Mario Monti che rifiutò la lottizzazione dell’Iri

Beppe Grillo ha ricordato negli ultimi suoi comizi che Mario Monti è stato consigliere dell’ex ministro del Bilancio Cirino Pomicino nei furiosi anni 1989, ’90, ’91 e ’92, quelli che produssero il profondissimo debito pubblico italiano e che portarono proprio nel 1992 la Lira e l’Italia a un passo dal default. Facile l’equazione: Mario Monti è stato complice degli artefici del debito! Prova inoppugnabile: nella sua biografia non compare neanche una riga di quella antica consulenza.

Ho voluto guardarci più a fondo. Ho impiegato come strumento di ricerca l’Archivio Storico de La Stampa. Dovrebbe essere il punto di partenza per chiunque voglia scrivere sui blog. D’altronde, forse per deformazione professionale, non mi posso accontentare di accettare le affermazioni di Grillo o di chicchessia senza tentarne una verifica. E poco serve sapere che è stato proprio Cirino Pomicino a ricordarci questo fatto.

Iniziamo con il dire che Cirino Pomicino fu Ministro per la Programmazione Economica e il Bilancio nel governo Andreotti, ovvero dal 22 luglio 1989 al 28 giugno 1992. In realtà, Monti fu nominato, insieme ad altri economisti già durante il precedente governo De Mita, dall’allora Ministro del Tesoro Giuliano Amato. Strana coincidenza: oggi Amato viene chiamato come super consulente sui tagli della politica. Evidentemente fra i due vige una stima reciproca:

Stampasera, 04.05.1988

E’ curioso vedere che del comitato scientifico scelto da Amato facesse parte anche Francesco Giavazzi, economista, bocconiano, molto amico di Mario Monti e suo acceso critico dalle colonne del Corriere della Sera, fresco di nomina a consigliere per il riordino degli incentivi alle Imprese. Era il 1988, quindi. Nel frattempo Monti (22.10.1989) diventa per la prima volta rettore della Bocconi, il governo De Mita cade, viene varato un nuovo esecutivo a guida Andreotti, quello che conduce direttamente alle strage di Capaci. Cosa succede a Mario Monti? Davvero dicenta “complice” dello sfacelo economico di quel periodo?

Ho una vaga idea che non sia così. E ve lo dimostro con due indizi. Due indizi non fanno una prova, ma aiutano.

Primo indizio.

Nel 1989, a Marzo, il governo Amato ha un deficit di 17-18 mila miliardi di lire. Ad agosto, con il nuovo governo, il buco si incrementa di altri dieci mila miliardi di lire. Il ministro del Tesoro era Guido Carli e il nuovo buco fu reso manifesto in seguito alle critiche dell’economista Mario Monti giunte dalle colonne del Corriere della Sera sulla politica economica dell’esecutivo Andreotti. Non è chiaro se il comitato scientifico creato da Amato fosse allora ancora in essere, ma si presume che non lo fosse.

Secondo indizio.

Non c’è traccia della nomina di Monti a consigliere di Cirino Pomicino. C’è invece traccia di un vero e proprio scandalo che coinvolse l’attuale presidente del consiglio. Monti era infatti anche vicepresidente della Comit, la Banca Commerciale Italiana (oggi confluita in Intesa Sanpaolo). Era una delle tre banche di interesse nazionale (BIN) ed era controllata dall’Iri, quindi dal Tesoro. Nel 1990, nella più tradizionale consuetudine da Prima Repubblica, i vertici della banca vengono lottizzati. E Monti che fa? Semplicemente sbatte la porta.

