di essere disallineato rispetto al mandato ricevuto. L’eletto è alla stregua di un lavoratore “dipendente”. In definitiva, prende ordini. Questa è pura retorica grillesca: i deputati e i senatori sono stati dal comico più volte definiti come ‘licenziabili’ perché colpevoli di aver tradito il patto con gli elettori. Il discorso di Grillo può anche essere condiviso, ma si tratta di una eccezione storica: ci troviamo dinanzi al peggior parlamento della Storia della Repubblica ed è naturale aver voglia di cancellarlo.

In Diritto Costituzionale questa vulgata del rappresentante-dipendente si chiama ‘Mandato Imperativo’. E’ l’esatto opposto del mandato rappresentativo. L’eletto siede in Parlamento e risponde del suo operato direttamente all’elettore. Nel nostro ordinamento costituzionale, il mandato imperativo è vietato. E non è uno scandalo, come qualcuno potrebbe obiettare. La norma è contenuta nell’articolo 67 della Costituzione: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.

I due capoversi sono strettamente correlati: ogni parlamentare rappresenta la Nazione; ogni parlamentare esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato. Il primo contiene il concetto di rappresentanza. Il parlamentare rappresenta la Nazione. Non una categoria particolare o una parte, ma tutta la Nazione, intesa come il popolo nell’insieme delle generazioni passate, presenti e future. Egli non risponde delle sue azioni a nessuno, neanche al proprio partito. L’esatto opposto di quel che chiedono i 5 Stelle, che invece vorrebbero sottoporre l’eletto dal popolo non al giudizio di quest’ultimo, che fra l’altro si dovrebbe concretare alle urne con il voto, bensì al giudizio degli iscritti al movimento/partito. Questo aspetto è importante: i 5 Stelle dimenticano di essere democratici e vogliono revocare gli eletti con decisioni interne al partito e così facendo spogliano l’elettore dell’unico controllo che ha sull’eletto, ovvero il voto. Se l’eletto – per così dire – fedifrago, non accetta di dimettersi, viene espulso dal Movimento: con una tecnica che subodora di stalinismo, viene messo all’indice dei traditori del M5S.

Ci sono ragioni storiche da conoscere, prima di avanzare proposte del genere. Il divieto di mandato imperativo è contenuto nella Costituzione Francese del 1791. Il divieto di mandato imperativo ha a che fare con il concetto di rappresentanza e all’idea che esista un interesse generale e superiore a quello derivante dalla mera somma algebrica degli interessi particolari e privatistici di tutti i cittadini. L’interesse generale si costituisce come opposizione all’assolutismo regio. L’interesse generale di un io collettivo (la Nazione) contro l’interesse particolare di un uomo solo. Prima della Rivoluzione Francese del 1989, esistevano forme di parlamentarismo i cui componenti erano i rappresentanti delle varie classi sociali (Nobiltà, Clero, Terzo Stato). I componenti di queste assemblee ricevevano un incarico revocabile ed oneroso; esso, inoltre, recava le indicazioni cui questi doveva attenersi (cahiers de doléance) nelle deliberazioni, tanto che eventuali questioni impreviste non potevano essere discusse senza che il mandatario facesse ritorno alla propria circoscrizione per consultarsi con il mandante e riceverne vincolanti prescrizioni. Essi tutti erano portatori di istanze particolari.

La Costituzione del 1791 definisce il discrimine fra Ancien Regime e Modernità e separa la rappresentanza d’interessi dalla rappresentanza politica. La delega del potere di fare le leggi, che si concreta con il voto, è un vero e proprio atto di investitura. Tutto ciò collide apertamente con la teoria rousseauiana:

 “La sovranità non può venire rappresentata, per la stessa ragione per cui non può essere alienata; essa consiste essenzialmente nella volontà generale e la volontà non si rappresenta: o è essa stessa o è un’altra; una via di mezzo non esiste. I deputati del popolo non sono dunque e non possono essere i suoi rappresentanti, sono solo i suoi commissari. Non possono concludere niente in modo definitivo.”, J. Rousseau, Il contratto sociale, trad. di M. Garin, Roma-Bari, Editori Laterza, 1997, 137.

