El rescate delle Banche spagnole: le severe condizioni dell’Eurogruppo

El rescate, “salvataggio”, in termini tecnici “bailout”: il Fondo salva Stati fa il suo debutto come salva-banche e si propone come un alter ego del Fondo Monetario Internazionale. Ovvero: fornisce aiuti in cambio di politiche. Politiche generalmente punitive contro il bilancio statale. Si era discettato a lungo sul fatto che il EFSF (che presto diventerà MES, Meccanismo Europeo di Stabilità) nell’ultima variante decisa nell’ultimo Consiglio Europeo a Bruxelles, quello della vittoria dei Mario’s, non avrebbe dovuto prevedere l’assoggettamento dei governi nazionali alla Troika, Commissione, BCE, FMI, la triade del fallimento greco. Lo aveva affermato lo stesso Monti, nell’intervista conclusiva del vertice. Ma la chiusura della riunione dell’Eurogruppo, avvenuta oggi pomeriggio, ha stabilito con la formula del “Memorandum od Understanding” le dure condizioni (o imposizioni) al governo spagnolo per ottenere il fatidico bailout, il maxi prestito per salvare il proprio sistema finanziario. E la Troika è ancora là.

“Terapia de choque”, scrivono su El Pais. La Spagna ha ottenuto una dilazione di un anno nei termini per il riallineamento del rapporto deficit/PIL al 3%, dal 2013 al 2014, oltre ai 30 miliardi di euro del EFSF. Ma a quale prezzo?

Innanzitutto si tratta di un prestito: i 30 miliardi dovranno essere restituiti con un interesse del 4% (è il tasso di interesse al quale si finanzia il Fondo europeo di salvataggio EFSF maggiorato di uno spread compreso tra mezzo punto e un punto); il fondo di salvataggio europeo inietta queste obbligazioni – con una scadenza media di 12,5 anni – nel fondo di salvataggio spagnolo (FROB), e questo nel bilancio delle istituzioni bancarie che ne hanno bisogno. La banca può mantenere tali titoli nel proprio bilancio o bussare alla porta della BCE per ottenere denaro sonante. Non vi è alcun “periodo di grazia”, la principale delle obbligazioni è pagata alla scadenza (10 a 15 anni), mentre gli interessi sono pagati annualmente.

Le banche spagnole verranno suddivise in tre gruppi. Un primo gruppo dovrà operare una forte ristrutturazione dei propri assets già a partire dal 20 Luglio, giorno in cui EFSF verserà i 30 miliardi al FROB. I piani delle ristrutturazioni saranno esaminati fra Ottobre e Novembre dalla BCE, che potrà respingerli, chiedere integrazioni o approvarli senza modifiche. I piani per le ricapitalizzazioni dovranno essere presentati ad Ottobre.

La Spagna ha ricevuto il prestito in cambio di una rigorosa politica fiscale, e riforme della vigilanza bancaria: in pratica dovranno formalizzare mediante leggi nazionali la possibilità per le autorità europee di effettuare la vigilanza sul sistema bancario spagnolo: di fatto un esproprio di sovranità anche se meno intenso rispetto a quanto fatto con Grecia, Portogallo e Irlanda. Bruxelles chiede nuove misure fiscali immediatamente. Il governo ha annunciato un aumento dell’IVA. Forse non basterà. Forse la Spagna dovrà rimetter mano alla previdenza sociale. La Troika invierà le missioni in Spagna ogni tre mesi, e si assume di fatto potere sulla vigilanza finanziaria delle banche.

Non è chiaro però se le ristrutturazioni bancarie impediranno del tutto ai banksters spagnoli di poter operare liberamente sui titoli tossici, o su assets molto rischiosi. Ristrutturazione significa ridurre l’esposizione attuale ma non di certo impedire ai traders di fare il loro “sporco mestiere”. Il bailout spagnolo rischia di essere quello che non dovrebbe: un salva-banche, affinché queste ultime proseguano a far crescere quel mostro bruto del giro d’affari dei Derivati.

Allegato:

Memorandum_of_Understanding

Eurogruppo: serve più Europa, lo dicono tutti. Serve pure più democrazia (non lo dice nessuno)

Lo dicono tutti. Lo ha detto persino Tremonti, ieri, in aula alla Camera. Lo dice Berlusconi, lo ha detto Angela Merkel e persino Barack Obama, con un piede in una pozza di petrolio e l’altro paralizzato dalla paura di un nuovo attentato. Serve più Europa. Sì, ma quale? Quell’opera bizzarra uscita dal Trattato di Lisbona? Quella invenzione di ingegneria politica della peggior specie che ha prodotto un Presidente del Consiglio ectoplasmatico come Van Rompuy, un simpatico pensionato che ha messo da parte le bocce per occuparsi di Unione europea – un bel salto, non credete? E che dire dell’Alto Rappresentante della PESD, della politica estera, di sicurezza e difesa comune che risponde al nome di Catherine Ashton? Come poter infierire su tal modesta personcina.