Il presidente Enrico Braggiotti lascia il più importante degli Istituti dell’Iri, e gli succede Sergio Siglienti, attuale amministratore delegato, a sua volta sostituito dal direttore generale Luigi Fausti. Alla Comit non c’è stato il ribaltone che ha sconvolto il Credito Italiano. Tutte nomine interne, come nella tradizione della banca milanese. L’unica eccezione è il de Camillo Ferrari, designato alla vice presidenza. Un caso clamoroso, comunque, è scoppiato. Il rettore dell’Università Bocconi, Mario Monti, non accetta di restare alla vice presidenza della Comit. In una lettera inviata a Siglienti (e per conoscenza al presidente dell’Iri, Franco Nobili), Monti chiede di «non dare corso alla proposta della mia conferma a vice presidente». Scrive l’economista: «Il contesto nel quale la conferma avverrebbe, l’elevazione a tre del numero dei vice presidenti e il peculiare significato che nell’insieme delle banche d’interesse nazionale sembra ora essere stato attribuito alle vice presidenze, mi fanno ritenere che si tratterebbe di un incarico essenzialmente formale, non giustificato da esigenze funzionali, non in linea con la tradizionale sobrietà della struttura di vertice della nostra banca. Poiché non intendo contribuire a tale evoluzione, chiedo di essere sollevato dalla vice presidenza». Monti informa Siglienti di essere «disponibile a contribuire all’amministrazione della banca nella veste di semplice consigliere, se Tiri e lei lo vorranno». E’ chiaro che Monti non contesta Siglienti o i due amministratori delegati, Fausti e Mario Arcari, persone verso le quali ha la più totale fiducia. Semplicemente non vuole essere confuso con altri vice presidenti (Palladino e Ferrari) di nomina chiaramente politica e sottolinea di non condividere quel «peculiare significato», cioè l’elezione dei vice presidenti secondo criteri di appartenenza partitica e non di professionalità, che ha distinto questa tornata di nomine delle Bin. Monti non aveva cariche operative alla Comit, ma il suo rifiuto, in un momento in cui tutti fanno l’impossibile per ottenere poltrone più o meno importanti, è certamente un fatto molto significativo anche se, purtroppo, isolato (La Stampa, 26 Maggio 1990).

Questa è verità storica, documentata. Non altro. Gianfranco Rotondi potrà dire che Monti era collaboratore di Pomicino, ma peccato che ciò non sia scritto da nessuna parte. Difficile credere a Gianfranco Rotondi. Difficile credere a chi crede a Gianfranco Rotondi. Detto ciò, non significa che tutto quel che fa il governo Monti è giusto. Ma è sbagliato attaccarlo per il suo ruolo negli anni della prima Repubblica.

Pareggio di Bilancio in Costituzione passa in sordina alla Camera

La Camera approva, in sordina, mentre l’opinione pubblica discetta di eliminazione dei vitalizi dei parlamentari, la nuova norma costituzionale che introduce fra i principi fondamentali dello Stato quello del pareggio di bilancio. Eppure, considerati i tempi che corrono, una maggior attenzione a una norma di tale portata andrebbe posta.

L’iniziale proposta di legge del governo è stata affiancata da ulteriori proposte, una anche a firma del PD (primo firmatario il segretario, Bersani) e tutto questo innovativo corpus normativo è divenuto nella trattazione in Commissione un unico faldone, da oggi ufficialmente approvato in prima lettura dalla Camera.

Il principio del pareggio di bilancio è molto semplice da capire e si potrebbe risolvere in un comma, molto breve, che modifichi l’art. 81 della Costituzione. E così dovrebbe essere:

PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE

Art. 1.

1. All’articolo 81 della Costituzione sono aggiunti, in fine, i seguenti commi:

«L’equilibrio annuale di bilancio deve essere raggiunto senza ricorso al debito pubblico. Le entrate derivanti dal debito pubblico devono essere destinate esclusivamente a spese di investimento. La legge ordinaria definisce le procedure per l’attuazione delle disposizioni dei commi quinto e sesto e individua gli investimenti da effettuare nel corso di ogni singolo esercizio finanziario».

I vincoli introdotti sono in realtà ben più del solo pareggio di bilancio. Si tratta di:

  1. pareggio di bilancio senza ricorso al debito;
  2. entrate derivanti dal debito pubblico impiegate esclusivamente per gli investimenti;
  3. gli investimenti da effettuare sono individuati mediante legge (riserva di legge).

In sede di disciplina attuativa dei principi costituzionali, dovranno però essere definiti con maggior precisione:

– la platea dei soggetti istituzionali tenuti a rispettare il vincolo di bilancio (ci saranno dei soggeti esclusi? se sì, quali?);

– il carattere consolidato (per tutta la PA) o individuale (per i singoli enti) del vincolo stesso;

– gli aggregati contabili da prendere in considerazione, riguardanti sia i saldi di bilancio (saldo nominale o strutturale, inclusione o esclusione delle partite finanziarie, possibilità o meno di poste fuori bilancio) che il debito (inclusione o esclusione dei debiti di fornitura);

– i criteri contabili da utilizzare (competenza giuridica o economica, cassa o competenza mista);

– l’arco temporale di riferimento (il singolo esercizio o un arco pluriennale di durata da definire con riferimento agli enti territoriali).

