Riot, un software per controllare i social network

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Si chiama Raytheon ed è una società multinazionale che si occupa di ‘Difesa e sicurezza’. E’ il quinto produttore al mondo di questo genere di servizi. Il Guardian ha pubblicato un video che svela come il software prodotto da Raytheon, Riot (che sarebbe l’acronimo di Rapid Information Overlay Technology), sia in grado di scandagliare trilioni di entità attraverso i vari social network. Lo ‘strumento’ di controllo sarebbe in grado di fornire previsioni circa gli spostamenti o i comportamenti degli utenti. Guardian parla di sofisticata tecnologia che potrebbe trasformare i social media in “Google delle spie”. Chiaramente questo tipo di tracking online verrebbe messo in opera a prescindere dalle intenzioni dei proprietari delle identità sui social. Così Facebook, Twitter, Foursquare ci fanno accettare le loro policy sulla privacy online mentre questi software spia bypassano la burocrazia e registrano ogni nostro click. Riot sfrutterebbe soprattutto le fotografie pubblicate sui social, dalle quali estrarrebbe i dati della geolocalizzazione, ovvero latitudine e longitudine.

Riot è in grado di visualizzare in un diagramma le associazioni e le relazioni tra gli individui online, cercando fra quelli con cui hanno comunicato di più su Twitter. Si può anche estrarre i dati da Facebook e vagliare le informazioni sulla posizione GPS da Foursquare, i cui dati possono essere utilizzati per visualizzare, in forma grafica, i primi 10 posti visitati dai singoli individui e gli orari in cui li hanno visitati. In sostanza, sfrutta tutte le informazioni che noi pubblichiamo ignari che queste possano avere una qualche risultanza per qualcuno.

La tracciabilità dei comportamenti elimina lo spazio di incertezza che ogni individuo porta con sé: in altre parole, elimina lo spazio della libertà individuale. Se tutto può essere tracciato e controllato, anche le nostre decisioni future possono essere inglobate in un algoritmo che tutto prevede poiché può attingere da un serbatoio smisurato di profili. Sinora l’obiezione più grande verso questi software era che mai e poi mai avrebbero potuto gestire terabyte di dati di informazioni inutili. Che mai avrebbero potuto prevedere una insurrezione popolare – come la Primavera Araba – poiché il software non può distinguere la semplice opinione dalla intenzione. Cosa avrebbe di diverso Riot? L’uso dei dati pubblici di Facebook o di Twitter a scopo di ‘garantire la sicurezza di un paese‘ non è un reato. I dati sono pubblici, abbiamo scelto di renderli tali, abbiamo cliccato su ‘Mi piace’ ben consci che altri possono vederlo, anche i funzionari del servizio segreto del nostro governo. Quando questo strumento è nelle mani di un potere legittimo e democraticamente costituito, è un potere altrettanto legittimo, esattamente come quello di stabilire delle pene per dei reati, o come il potere di emettere sanzioni amministrative. C’è una indagine, si individua una fattispecie di reato,c’è un giudice che stabilisce la liceità di intercettazioni telefoniche, si scoprono le prove, si istruisce un capo d’accusa. Ma quando invece la natura del potere è illegittima, o legittima ma antidemocratica, allora questo strumento diventa l’arma letale che annienta la sfera privata dei diritti civili.

Il video pubblicato su Guardian

L’Agenda Monti l’ha scritta Pietro Ichino? Epic Troll del Corriere

Tutto nasce da questo tweet:

Paolo Ferrandi ha scaricato il file pdf divulgato da Il Corriere della Sera, ha cliccato su File->Proprietà ed è venuta fuori una finestra simile a quella che segue:

pietroichino_ghostLa questione è stata ripresa da Claudia Vago (@tigella) e pubblicata anche su Facebook. Tigella ha verificato sia il pdf del Corriere che quelli divulgati dalle altre testate e li ha raccolti in questa cartella pubblica:

Agenda Monti su dropbox.com

Nelle altre versioni, e dico in tutte le altre, l’autore è un certo Nevio. Ragion per cui il sospetto che si tratti di una storica trollata del Corriere.it si fa sempre più chiara:

Tigella afferma che ciò non esclude che il file sia stato preparato da Ichino e poi concluso da qualcun altro.

M5S, il caso di Roberto Fico e delle residenze “mobili”

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Nella serata del 6 Dicembre il Meet up di Beppe Grillo della Campania è stato teatro di una polemica kafkiana. Tutta l’attenzione si è orientata intorno alla figura di Roberto Fico, storico esponente del M5S campano, più volte candidato per il Movimento, da sindaco a presidente di regione e sempre senza ottenere grandi successi; secondo Federico Mello (Pubblico Giornale), “il pupillo di Casaleggio”.

Fico è oggi diventato capolista per la circoscrizione Campania 1 in seguito alle parlamentarie, le blindatissime primarie online del M5S. Niente di strano, il ragazzo è molto popolare a Napoli. Ma sul forum del meet-up, qualcuno – avente un account fake – ha pubblicato copia del certificato storico di residenza di Roberto Fico. E in un istante è venuto alla luce che Fico non possedeva, al momento della candidatura, uno dei requisiti richiesti da Grillo: la residenza all’interno della circoscrizione in cui si propone la candidatura. Fico infatti risiedeva sino ad inizio Novembre al Circeo, fatto noto ai frequentatori del Movimento campano poiché era già così ai tempi delle candidature alle amministrative e alle regionali.