Il problema della UE sono le persone, ma non sono solo le persone. Nel 1992 governanti del calibro di Francois Mitterand e Helmuth Kohl affrontarono l’ignoto del dopo 1989 e inventarono l’euro, come passo per una sempre più stretta integrazione economica, supponendo che l’economia avrebbe prima o poi trascinato anche la politica verso il medesimo progresso. E ora, nel 2010, sulle ceneri della finanza mondiale, distrutta dai cani di Wall Street e dalla globalizzazione in salsa blairiana, l’economia trascina verso il baratro la politica, quest’ultima incapace di scelte coraggiose. Oggi, a differenza di allora, gli uomini al governo latitano: tutti, dalla vanagloria di Sarkozy al germanocentrismo della Merkel, passando per i biechi funzionari della BCE, Trichet in primis, incapaci di parlare una lingua che non sia quella tecnica degli spread e dei tassi di crescita, sembrano condannati ai fallimenti piuttosto che al superamento della crisi. Manca quella visione del futuro che i protagonisti del 1992 avevano ben chiara dentro sé, illuminati come erano da europeisti come Jacques Delors:

Il mio obiettivo è che entro la fine del millennio, l’Europa abbia una federazione vera. La Commissione dovrebbe diventare un dirigente politico che può definire essenziali interessi comuni … responsabile dinanzi al Parlamento europeo e prima degli Stati-nazione rappresentati come credete, dal Consiglio europeo o da una seconda camera dei parlamenti nazionali – J. Delors per la televisione francese (23 Gen 1990).

Ora si scontano i danni della politica indecente dell’allargamento ad Est, affrontato senza una vera riforma del meccanismo decisionale, e degli anni post 11 Settembre, della ‘Nuova Europa’ disegnata dalla mente dissociata di George W. Bush in cui l’asse fondante Franco-Tedesco veniva messo da parte e sostituito da una costellazione di paesi filoamericanisti a cui noi italiani abbiamo dato immeritato lustro:

L’Unione europea per troppo tempo è rimasta in una condizione di incertezza e gli ultimi anni – dai referendum olandese e francese, al travaglio lunghissimo con cui si è giunti al Trattato di Lisbona – hanno fortemente logorato l’Ue e la sua credibilità. Oggi sotto l’incalzare della crisi l’Europa deve decidere: se tornare indietro alla riva da cui è partita o se approdare alla riva cui tende […] Tutto questo manifesta una debolezza strutturale che mette a repentaglio il processo di integrazione e abbiamo davvero la necessità di trarre da questa crisi un’unica conseguenza: va bandita qualsiasi suggestione alla rinazionalizzazione delle politiche, che nel tempo della globalizzazione sarebbe la scelta più sbagliata. Dalla crisi si esce non con l’Europa minima, ma con la massima Europa possibile. Non con meno Europa, ma con più Europa (http://www.europaquotidiano.it/dettaglio/118341/ora_serve_piu_europa).

Ma quale disegno possibile per un’Europa Massima? La parola magica è ancora una volta il federalismo. In Italia si è fermi a un federalismo fiscale che divide ciò che è unito. L’arretratezza culturale di tale formula è evidente, poiché chi l’ha pensata è schiacciato a terra da una visione meramente localistica della politica. E’ un problema di aspettative e di capacità di vedere al di là delle banalità del quotidiano. Parlare di Federalismo Europeo, metterlo al centro del dibattito politico, sarebbe un primo passo. La struttura plurale europea, che poco somiglia a un modello vero di multi level governance, è priva di effettiva rappresentanza democratica. Il Parlamento non è il centro della discussione. Non dibatte che su questioni morte. Tutta la decisione politica passa per la diarchia Commissione Europea e Consiglio dell’Unione, ovvero attraverso il potere tecnocratico e quello nazionalistico dei governi riuniti in una sorta di Camera Alta, sovraordinata alla rappresentanza popolare del Parlamento. Questo il peccato originale che l’Unione Europea dovrebbe correggere. Ma serve un atto di coraggio politico che nessuno farà. Quel che è certo è che l’esito delle elezioni inglesi, con il primo vero caso di ingovernabilità di tutta la loro storia, e l’euroscetticismo di David Cameron, non aiuta proprio.