Va da sè che la formulazione del terzo comma dell’art. 81 della Costituzione parla di equilibrio annuale dei bilancio e solo in via interpretativa lo possiamo definire pareggio. Ma si tratta di pareggio contabile  o di sostenibilità? Ovvero, il criterio dell’equilibrio ha delle sfumature oppure indica inequivocabilmente l’equilibrio delle entrate e delle uscite? Nei lavori preparatori della Camera viene fornita la seguente spiegazione:

Qualora il termine “equilibrio” debba essere inteso come pareggio contabile, ne conseguirebbe che, in presenza di uno stock di debito e di una conseguente componente di spesa per interessi, il saldo primario dovrebbe essere necessariamente in avanzo di un ammontare sufficiente a pareggiare la spesa per interessi, in modo tale da annullare il deficit e garantire il pareggio. L’assenza di un deficit comporterebbe l’invarianza nel tempo dello stock nominale di debito. In presenza di una condizione di crescita, anche moderata, del PIL, ne conseguirebbe la tendenza alla progressiva riduzione del rapporto debito/Pil. Tale tendenza non potrebbe arrestarsi nemmeno quando il predetto rapporto dovesse scendere sotto una determinata soglia (ad esempio quella del 60% definita in sede comunitaria), in quanto l’obbligo di equilibrio di bilancio sancito in costituzione (qualora esso vada inteso come pareggio contabile) non verrebbe meno. L’adozione del vincolo del pareggio, riferito al saldo complessivo di bilancio, implicherebbe quindi l’adozione implicita dell’obiettivo di progressivo annullamento del rapporto debito/Pil (Atto Camera C. 4620/4205/4525/4596/4607, scheda di lettura n. 551).

In sostanza, l’obiettivo posto dalla nuova norma costituzionale è realizzare costantemente un avanzo primario al fine di abbattere il debito. Allo stesso tempo non è specificato quali debbano essere i mezzi per realizzare questo avanzo primario. Naturalmente un ente pubblico può indebitarsi garantendo l’equilibrio. Ma se lo fa mettendo a bilancio entrate che non è sicuro di avere? Il problema potrebbe essere scoperto solo in fase di bilancio consuntivo, quando emergerebbe il vero buco di bilancio e il fallimento dell’obiettivo dell’equilibrio sancito costituzionalmente. E poi? Cosa succede all’amministratore che bara sul bilancio?

Nella nostra normativa è già presente la fattispecie dei “grave dissesto finanziario”, che può comportare la rimozione, per esempio, del presidente della regione, cui si applicano per un periodo decennale la sanzione dell’incandidabilità ed altre sanzioni interdittive (decreto legislativo 6 settembre 2011, n.149, recante la disciplina dei meccanismi sanzionatori e premiali relativi a regioni, province e comuni). Il nuovo testo dell’art. 81 prevede comunque che “a garanzia del corretto perseguimento del principio dell’equilibrio di bilancio”, debbano essere assicurate “verifiche a consuntivo e le eventuali misure di correzione”. Il legislatore sembra riferirsi a “quel complesso di procedure, già previste dalla legislazione in materia di contabilità e finanza pubblica, che prevedono attività di monitoraggio degli effetti finanziari di norme in vigore nonché degli andamenti complessivi di finanza pubblica e, in esito a tali procedure, meccanismi correttivi da porre in essere nel caso in cui si registrino oneri che eccedano le previsioni originarie ovvero scostamenti rispetto ad equilibri sanciti con gli strumenti di programmazione” (Scheda di lettura n. 551).

Si richiamano inoltre le previsioni del comma 13 del medesimo art. 17 della legge n. 196/2009, riguardanti, più in generale, le attività di monitoraggio poste in essere dal Governo rispetto agli andamenti complessivi di finanza pubblica. Il Ministro dell’economia e delle finanze, allorché riscontri che l’attuazione di leggi rechi pregiudizio al conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica, assume tempestivamente le conseguenti iniziative legislative al fine di assicurare il rispetto del vincolo costituzionale di copertura finanziaria delle leggi. La medesima procedura è applicata in caso di sentenze definitive di organi giurisdizionali e della Corte costituzionale recanti interpretazioni della normativa vigente suscettibili di determinare maggiori oneri (ibidem).