Il post fake è stato subito rimosso, ma non sufficientemente in tempo per non esser notato da alcuni iscritti al meet-up, i quali hanno lanciato un tread chiedendo a Fico di chiarire. Il tread è ancora aperto e si è trasferito sulle pagine Facebook di Valentino Tavolazzi. Tavolazzi ha rilanciato le domande di chiarimento a Fico, ieri sera. Ne è nata una disfida che si è consumata tutta la notte.

In sostanza, Fico avrebbe flaggato il formulario di iscrizione certificando di mantenere i requisiti posseduti alle precedenti elezioni. Tra i requisti richiesti per partecipare alle elezioni amministrative vi era appunto il possesso della residenza nella circoscrizione del Comune in cui si intendeva candidarsi. Sia chiaro, è una norma auto-imposta dal Movimento. La legge parla diversamente, in tema di candidature: a pena della nullità dell’elezione, nessun candidato può essere incluso in liste con diversi contrassegni, né può accettare la candidatura contestuale al Senato e alla Camera (D.P.R. 361/1957, art. 19). Non vi sono limiti, invece, alla possibilità di essere inclusi in liste aventi lo stesso contrassegno, presentate in più circoscrizioni.  Il problema è quindi tutto interno; è un problema di rispetto delle regole volute dal Capo. Che Fico avrebbe aggirato semplicemente spostando la propria residenza. Ma il dato politico è questo: Fico, al momento della candidatura, avrebbe dichiarato il falso. Avrebbe cioè flaggato di possedere il requisito della residenza senza però che il cambio fosse già realmente avvenuto. Tavolazzi ha più volte insistito con Fico per sapere la data del cambio di residenza, ottenendo due distinte date: una, il 26 Novembre scorso, l’altra il 4 Novembre.

tavolazzi_vs_ficotavolazzi_vs_fico_2Sul forum del meet-up è stata anche avanzata l’ipotesi che la violazione di questa regola (che è regola interna e come tale non ha valore di legge) possa determinare l’invalidazione della lista elettorale. Inutile dilungarsi qui sulla pretestuosità di tale affermazione. Il discrimine non è giuridico ma politico. Fico ha “falsificato” la propria dichiarazione (rilasciata il 4.11) ed ha sanato ex-post la propria posizione, cambiando residenza (il 26.11). Tutto ciò, mi rendo conto, può risuonare come un mero formalismo, ma del resto tutte le regole emanate da Grillo-Casaleggio-Lo Staff subodorano di gretto formalismo. Certamente, chi ha stabilito queste norme, deve farle rispettare. Non può e non deve trovare vie per le deroghe, per poi cancellarle due anni dopo, come successo nel caso di Biolé. Se si ammette la deroga per Fico, senza nemmeno aprire un dibattito, lo si fa con la chiara intenzione di tenere Fico “appeso al bavero”. Ponendo il caso che Fico entri in Parlamento, nel momento in cui si distanziasse dalla linea politica decisa da Grillo-Casaleggio-Lo Staff, ecco rispuntare quel cavillo, e Fico sarebbe messo fuori dal M5S. L’errore grave è proprio questo. L’ammissione o l’estromissione dalla deroga è decisa dal vertice e non da una regola astratta. Il che pone nelle mani del vertice (intoccabile, inamovibile, immutabile) un potere illimitato nei confronti del candidato-servitore. E’ un revolver sempre carico, messo lì, sul tavolo. Come monito, più che altro.

La buffonata del Buffone sui futuri denari del M5S

La democrazia dal basso scopre il brivido della gestione centralizzata. Dell’organizzazione. Si dirà: è per tutelare il cittadino che così vedrà in trasparenza come sono spesi i soldi pubblici. I parlamentari del Movimento 5 Stelle ancora non esistono. Sono una opzione per il futuro parlamento. Una opzione che vale circa il 20% dei seggi. Questo venti per cento significano milioni di euro di denari pubblici, non solo promananti dal sistema dei rimborsi ma anche di quello del finanziamento dei gruppi parlamentari. Come pensano di gestire la faccenda i teorici della politica a basso costo via “internet”? Ma è ovvio: facendo una società che fa transitare i denari dalle mani dei futuribili parlamentari a quelli della Casaleggio Associati.

In sostanza, lo staff di Grillo ha chiesto ai candidati parlamentari, selezionati le scorse settimane per mezzo di primarie chiuse, di sottoscrivere un impegno (o un contratto?), letteralmente, per “abilitare la propria candidatura”. La richiesta reca in oggetto il seguente titolo: “Costituzione di “gruppi di comunicazione” per i parlamentari del M5S di Camera e Senato”. Questi gruppi di comunicazione avrebbero la funzione di gestire i contributi destinati agli scopi istituzionali riferiti all’attività parlamentare, nonché alle “funzioni di studio, editoria e comunicazione ad essa ricollegabili”. Eccoli, i denari pubblici. Che nella vulgata grillina dovrebbero essere restituiti allo Stato, qui invece vengono attribuiti a gruppi la cui organizzazione verrà definita da Beppe Grillo medesimo. I candidati parlamentari devono solo firmare, altrimenti sono fuori. Così Valentino Tavolazzi su Facebook: “Qualcuno può chiarirmi per favore se questo impegno richiesto ai candidati sia o no un modo come un altro per convogliare nelle casse della Casaleggio ed associati i soldi pubblici destinati alla comunicazione istituzionale dei gruppi M5S alla Camera e al Senato? Spero di aver capito male” (https://www.facebook.com/valentino.tavolazzi/posts/382821771794922).