In Rousseau il mandato a formare il governo è una mera funzione, non un trasferimento temporaneo di poteri. In Rousseau, il cittadino è pienamente coinvolto nel politico, è un cittadino totale. Ma Rousseau non considera che la società moderna è società complessa, è società di massa e che per risolvere tale complessità, tende alla differenziazione delle funzioni. Il sistema politico presiede alla funzione della allocazione delle risorse nel senso dell’interesse generale. La Costituzione del 1791 pone in essere questo sistema per la prima volta nella storia, ricorrendo ai concetti di Nazione e di interesse generale (per una summa sull’argomento: Emmanuel Joseph Sieyès – Wikipedia). E i delegati al sistema politico non potevano avere vincoli mandatari. Certamente il problema del controllo dei deputati non era meno importante. Per Robespierre, esso si deve realizzare mediante la pubblicità dei lavori ed alla revoca delle garanzie del sistema (M. de Robespierre, Sul governo rappresentativo, trad. it. a cura di A. Burgio, Roma, 1995). Se ci pensate, il risveglio dell’opinione pubblica circa l’operato del sistema politico di questi ultimi tre anni, si è avuto in seguito al ritorno della informazione libera sugli atti dei parlamentari. L’informazione riveste un ruolo fondamentale nella funzione della pubblicità degli atti dei parlamentari. Potete bene comprendere che chi controlla l’informazione, controlla l’opinione dell’elettore sull’eletto. Nel corso del tempo, invece, nel nostro ordinamento la revoca delle garanzie si è resa sempre più difficile (es. autorizzazione a procedere). Ed è una conseguenza di quanto sopra: nella penombra lasciata da una informazione cooptata, il parlamentare può essere condizionato da interessi privati, al punto tale da divenirne tutt’uno. Spesso l’interesse privato è anche interesse criminale e di conseguenza gli atti del parlamentare invischiato nella rete privatistica diventano illegali. Ed è così che avviene lo scontro fra il potere legislativo e quello giudiziario. Le assemblee reagiscono alzando le garanzie degli eletti poiché devono preservare il potere di fare le leggi ottenuto in delega dal popolo sovrano. Ma le garanzie, se da un lato evitano il blocco della funzione legislativa, dall’altro conservano lo stato di impudicizia del sistema politico con l’interesse particolare.

I guasti della nostra democrazia rappresentativa non si risolvono trasformando i deputati e i senatori in “cani al guinzaglio”. Il divieto di mandato imperativo è principio costituzionalmente necessario per far sì che le Camere perseguano l’interesse generale della Nazione e non interessi privati. In questa frase è celato il peccato originale italiano: i partiti, queste organizzazioni che non sono né carne né pesce, a metà strada fra la sfera pubblica e quella privata, da collettori di domanda e sostengo della sfera sociale si sono trasformati in gruppi di interesse pienamente privati. La legge elettorale Calderoli, con la formula delle liste bloccate, ha di fatto costituito un aggiramento della norma del divieto di mandato imperativo. Tramite la minaccia delle non rielezione, le segreterie di partito, completamente inquinate dagli intenti privatistici, controllano i deputati e i senatori, avendo da loro la piena disponibilità a votare qualsiasi legge proposta dal vertice.

La lettere di dimissioni in bianco dei M5S vanno nella direzione di rafforzare il controllo del partito/movimento nei confronti degli eletti. Vanno cioè nella direzione sbagliata. Poiché sull’eletto l’unico giudizio non può che provenire dall’elettore, è normale che sia la legge elettorale il problema fondamentale che impedisce una genuina selezione della classe politica. Un movimento come il M5S che afferma di voler cambiare l’esistente nel senso di una maggiore partecipazione e coinvolgimento del cittadino alla dinamica pubblica, dovrebbe pertanto proporre:

  1. la modifica della legge elettorale nel senso della realizzazione di tre principi: governabilità, rappresentanza, circolazione delle élites;
  2. una legge per la rimozione del conflitto di interesse dall’ambito della politica e dell’informazione;
  3. una legge che obblighi ogni partito a dotarsi di uno statuto nel quale siano specificate le modalità di selezione delle candidature, che devono prevedere il grado massimo di inclusività (al livello dell’elettore);
  4. una legge che obblighi ogni partito a rendicontare pubblicamente gli usi dei finanziamenti ricevuti, siano essi pubblici o privati, nonché la lista dei finanziatori e l’entità degli importi ricevuti;
  5. infine – ma qui mi allineo ai 5 Stelle – l’incensurabilità come prerequisito per la candidatura alle cariche elettive.

Grillo & M5S / Il referendum senza quorum visto dalla Costituente

Facendo tesoro del commento seguente, ho deciso di confutare la tesi di Grillo secondo cui una democrazia si realizza esclusivamente per il tramite dell’esercizio diretto della sovranità popolare.