Si tratta del commissariamento? Che fu minacciato da Tremonti quando la sanità pugliese sembrava essere al tracollo? E’ possibile che questa attività di monitoraggio sia lasciata al governo? Oppure è necessaria una autority indipendente che attui le verifiche e denunci il comportamento illegittimo alla Corte dei Conti?

Può Tremonti allargare i cordoni della borsa? La risposta è: no! no! no!

Tremonti, l’uomo del governo che ha un seggio al Club Bilderberg, è la pietra dello scandalo, il capro espiatorio a cui sia Lega che PdL possono orientare le ire del proprio elettorato. Già il governo è per metà contro di lui – Prestigiacomo, Brunetta, Carfagna – ora Giulio rischia di cadere davvero per il fuoco amico. Peccato che non si dica che Tremonti è un ministro senza portafoglio. Non ha potere di spesa poiché quel potere, o sovranità, è migrata altrove, a Bruxelles, in Consiglio Europeo. Nessuno ve l’ha detto, è chiaro. Poiché tale cessione di sovranità doveva perlomeno avvenire in conseguenza di un nuovo trattato europeo – in mancanza di costituzione…; invece è avvenuta a nostra insaputa, senza voto del parlamento, senza discussione pubblica. Chi scrive è europeista convinto, ma l’Europa plutocraica di Bruxelles è quanto di più distanti ci possa essere dall’Eropa federale di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli.

Cosa è accaduto: in seguito a uno dei periodici picchi della crisi del debito, i governi europei lo scorso 24 Marzo hanno stabilito di comune accordo alcuni punti fissi, i paletti della politica economica europea, una vera e propria riforma della governance europea:

  1. raggiungere il pareggio di bilancio entro 5 anni;
  2. ridurre il debito per un importo annuale pari ad un ventesimo della cifra eccedente il rapporto del 60 per cento fra debito e PIL;
  3.  sanzioni per chi non rispetta i punti 1 e 2;  al tal scopo i governi europei concordano una serie di azioni legislative volte a rafforzare tali sanzioni – il cosiddetto Six Packe a rendere automatica la loro applicazione, attraverso il reverse mechanism, una sorta di silenzio-assenso (la commissione fa partire le sanzioni salvo opposizione del Consiglio);
  4. tramite l’Euro plus Pact e il Semestre Europeo si esplicano le attività di indirizzo e controllo sulle politiche nazionali: da un alto, con l’Euro plus Pact, attuando politiche fortemente liberiste su lavoro, flessibilità, salari; dall’altra, attraverso la presidenza del Semestre, mettendo in pratica la sorveglianza sui conti pubblici ed emettendo raccomandazioni a carattere vincolante, sempre improntate a liberalizzazioni e a riforme liberiste.

Di fatto i governi nazionali sono messi sotto controllo di Bruxelles. Tutto bene se non fosse che il potere di Bruxelles non è democratico ma tecnocratico, ed è espressione della peggior razza presente sulla terra oggi, le Banche.

Tradotto per l’Italia:

Per l’Italia, che ha un rapporto debito/PIL eccedente il 110%, questo implica una riduzione compresa fra due e tre punti percentuali di tale rapporto, almeno per i primi anni (…). Si tratta di un aggiustamento importante, pari in valore assoluto ad oltre 40 miliardi di euro l’anno”[fonte] Tale importo potrebbe diminuire in presenza di una crescita significativa del PIL, mentre “minore sarà la crescita del PIL, maggiore sarà l’onere a carico della finanza pubblica, onere che potrebbe velocemente diventare insostenibile nell’ipotesi di un tasso di crescita non superiore all’1% annuo [fonte].

Ora rispondete alla domanda: Tremonti è in grado di allargare i cordoni della borsa? E colui che verrà dopo di lui?

Qui non approfondisco il tema della democrazia delle istituzioni europee nonché del dilemma stato centrale o sovranità limitata. Certo, gli indignati d’Europa dovrebbero lottare per istituzioni democratiche a Bruxelles. Dovrebbero rendersi conto da chi davvero sono governati.