Tavolazzi si augura di aver capito male ma, dopo la sua segnalazione, è scoppiato il putiferio. Articoli sono comparsi su Pubblico Giornale, su Repubblica e Il Fatto Q. I membri dei gruppi di comunicazione saranno scelti da Grillo. L’organizzazione sarà scelta da Grillo. Pure la destinazione dei soldi sarà scelta da Grillo. Il fine della creazione di questi gruppi gestionali di denaro pubblico è duplice:

  • da un lato, garantire una gestione professionale e coordinata di detta attività di comunicazione;
  • dall’altro, evitare una dispersione delle risorse per ciò disponibili.

Soprattutto l’istituzione di questi gruppi prevede una novità sostanziale per il M5S, direi quasi in opposizione alle sue regole medesime: l’adozione di uno Statuto:

La concreta destinazione delle risorse del gruppo parlamentare ad una struttura di comunicazione a supporto delle attività di Camera e Senato su designazione di Beppe Grillo deve costituire oggetto di specifica previsione nello Statuto di cui lo stesso gruppo parlamentare dovrà dotarsi per il suo funzionamento (M5S Salerno).

Il partito liquido diventa solido? Perché i gruppi parlamentari devono dotarsi di statuto e il Movimento no? Domande destinate a restare irrisolte. Che poi il denaro pubblico fornito dalle Camere dovrebbe essere speso per precise finalità. Si tratta di attività di comunicazione, quindi evidentemente di produzione editoriale. E naturalmente nel gruppo che sottende i 5 Stelle e il blog di Grillo, c’è una casa editrice (Chiarelettere) e una società di marketing (Casaleggio Associati). Chi meglio di loro potrebbe impiegare quei denari? Così Tavolazzi, due giorni dopo, lascia intendere: “Quanto si dividono i soci del Fatto Quotidiano. Tra loro anche Chiare Lettere, editore di Casaleggio” (https://www.facebook.com/valentino.tavolazzi/posts/531673310195341). In coda al post di Tavolazzi compare il seguente commento (che inserisco per darvi l’idea di che aria tira):

A voler comprender bene, dicendo e predicando che i soldi pubblici sono il male, si organizza prima un giornale, poi un partito e quel partito lo si manda in parlamento facendo incetta di seggi. Quindi, una volta che si deve gestire il denaro pubblico derivante dalla elezione in parlamento, che si fa? Si creano dei “gruppi di comunicazione” per spogliare il parlamentare del diritto di gestire quel denaro (al di là del fatto che può gestirlo bene o male) e anziché dire “quei finanziamenti non li vogliamo, non li utilizziamo, li restituiamo, ecc.”, ci si organizza per gestirli in maniera autonoma e oculata, in maniera “da non disperderli”. Non è strano tutto ciò? Soprattutto se pensiamo che la democrazia interna del M5S non esiste, che delle primarie del M5S non c’è traccia (forse in qualche chat fra qualche decina di persone) e che quando altri le fanno per davvero le primarie e vi partecipano in milioni, allora sono un trucco demagogico, una buffonata:

Alcune delle migliori risposte a questi tweet di Grillo:

E poi, quel post sulla violenza sulle Donne, dopo il punto G e la defenestrazione della Salsi:

A different place: Beppe Grillo va sul Washington Post

Cominciamo dalla conclusione, ovvero dalle parole – tradotte in inglese – di Giovanni Favia: “The figure of Beppe Grillo is a necessity if Italy is going to be a different place”. Grillo come una necessità, se l’Italia vuol essere un paese diverso. Ma l’impressione che se ne ricava, se nulla ne sapessimo, leggendo le tre pagine che il Washington Post dedica al fenomeno 5 Stelle, sarebbe una brutta – bruttissima – impressione.

La questione della partecipazione dal basso emerge solo ed esclusivamente per il famoso fuorionda di Favia a Piazzapulita. Del resto, si intuisce appena che il M5S sia un movimento a sé stante, mentre la figura di Grillo campeggia quasi come quella di un nuovo Berlusconi, ed è pericolosa come Berlusconi. Nel testo, Grillo è accostato a leader populisti europei, come Le Pen in Francia, Stronach in Austria e Geert Wilders in Olanda. Il personalismo, in questa ricostruzione, è preminente. La vulgata a 5 Stelle dirà che è un articolo pagato da qualche partito italiano o opera del complotto mondiale delle Banche che sostiene il Monti-bis. Più probabilmente questo articolo è molto più fedele di quanto non lo siamo noi, che ci vediamo con i nostri troppo generosi occhi. Forse non ci siamo accorti che stiamo sostituendo un personalismo televisivo con un personalismo a mezzo blog. Per essere effettivamente un “different place” dovremmo avere la “fiducia e il coraggio” (prendo in presto queste parole di Civati) di riformare il sistema partitico in senso maggiormente partecipativo e inclusivo e trasparente, esattamente ciò che la politica non fa e che Grillo dice di voler fare ma è il primo a non praticare.