L’eliminazione del quorum è quanto di più democratico e sensato possa fare una classe politica. Chi non va a votare e magari preferisce starsene a casa a vedere il Grande Fratello o banalità del genere non deve impedire agli altri l’esercizio del voto e conseguentemente del risultato! La vita democratica è partecipazione . Ho capito tardi perché a molti notabili ha sempre fatto comodo l’astensione , le non intercettazioni , la non trasparenza . Mi creda è veramente l’ora di finirla ; percepisco da alcune delle sue risposte in questo forum molto equilibrato, un certo suo nervosismo, cerchi piuttosto di convincere anche me e molti altri su questo punto fondamentale della democrazia partecipativa in assenza di vuoti politici ed istituzionali , siamo tutti in attesa di questi risultati siciliani che potrebbero cambiare veramente l’Italia, un cordiale saluto, Claudio (vedi qui).

Claudio, avrei un dovere di sintesi che non mi sento in questo ambito di violare. La sintesi in argomenti così complessi come la differenza fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta è sempre deleteria perché obbliga a semplificazioni. Per evitare, cercherò di trattare un argomento per volta, il primo dei quali, come annunciato, è relativo al referendum popolare e alla proposta di Beppe Grillo di abolire il limite del quorum.

La riforma viene “venduta” sui palchi di mezza Italia come una rivoluzione: la svolta definitiva che realizzerebbe finalmente la democrazia diretta in Italia. Ma qualcuno, mentre ride alle battute del Comiziante, ha pensato quale conseguenza avrebbe questa riforma?

Qualcuno, a suo tempo, al momento cioè di scrivere quella norma, ci aveva già pensato. Si tratta dei nostri padri costituenti, le cui opere sono raccolte sul sito storico della Camera dei Deputati e sono accessibili a chiunque. La norma in questione è l’attuale articolo 75 della Costituzione (nei resoconti parlamentari era il numero 72), che qui vi ripropongo:

Art. 75.

È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge, quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum.

Questo articolo non è stato scritto casualmente. Il referendum popolare è uno strumento che potenzialmente può mettere in blocco un sistema democratico rappresentativo. Può impedire cioè alle istituzioni democraticamente elette di adempiere alla funzione legislativa. L’articolo originario proposto all’Assemblea costituente era radicalmente diverso:

Il referendum poteva colpire inizialmente tutte le leggi proposte in parlamento “dichiarate non urgenti”, una formulazione che è poi stata abbandonata. Si trattava di un referendum di tipo preventivo, o “di veto” su leggi dichiarate dal Parlamento non urgenti. Si trattava cioè di qualcosa molto simile a un potere di veto sulle leggi espresso direttamente per via popolare. Uno strumento evidentemente ispirato al modello della democrazia diretta, forse importato dalla Costituzione della Repubblica di Weimar, in cui il referendum legislativo poteva essere istituito in seguito alla richiesta di sospensione di una legge da parte di almeno un terzo dei deputati. Era una sorta di tutela delle minoranze, laddove la maggioranza avesse approvato leggi contrarie alla vigente opinione pubblica.

Fra i delegati dell’Assemblea Costituente c’era però un signore che si chiamava Palmiro Togliatti. Egli, relativamente al progetto di articolo 72 recante la disposizione sul referendum, disse che:

Il primo comma fu pertanto messo ai voti già durante la discussione preliminare in Commissione, ma l’emendamento che intendeva abrogarlo fu respinto poiché tale Luigi Einaudi sostenne che il pericolo di blocco del sistema legislativo fosse alquanto remoto, dato che sussisteva la clausola della non-urgenza della legge. Bastava che il Parlamento assegnasse in via preliminare questo status a tutte le leggi che intendeva non sottoporre al giudizio popolare e non si sarebbero verificati i pericoli che invece Togliatti aveva ben identificato.

Il comma fu abrogato durante la seduta plenaria. Il presidente della Commissione per la Costituzione, Ruini, una volta aperto il dibattito in Assemblea (era il 16 Ottobre 1947) disse che di questo strumento bisognava farne un “savio e corretto uso”, che significava, e significa tuttora, impiegarlo senza farsi sì che la sovranità popolare diventi di ostacolo all’altro organo istituzionale che il popolo concorre a formare, ovvero il Parlamento. In sostanza, la formulazione così come uscita dalla Commissione, rischiava di mettere in contrasto troppo frequentemente volontà popolari diverse (quella che vota per il Referendum e quella che ha votato per il Parlamento), entrambe legittimamente – ma in tempi diversi – costituitesi. Pensate a quanto siano volatili le opinioni pubbliche sulle varie materie della legislazione. Oppure: a quanto poco importi alla medesima opinione pubblica una legge schiettamente tecnica.

Cinquantamila elettori potevano essere chiamati a raccolta dai partiti di massa e convinti facilmente a firmare per referendum studiati apposta per essere strumento nella battaglia partitica. Quel limite, quello dei cinquantamila, diviene nel testo finale cinquecentomila. E’ un limite che ha causato lunghe discussioni in Assemblea plenaria, poiché alcuni politici come Grassi temevano che divenisse una “notevole remora”, un notevole elemento di dissuasione.