La Guerra del Futuro e la ricerca del nemico

La morte di Osama non smette di occupare le pagine dei giornali. Ho già detto delle “due” morti di Osama: quella del corpo e quella dell’ologramma. Ieri i video rilasciati dal Pentagono, a loro dire sequestrati nel “compound” di Abbottabad, hanno mostrato un Osama invecchiato e intento a rimirarsi nei video messaggi preparati per i suoi seguaci. Una visione paradossale del misero ometto che osserva se stesso, “icona” del male, rapito dallo schermo e trasformato in questa mimesis del Capo della jihad.

Osama non era un nemico diretto degli Stati Uniti. L’intento suo ultimo era quello di rovesciare la monarchia saudita. L’Occidente doveva essere cacciato dalla Terra Santa, e Terra Santa era la terra dell’Islam. Ben prima delle Torri Gemelle, sul finire degli anni novanta, il lungo conflitto del terrore era già ampiamente teorizzato dall’amministrazione americana come conflitto del futuro: così disse Madeleine Albright, allora segretario di stato del Presidente Clinton, secondo la quale per tramite di quella guerra si sarebbe deciso il “nostro declino o la nostra sopravvivenza politica”. Non aveva torto: oggi sappiamo che dopo l’11 Settembre gli Stati Uniti non sono più riusciti a realizzare il pareggio di bilancio, che il debito pubblico americano ha un “destino greco” scritto addosso e il dollaro presto o tardi subirà una svalutazione che peserà sull’intero sistema commerciale mondiale. Se di sopravvivenza politica si tratta, sarà necessariamente connotata dal declino nella potenza globale quale essi sono stati fino a questo momento. E se al tempo di Clinton gli USA necessitavano di un nemico – selezionato e individuato in Osama Bin Laden e nella sua rete terroristica – l’odierno è fatto di masse in agitazione che rovesciano regimi corrotti al potere da trent’anni. E l’America, terra della libertà, non può stare dalla parte di quegli attempati dittatori. Gli USA non possono ricercare il nuovo nemico nelle masse arabe. Pertanto, il sistema dualistico che dal dopoguerra ha regolato i rapporti internazionali (dalla spartizione di Yalta al bushiano “o con noi o contro di noi”) non trova più alcuna applicazione nel nuovo scenario. Obama forse questo lo sa; forse ne è stato il primo teorico con il concetto della multilateralità. La sopravvivenza politica degli USA passa oggi per il ritorno a una democratizzazione dei rapporti fra le nazioni. Passa per forza di cose per il modello europeo della multigovernance (seppur con notevoli difetti). Poiché lasciare l’ordine mondiale alla mercé delle contrattazioni fra le nuove potenze commerciali, significa di nuovo caos, dazi doganali, guerre per il mercato.

Euro-Dollaro, partita a scacchi sull’orlo del default. E Tremonti balla con il morto.

L’Euro non è mai stato così in sofferenza sul Dollaro come in questi giorni. E come potrebbe essere possibile? Il Dollaro USA è gravato da un debito che si aggira intrno all’11% del PIL, fatto che sta facendo drizzare i capelli agli americani e al presidente Obama, alle prese con i mugugni del ceto abbiente – che non vuole scangiare un cent in più di tasse – e la lobby della Guerra, che chiede soldi e ne mangia a palate. Secondo alcuni, il dollaro è carta straccia. Non ce la farà a sopravvivere a lungo come moneta di riferimento negli scambi internazionali, in primis nel mercato del petrolio. Tutti cercano di liberarsene:

  • in primis, la recente iniziativa dell’Argentina e del Brasile di volere ridurre il peso del dollaro come moneta di riferimento nelle loro transazioni, sostituendolo con valute locali, promuovendo nel 2008 il “Sistema di Pagamento in Monete Locali (SML)
  • Si prevede che verso la fine del 2010 si moltiplichino per 10 le attuali transazioni intra mercato e bisogna rendere evidente che lo SML si è usato nell’80% dei casi nel 2009 da parte delle piccole e medie imprese del Mercosur
  • L’Alternativa Bolivariana per i Popoli della Nostra America (ALBA: Bolivia, Venezuela, Cuba, Nicaragua, e Repubblica Dominicana. L’Honduras, dopo il colpo di stato, non forma più parte del blocco; l’Ecuador partecipa, ma formalmente non forma parte dello stesso), sta orchestrando misure per staccarsi dalla dipendenza del dollaro come moneta di scambio internazionale e, per raggiungere quest’obiettivo, ha convenuto che per quest’anno le operazioni tra i soci si eseguano con “il SUCRE”: Sistema Unificato di Compensazione Regionale dei Pagamenti, come nuova moneta dell’ALBA – fonte: Il Sudamarica si rende libero dalla tutela del dollaro, di Carlos A. Pereyra Mele, uno dei più importanti geopolitici argentini della nuova generazione. Membro del Centro de Estudios Estratégicos Suramericanos ha recentemente partecipato alla realizzazione del “Diccionario latinoamericano de seguridad y geopolítica“. I suoi lavori sono pubblicati regolarmente in Eurasia. Rivista di Studi Geopolitici, tra i suoi contributi: Difesa nazionale e integrazione regionale (nr. 3/2007, pp. 101-106), La guerra infinita in America (nr. 4/2008, pp. 125-129)