Grillo raccoglie il sentimento antieuropeista dalla estrema sinistra. Con il consolidato argomento che l’Unione Europea è una macchina costruita dalle plutocrazie europee allo scopo di scippare il popolo della sua sovranità, Grillo aggiunge e fonde ad esso la retorica anti moneta unica e anti austerità, temi di forte presa sul “pubblico” alle prese con la più forte recessione dal 2009 (cosiddetta double-dip). Le medesime argomentazioni sono impiegate da Paolo Ferrero, FdS. E da Berlusconi, seppur con accenti diversi. L’idea di Europa come unione pacifica di stati, come superamento del dogma della sovranità assoluta e della forma della Nazione-Potenza, non viene nemmeno lontanamente sfiorato. L’Europa è un nemico burocratico, che ci tratta come numeri, che cancella posti di lavoro tracciando righe su fogli di carta. Un nemico che non ha volto ma che il leader populista agita come uno spettro. Non è del tutto sbagliata la dichiarazione del giornalista Massimo Franco al Washington Post: “Grillo represents a sort of blurring of the far left and far right” (Grillo rappresenta una sorta di con-fusione dell’estrema sinistra e dell’estrema destra). Da un lato si depreca l’uso di denaro pubblico per alimentare il sistema politico, dall’altro si chiede che la mano pubblica gestisca le utilities municipali, in un sorta di riedizione dello Stato sociale degli Settanta in un’epoca in cui i bilanci pubblici sono soggetti a forti cure dimagranti.

Il collante vero, ed è ciò che sfugge all’auto dell’articolo del WP, ciò che coagula questa massa critica che è ormai divenuto il “pubblico” dei 5 Stelle, è l’ideologia della democrazia diretta, una forma di governo che gestisce il rapporto cittadino-stato attraverso i new media e quindi lo meccanizza attraverso il software. L’idea è totalizzante: l’individuo è sussunto in una sorta di plebiscito quotidiano, in una deliberazione perpetua, che comunque non potrà mai essere immediata, ma è gestita, guidata, anticipata dal marketing politico e dai software di gestione dei flussi di informazione. Il grande inganno risiede nel fatto che la rete non è libera. Grillo dice che la rete è invincibile, che è autocorrettiva, ma egli stesso è un campione del marketing politico. E usa la rete come un media alternativo, avendo egli perso le chiavi di accesso al media di massa per eccellenza, la televisione. Il suo linguaggio è un linguaggio diverso da quello di Wilders. Non è un linguaggio causale, ma agisce sempre attraverso ripetizioni, attraverso l’uso dei nomi distorti, attraverso la retorica anticasta, alimentando la corrente dell’indignazione. Ed è attraverso il motore dell’indignazione che Grillo a sua volta alimenta il proprio bacino elettorale potenziale. Di ciò non c’è traccia nell’articolo del Washington Post e, se mi permettete, questa è infine la vera novità del fenomeno del “the funny man”.

Grillo apre la via della Politica 2.0? E’ effettivamente una rivoluzione profonda la sua, anche rispetto ai più avanzati progetti di marketing virale applicati al campo politico, come poteva esserlo la campagna Obama-Biden del 2008. Grazie al M5S, una nuova generazione di cittadini viene socializzata alla politica. Ma – a mio avviso – il suo progetto rischia già di essere vecchio. Grillo dinanzi alla esplosione dei social-media è fondamentalmente disarmato (Facebook nel 2008 in Italia contava 700.000 profili, oggi 21 milioni). Grillo non è un attore nel mondo del tweeting. Lui e il suo staff curano la diffusione dei contenuti anche sulla rete di contatti che si dipana da Twitter o da Facebook, ma le interazioni sono quasi nulle. Potrei definire il rapporto di Grillo con il web come uno-molti. Ed è anche unidirezionale. Esattamente l’opposto di ciò che propaganda. Qui si cela l’inganno. Ma sulla stampa estera spicca la figura del leader populista. Per questa ragione, e non altre, si può dire che l’analisi del WP è superficiale. L’anomalia Grillo non è semplicemente una anomalia partitica, ma costituisce l’apertura del mondo politico a un tipo di interazione che è mediata dalla macchina software. E si tratta solo di metà della rivoluzione. Che avverrà pienamente soltanto quando il flusso informativo avverrà in ambedue le direzioni, da e verso il leader/rappresentante/eletto. L’inquadramento dato dal WP a Grillo è per queste ragioni deficitario.

Se vuoi fuggire da Facebook, c’è Diaspora*, il primo social network open source

Tratto da Liberarchia [per gentile concessione di Daniele Florian].

Segui Yes, political! su Diaspora*

Il mondo virtuale di Internet rispecchia in pieno ogni pregio e difetto del mondo reale.
Al giorno d’oggi il Web permette di svolgere quasi ogni attività, dalla compravendita di prodotti alla condivisione di filmati e documenti, oppure può divenire luogo di incontro tra utenti di diverse realtà, permettendo scambio reciproco e diffusione di notizie.

Per questi ed altri motivi possiamo considerare il Web una vera innovazione sociale oltre che tecnologica che, se sfruttata al meglio, può davvero diventare strumento utile per lo sviluppo sociale. Tuttavia, così come nel mondo fisico, dove vi è la possibilità di rivolgersi ad un vasto e vario pubblico, la macchina dell’economia non perde l’ occasione di scendere in piazza, rendendo così anche la rete soggetta alle dure leggi del capitalismo e del business.
Ed è così che sono venute a sorgere le prime discussioni in merito di diritti d’autore, software proprietario, e tutte quelle pratiche giuridiche-economiche in ambito informatico nate per scopi lucrativi e che finiscono per danneggiare la macchina culturale che è Internet.
A dimostrazione di ciò basti pensare al recente acquisto di Skype da parte della Microsoft Corporation, che molti pensano potrebbe portare all’ estinzione della versione Linux del famoso software per la comunicazione VOIP.
Di soluzioni a questi problemi ne conosciamo tante, come appunto il sistema operativo Linux gratuito e open source o i nuovi progetti in termini di copyleft e libertà digitali; ma ciò che forse sono ancora sconosciute ai più e poco divulgate, sono le problematiche recenti nate nel mondo dei Social Network.