In ogni caso, essendo la sovranità soggetta a dei limiti (art. 1 comma 2, Cost. It: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”), gli strumenti che permettono al popolo di esercitarla direttamente, sono essi stessi soggetti a dei limiti. Il limite naturale del referendum è la medesima Costituzione, la quale prevede che il potere legislativo sia esercitato dalle due Camere, le quali sono a loro volta espressione della volontà popolare, che interviene nella loro composizione in libere elezioni a suffragio universale.

Una democrazia parlamentare si fonda sul sistema del check and balance, ovvero del controllo fra i poteri e dell’equilibrio fra i poteri. Eliminare il quorum dal referendum abrogativo eliminerebbe il balance fra sovranità popolari e metterebbe in mano a minoranze il potere abrogativo delle leggi. I padri costituenti, stabilendo al comma 2 che “non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”, ha ribadito nuovamente che la sovranità popolare non è illimitata e che il Sovrano non è legibus solutus. La sovranità è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione. Perché non è ammissibile il referendum in materia tributaria? Perché il popolo non può legiferare su leggi che sono contrarie ai propri interessi. Così come non può decidere sui trattati internazionali, tramite i quali la Repubblica realizza la politica di pace contenuta nell’articolo 11 della medesima Costituzione. E’ per questa ragione che un referendum sull’Euro sarebbe inammissibile. L’Euro è stato istituito in seguito a un trattato internazionale, il cosiddetto Trattato di Maastricht, ed è attualmente parte dl pilastro più solido della integrazione europea, la miglior via per la pace che questo travagliato continente ha trovato nel secondo dopoguerra. Chi vi racconta di volere far votare il popolo sulla moneta unica, vi sta mentendo o è “costituzionalmente” ignorante.

Per le stesse medesime ragioni per cui i padri costituenti non ammisero il referendum preventivo sulle leggi ‘non urgenti’, così oggi noi dovremmo rifiutare la proposta-Grillo, a meno di non voler trasformare la vita legislativa di questo paese in una “Cambogia” ancor peggiore di quella attuale. Semmai, eventuali riforme dovrebbero andare nel senso di evitare che il Parlamento non sia più, come è accaduto in questi anni, il luogo di rappresentazione di interessi particolari, bensì sia ri-pubblicizzato (nel senso di orientato al bene pubblico). E per fare ciò si dovrebbe agire sulla legge elettorale, in primis.

In che modo l’astensione di una parte maggioritaria impedirebbe ad una minoranza “l’esercizio del voto e conseguentemente del risultato”? Che razza di diritto sarebbe mai questo? Non è una democrazia quel paese in cui le minoranze dettano le regole a maggioranze silenti. Semmai sono oligarchie, plutocrazie, dittature, ma non democrazie. La domanda di maggior partecipazione non può non essere colta, ma la partecipazione deve essere regolata. Il difetto sistemico più grave è che i soggetti preposti a indirizzare domande e sostegno da parte del sistema sociale verso il sistema politico, ovvero i partiti politici, sono sempre stati – volutamente? – lasciati in un limbo giuridico, né soggetti di diritto pubblico, né soggetti di diritto privato, ma in ogni caso gestiti come macchine per la produzione di consenso e la gestione di bacini di clientele elettorali.

Uno qualunque dei candidati a 5 Stelle che avesse avuto un minimo di cultura politica e giuridica, sentendo dal palco Grillo invocare l’eliminazione del quorum nei referendum, avrebbe dovuto (e sottolineo il dovuto) esprimere la propria contrarietà a questa proposta. Non si tratta di una mera opinione; si tratta di una idea che contrasta con i principi cardine del nostro sistema costituzionale, contenuti agli articoli 1 e 11. Per questo vado dicendo che Cancelleri, anche se ha avuto la parola sul palco, non ha fatto sentire la propria voce. La voce è qualcosa che distingue immediatamente tutti noi. La voce rimanda direttamente alla carne; “la voce esprime il chi e’ di ciascuno” (cfr. A. Cavarero). Ma la voce di Cancelleri non è la sua propria vera voce. Essa non racconta nulla di sé medesimo, della propria intenzione politica, ma è una voce imitativa che replica il solito refrain anticasta.

Sitografia:

Assemblea costituente 1946-1948

Seduta del 16 Ottobre 1947

Seduta della Commissione per la Costituzione del 29 Gennaio 1947

[seguirà post sul Divieto di Mandato Imperativo, art. 67 Costituzione]