Ma in Europa c’è un problema, e questo problema si chiama Grecia (ma domani potrebbe chiamarsi Spagna, Belgio, o perché no, Italia): a fine Febbraio molta parte del debito della Grecia giunge a scadenza, dovrà essere restituito. Con quali soldi? Chi può oggi acquistare il debito greco senza farsi troppo male? C’è qualcuno che ha in mano “carta che scotta”: questa carta che scotta è – udite, udite – il dollaro; questo qualcuno è niente di meno che la Cina.

    • Tramite la banca americana Goldman Sachs il ministro delle finanze della Grecia sta provando a vendere buoni del tesoro nazionali lì dove la liquidità per tali acquisti di certo non manca: ovvero in Cina. Atene sta infatti cercando di piazzare buoni del tesoro per un valore di oltre 25 bilioni di Euro, per ri-finanziare il proprio debito nazionale.
    • Con i suoi 2.4 trilioni di riserve in dollari americani la Banca centrale Cinese potrebbe essere il maggior acquirente del debito Greco; i bond in Euro sarebbero infatti una occasione ghiotta per  allentare un poco la dipendenza di Beijing dal dollaro americano
    • Onde evitare una bancarotta, bisogna fare in fretta, perché molti dei debiti di Atene sono in scadenza proprio a fine Febbraio. In cambio la Grecia promette una nuova disciplina fiscale e l’introduzione di nuove rigidità di spesa – sociale anzitutto.
    • il dragone cinese sembra scettico: secondo gli ufficiali finanziari di Pechino si tratterebbe infatti di un acquisto troppo rischioso

Bond in euro? Chi ha parlato di bond in euro? Non certo Tremonti. Lui, i bond, ve li ha venduti in dollari. Bella fregatura. E chi poteva immaginarselo che ora la Grecia aiuta la Cina a disfarsi di quella sporca dozzina per cambiarla con degli Euro. Solo un economista poteva saperlo. Solo un economista a capo del Dicastero dell’Economia poteva emettere titoli di debito in dollari rimborsabili in euro. Il risultato? Eccolo, fatevi due conti.

    • Ammettiamo che con tale operazione riesca a raccogliere 1.000 milioni di dollari, da restituire con un interesse ad esempio del 5%, che porta il debito complessivo a 1.050 milioni di dollari. Oggi, al cambio di 1,41 dollari per Euro, si ritroverebbe ad incassare circa 710 milioni di euro. Se il dollaro, in questi cinque anni si dovesse svalutare ad esempio del 50%, passando dagli attuali 1,41 a 2,11, lo stato italiano si ritroverebbe a dover pagare, per i 1.050 milioni di dollari ricevuti cinque anni prima, meno di 500 milioni di Euro

Riassumendo: il dollaro è cartaccia – poiché il debito USA cresce ogni giorno silenzioso come la piena di un fiume; ciò che evita il tracollo è il fatto che le principali transazioni commerciali sono fatte in dollari, quindi ogni paese se ne deve tenere un scorta più o meno grande; si sta cercando di sostituire il dollaro con un’altra moneta, lo yuan cinese o addirittura l’euro – anche l’Arabia Saudita lo vorrebbe e gli USA per tenerseli buoni farebbero la guerra a tutti i nemici dei Sauditi, se lo potessero fare; il debito europeo cerca acquirenti e lo può trovare nei nuovi padroni del mondo, che hanno già distrutto il tessuto della piccola e media industria europea e non sono una democrazia.
Come andrà a finire, allora? Che l’impero USA finirà in un default stile Argentina, e la Cina si comprerà l’Europa. Pazzesco. E c’era chi diceva che la teoria marxista della implosione del sistema capitalistico era falsa. Tzé.