Facebook è – secondo le stime – il secondo sito più visitato al mondo dopo Google e può vantare la bellezza di 500 milioni di utenti iscritti (se fosse un Paese sarebbe il terzo per popolazione dopo India e Cina).
Come ben sappiamo la famosa azienda fondata da Mark Zuckerberg offre un servizio di iscrizione gratuita e la possibilità di gestire un profilo con foto, video e fattorie di animali senza spendere neanche un soldo; la domanda quindi sorge spontanea: come fa Facebook a finanziare gli enormi costi dovuti innanzitutto alla manuntenzione dei galattici server contenenti quasi 3 miliardi di foto e a pagare tanti impiegati quanti la metà della popolazione italiana, considerando che il fatturato registrato l’ anno scorso è stato di ben 1.1 miliardi di dollari?
La risposta sta in un accordo stipulato tra il colosso informatico e le aziende di marketing, alle quali vengono venduti i nostri dati personali e altre informazioni su di noi per utilizzarli nella creazione di campagne pubblicitarie a seconda del target.
Pochi sanno infatti che, secondo i termini del contratto di iscrizione al servizio, all’accettarlo l’utente dà a Facebook l’ esclusiva proprietà di tutte le informazioni e le immagini che vengono pubblicate; inoltre Facebook viene autorizzato non solo all’uso ma anche al trasferimento a terzi dei nostri dati sensibili; e dato che il 90% della popolazione al momento di un’iscrizione online non legge il contratto, Facebook può vendere questi dati senza nessun altro nostro consenso.
Oltre ai dati personali inoltre, più volte è stato riscontrato che alcune applicazioni quali sondaggi o simili sono create dalle stesse aziende allo scopo di ottenere l’ informazione da loro richiesta. Ovviamente la maggior parte delle volte Facebook ha ribadito che non era a conoscenza del caso, scaricando la colpa sulle aziende.
Da notare è anche il fatto che una volta iscritti non abbiamo modo di re-impadronirci dei nostri dati, nemmeno con la cancellazione dell’account, perchè questo non permette l’eliminazione totale dei dati: rimarranno immagazzinati per sempre sui server di Facebook fin quando essi lo riterranno necessario.

Per far fronte a questi problemi è nato Diaspora*, un nuovo social network ideato da studenti della New York University, il cui obiettivo è creare un sistema decentrato e sicuro, contribuendo a proteggere la privacy degli utenti e con un software libero e open source.
L’ innovazione di Diaspora sta proprio nel suo funzionamento, infatti ogni computer su cui Diaspora sarà installato diventerà un “pod” indipendente, e il nostro profilo con le nostre informazioni personali rimarranno sulla nostra macchina senza venir divulgate ad altri senza il nostro consenso.
Inoltre se vogliamo o se non abbiamo la possibilità di creare un server nostro potremo fare affidamento a server terzi di nostra “fiducia” su cui installare i nostri profili.
Ora però Diaspora è ancora in fase di test, perciò non disponibile a tutti gli utenti; almeno fino a quando questa fase si concluderà non sarà disponibile per tutti.

In Italia alcuni ragazzi dell’Università di Pisa stanno contribuendo a questo progetto, per esempio nell’implementazione di servizio VOIP sul social network (tra l’altro non presente su Facebook). Per chi volesse provare questa fase alfa di Diaspora può farlo registrandosi a http://diaspora.eigenlab.org/.

Contribuire a questi progetti (con la semplice iscrizione o partecipando attivamente) significa sostenere quello sviluppo sociale e tecnologico che è lontano dai riflettori della moda e del business, ma nel quale, non essendo sottoposti alle politiche di mercato, si può lavorare per il semplice scopo che è la ricerca di conoscenza dedita al progresso scientifico, morale ed umano.

Spidertruman, epopea del già visto in salsa anti-Casta

D’estate sulle tv, soprattutto sui canali della RAI, i buchi nei palinsesti sono riempiti di repliche, come i muratori fanno con il calcestruzzo o la malta. Evidentemente, in assenza di psicodrammi nella maggioranza che giustifichino campagne di stampa con trasferte a Montecarlo – tanto per trascorrere mezza giornata in Costa Azzurra – era necessario un diversivo rispetto al già tanto caotico quadro politico, che sapete è dominato dai temi della manovra e dei mancati tagli ai privilegi di casta.

Spidertruman, si chiama. E’ il vendicatore mascherato di Montecitorio. Si autodefinisce un precario “licenziato dopo 15 anni di lavoro in quel palazzo” e proprio adesso ha deciso di svelare pian piano “tutti i segreti della casta”. E’ curioso che abbia impiegato la formula ‘pian piano’: come se a questo punto della nostra storia politica ci fosse proprio bisogno di una certa cautela nello svelare i temuti segreti del Palazzo. Che, detto per inciso, segreti non sono. Sono anni che i Radicali tengono nota di tutte le spese del Parlamento. Potete scorrere il lungo elenco a questo indirizzo: Open Camera – I Costi segreti delle Camera dei Deputati.

Il nostro Eroe Anti Casta ha totalizzato circa 40.000 seguaci su Facebook in poche ore. Un bel credito di popolarità per aprire un bel blog o un magazine on-line. Spidertruman è già stato accostato a Julian Assange, equazione troppo comoda per essere credibile. Come scrive Fabio Chiusi su Il Nichilista, “Assange non lancia accuse generiche («Ogni giorno c’è sempre un deputato che denuncia il furto del suo costosissimo computer portatile», per esempio), ma estrapola dati da documenti coperti da segreto che rende accessibili al pubblico tramite WikiLeaks e che contengono tutti i dettagli delle rivelazioni (nomi, cognomi, circostanze)”, ma anche “Assange è responsabile del processo di autenticazione di quei documenti, facendosi così carico della loro eventuale falsità, senza celarsi dietro a un’identità fittizia” (Il Nichilista).

Naturale porsi la domanda: Spidertruman è un troll? Ma nel momento in cui me la pongo, scopro che nemmeno mi interessa sapere la risposta. Spidertruman non aggiunge nulla a ciò che già sappiamo, ovvero che la Casta vive nel privilegio sulle nostre spalle e nottetempo trova cavilli per smontare quelle proposte di legge volte a ridurre la loro preziosissima diaria. L’errore fondamentale sta nel credere che vi sia ancora qualcosa di segreto, di nascosto. No, è tutto sotto i nostri occhi. Sappiamo tutto e lo abbiamo accettato per anni, senza batter ciglio. Abbiamo anche applaudito alle varie opposizioni, alle varie maggioranze, abbiamo legittimato questo saccheggio. E ci rendiamo conto che si tratta di un saccheggio solo quando la Casta è costretta a ricorrere alle nostre tasche per evitare il default finanziario del paese. Chiaro, no?

Internet batte televisione 4 (sì) a 0. Ma ora liberiamoci da Facebook

Miguel Mora su El Pais commenta il voto di domenica prendendo spunto da quel video parodia di ‘L’aereo più pazzo del mondo’. In volo sull’oceano, i berluscones di ritorno dal soggiorno di Antigua vengono avvisati dell’esito dei referendum. Hanno abolito il legittimo impedimento, dice l’hostess ai passeggeri. E scatta l’isteria. La “Primavera dei Cittadini”, scrive Mora, “è sorta e si espande ogni giorno attraverso internet”. Esattamente come sulla riva sud del Mediterraneo, ma in una forma più pacifica e ricorrendo più all’ironia e alla satira che alla rabbia, il territorio infinito senza censura della Rete sembra aver giocato un ruolo chiave nel nuovo vento politico che sferza l’Italia.

Ma sembra chiaro che il problema è che la destra italiana non è a conoscenza del crescente potere di Internet. Che le nuove tecnologie non sono il punto di forza del suo leader è emerso pochi giorni prima del voto, quando ha detto che qualcuno gli aveva passato una “cassetta” per vedere un programma che aveva perso. “Possibile che un primo ministro e magnate dei media del XXI secolo ignorari che il DVD è stato inventato nel 1995, proprio l’anno in cui l’ultimo referendum in Italia ha vinto il quorum? Sembra improbabile, ma il fatto è che il referendum è stata una sconfitta finale non solo per il governo, ma anche per l’ambiente in cui Berlusconi è stato un mago (Miguel Mora, El Pais).

Così sembra. Il voto ha testimoniato il cambio di paradigma mediatico: non più l’oligarchia televisiva, che esclude e impone i piani argomentativi alla discussione pubblica, di cui è rimasto celebre il caso della violenza contro una donna a Roma poche settimane prima del voto del 2006, fatto che infiammò il dibattito televisivo contro l’immigrazione clandestina e fece emergere un clima di paura convogliato dai media di casa Berlusconi verso Lega e PdL; tanto per rinfrescarvi la memoria, quelle elezioni politiche furono poi vinte ugualmente dal centrosinistra ma Berlusconi riuscì nell’impresa di recuperare a Prodi almeno 8 punti percentuali. Quel caso ha rappresentato l’apice della forza persuasiva della televisione. I fatti criminosi compiuti nel paese erano in calo, ma la percezione delle persone era di un aumento. Si viveva un’emergenza che non c’era, indotta dalla suggestione televisiva che ogni giorno riproduceva quel fatto all’infinito, trasmettendo le immagini di retate, di sgomberi di campi Rom, parlando di tolleranza zero e di ergastoli e di pena di morte.

No, quel tempo è finito. Così sembra. Al posto della tv, una discussione eterodiretta che si autoalimenta grazie al contributo di tutti, senza necessità di conduttori o di presentatori, di opinionisti o di registi. Si afferma l’argomento prevalente in un susseguirsi di piani argomentativi in libera competizione fra loro. Questo è consentito da un mezzo straordinario che è la rete, essa stessa piano altro in cui l’individuo si dispiega in una multipolarità di voci che altrimenti gli sarebbero negate. Se l’azione dell’individuo non è più direttamente coercita se non in casi eccezionali stabiliti dalla legge, la parola era (ed è) fortemente compromessa, sottaciuta, senza alcuna rappresentanza nel teatro degli specchi che va in onda ogni giorno nello schermo televisivo. Internet sembra restituire all’individuo la parola, e al contempo gli riassegna lo status di cittadino, ovvero di individuo partecipe alla vita della polis.

Ho usato il termine sembra perché neppure Internet è priva del rischio oligarchico. Anzi: la sua tecnologia è talmente complessa da creare sistemi che sfuggono alle parole che possediamo. Per esempio: lo spazio di Internet è pubblico o privato? Se la discussione è politica, allora Internet diventa condizione propedeutica alla discussione pubblica. Diventa naturale considerarlo un diritto poiché nel web l’individuo si esprime e esprimersi è una delle libertà civili fondanti della modernità. Peccato che tutto ciò avvenga a casa di Zuckerberg. Rendetevene conto: abbiamo lottato per sconfiggere il demone televisivo, per poter contare, per poter fare prevalere l’interesse pubblico contro quello privato. Lo abbiamo fatto attraverso un social network che è estremamente inclusivo ma che è privato. Facebook non è un bene comune, non è nostro: ho una pagina a casa di Zuckeberg. Zuckerberg detiene il mio profilo di utente di Facebook. Di fatto mi controlla. E controlla tutti noi. Controlla l’informazione che passa attraverso il suo social network. Volendo, la potrebbe condizionare. Potrebbe far prevalere un argomento piuttosto che un altro. Esattamente come il media televisivo, ma in maniera ancor più subdola. E globale. Un mostro ben peggiore della nostra piccola videocrazia.

Facebook, il McDonald’s del social networking (segnalazione de Il Nichilista).

Bersani: che freddo al Terzo Polo. Toccato il minimo storico

Vi risparmio i commenti di reazione all’intervista di Bersani stamane su Repubblica. Basta una immagine per sancire il risultato finale di questa strategia (suicida?). Dal beta-sito del beta-Partito Democratico:

Peccato che su Facebook non ci sia un tasto tipo dislikes. Il contatore sarebbe impazzito. Che dire: farebbero bene a autocensurarsi, talvolta. E non va meglio per l’articolo versione 2.0, revisionata dopo la valanga di commenti negativi:

Il PD batte se stesso. Un miracolo

Popolo Viola, l’involuzione dalla Rete alle convénscion

Il 5 Dicembre 2009 si svolse a Roma la prima manifestazione nazionale autoconvocata. Il medium che metteva in comunicazione circa 500 mila persone era la Rete Internet. Una partecipazione grandissima e insperata, che manifestava il bisogno di poter contare nella politica italiana. Era quella la via per far tornare alla luce una opinione pubblica viceversa annichilita nel modello videocratico e acclamativo della sfera pubblica italiana.

A distanza di un anno, il movimento, anziché progredire verso una forma nuova di partecipazione, che include mobilitando pur non avendo nessun padrino politico nei partiti, mantenendo la distanza dalla politica di professione, ha compiuto una involuzione che ne annulla in parte o in tutto la carica innovativa. In primo luogo, il movimento si è spezzato: i curatori della Pagina Nazionale del Popolo Viola hanno assunto sempre più il ruolo di ‘protavoce’ del movimento, carica che si sono di fatto appropriati senza la preliminare discussione sulla forma organizzativa del movimento medesimo. Una divisione che si è palesata a Ottobre, quando il Paginone Nazionale, che si identifica nella sezione romana del Popolo Viola e che ha come vertice Gianfranco Mascia e ufficio stampa coordinato da Silvia Bartolini e Paola Barbati, ha messo in piedi la versione numero due della manifestazione, il No B Day 2, peraltro raccogliendo adesioni in misura decisamente inferiore all’anno precedente; mentre, dall’altra parte sono rimasti i Gruppi Locali della Rete Viola, rappresentati su Fb dalla pagina Popolo Viola – Rete Locale, che non aderendo alla manifestazione del No B Day 2, sono confluiti verso sinistra allacciandosi alla manifestazione FIOM dello scorso 16 Ottobre. Tanto più che in questa crepa si può individuare la medesima cesura esistente nel quadro partitico fra la sinistra vendoliana e la sinistra che è migrata verso IDV: un effetto di quella diaspora iniziata nel 2008 a causa della svolta veltroniana del PD. O se volete, da un lato è rimasta la parte del movimento che vuole avere peso e appeal verso i partiti, e IDV ha un posto di prim’ordine vista la relazione di Mascia con esso; dall’altra la parte oltranzista e antipartitica, in un certo senso più affine al Movimento 5 Stelle di Grillo, ma anche con la sinistra extraparlamentare (caso di Torino e della contestazione a Bonanni).

Oggi si sta svolgendo la prima convention nazionale del Popolo Viola. Non c’è diretta streaming. Non c’è diretta blog. La rete, che ha permesso di mobilitare i 500 mila del 2009, è messa ai margini. Non si è nemmeno voluta cogliere l’occasione per rimarginare la ferita con i Gruppi Locali. Mascia e soci sono al tavolo con Di Pietro e Vendola. Discutono, a quanto pare, di percentuali. Si dice, su Fb, che stia girando un sondaggio in cui l’entità Popolo Viola, trasformata in partito, varrebbe circa un 9%. Sulla Pagina Nazionale del Popolo Viola, fra l’altro, va in scena una guerriglia di post in cui la Rete Locale ribadisce la propria indipendenza e “autonomia dalla Pagina del Popolo Viola cosiddetto Nazionale, al quale non riconoscono alcun diritto di ingerenza o di prevaricazione sulle realtà locali, poichè realtà ALTRE” (Carta Etica del Popolo Viola – Rete Locale).

Sito www.reteviola.org

Dell’Utri contestato, ricorda Craxi

Dell’Utri zittito a Parolario, alla presentazione dei Diari del Duce: ricorda una più famosa contestazione, quella avvenuta nel 1993 ai danni di Bettino Craxi, all’apice dell’inchiesta Tangentopoli, davanti all’Hotel Raphael a Roma. Giudicate voi stessi il parallelismo:

D’altronde ogni Repubblica che finisce vuole il suo martire di paizza:

Prima un ladro, ora un mafioso. In un gioco di specchi e di rimandi beffardi: viene da credere che siamo alla fine di un ciclo, o all’inizio della fine di un ciclo. Allora si disse che la manifestazione fu organizzata dai centri sociali; oggi per mezzo del social network per eccellenza, ovvero Facebook. Cambiano i tempi, non le piazze.

Il Giornale, Fini e la casa a Montecarlo: un caso di trollismo cartaceo?

Quella canaglia – metaforicamente parlando – di Vittorio Feltri sbatte in prima pagina la Questione Morale. Non Verdini, non Carboni né Dell’Utri; non Scajola, non Cappellacci, non Caliendo: questi sono perseguitati da giudici pazzi – così il titolo di spalla – che inventano teoremi di inesistenti logge P3 quando invece – lo dice il titolo dell’articolo di fondo – la vera lobby è quella di PM e Sinistra, i grandi spettri berlusconiani.

C’è da riflettere se non sia il caso di attribuire a questo genere di giornalismo pattumiera il nome di “trollismo cartaceo”. Sì, Feltri al pari di quegli utenti di Facebook che creano pagine in cui si attaccano i gay piuttosto che i disabili o i bambini down. Fesserie scritte al solo scopo di fare rumore, con l’obiettivo di deviare l’attenzione o imporre un unico punto di vista politico; fesserie per colpire un nemico politico. Qualcosa di simile si faceva in Unione Sovietica negli anni trenta del secolo scorso, e si chiamavano purghe.

Politica 2.0: rete molecolare e fine dell’apparato burocratico. Il nuovo paradigma del Popolo Viola.

Il Partito non esiste più. Non c’è più il Partito che media fra Stato e Cittadino. Il Partito si è fatto impermeabile alla società, al fine di bloccare la circolazione delle elité e prolungare la fase di potere della medesima classe dirigente. Così facendo, il Partito, perpetuando sé stesso, rinuncia al rapporto con la società, allo scambio domande-sostegno, si automutila perdendo la capacità aggregativa che possedeva quando era Partito di massa e portava nelle piazze migliaia di persone.
In Italia vi è stata una fase dove il Partito, in questa sua funzione aggregativa, era stato sostituito dal Sindacato. Possiamo far coincidere il periodo con il biennio 2001-2002, il biennio rosso del G8 e del Circo Massimo, durante il quale si profilava la leadership di Sergio Cofferati, ben presto fatta evaporare da strategie politiche incomprensibili (diventò sindaco di Bologna e si distinse come primo archetipo di sindaco-sceriffo, una vera delusione per tutta la sinistra italiana). Il suo successore alla CGIL, Epifani, ha cercato per alcuni anni di opporsi alla politica sindacale morbida di CISL e UIL, ma ora si appresta a ripiegare sulle loro stesse linee:

Sindacato protagonista ma non antagonista. E’ uno slogan del Congresso della CGIL. E anche il titolo di un Convegno dello SPI-CGIL che si terrà a Palermo nei prossimi giorni […] Per sua natura il sindacato deve essere antagonista, deve cioè essere portatore di istanze e di richieste che è difficile vengano accolte senza il conflitto, senza la dialettica dello scontro e del negoziato […] Può esistere un protagonismo senza antagonismo? Credo proprio di no a meno che non si pensi ad una fase della concertazione che superi gli accordi del 93 e stabilisca una sorta di automatismo per cui, date certi accordi interconfederali, non resta che una funzione ragioneristica di registrazione di eventuali variazioni […] Questa posizione che fa dei sindacati dei meri collaboratori del padronato e del governo sterilizza la loro funzione sociale di trasformazione e di riadattamento dei rapporti di classe e ne fa una sorta di osservatorio passivo dei fenomeni sociali.Siamo nel campo del cosidetto “moderatismo” che di fatto ha regolato le relazioni sindacali negli ultimi venti anni. (fonte: Verso una “Bolognina” della Cgil? – micromega-online – micromega).

Il sindacato ha così dilapidato una fortuna in termini di consenso e di sostegno. La folla del Circo Massimo non esiste più. E’ stata mandata via. E allora? Quale sorte per quella moltitudine senza “testa” che si aggira disorientata nel panorama politico italiano, senza più un nome che la identifichi, senza più una lotta che la riunisca sotto la medesima bandiera?

Il 5 Dicembre 2009 ha segnato la svolta. Il No B Day ha portato in piazza trecentomila persone. Senza partito, nè sindacato. Senza nome, senza bandiere, ma solo con il colore viola. Il mezzo che ha permesso di manifestare una indignazione e di vederla riconosciuta da altre persone e da altre persone ancora, è stato Facebook. Facebook materializza la rete dei rapporti che unisce la moltidudine dispersa. Permette alla moltitudine di far circolare all’interno della rete le infomazioni e le opinioni. Consente cioè la formazione di un’opinione pubblica alternativa a quella “costruita” dalla videocrazia. Finora la videocrazia ha prodotto opinione per produrre a sua volta consenso al proprio potere. Per mezzo di Facebook, la moltitudine sparsa si confronta e si scontra al fine di autoalimentarsi e creare una propria identità. Tramite Facebook, la moltitudine si manifesta al mondo e fa sentire la propria voce. Priva di leader, la moltitudine è leader di sé medesima. Genera opinione e alimenta il movimento. Tramite l’avatar del Popolo Viola, compie una spersonalizzazione che è rottura e antitesi alla politica italiana attuale. E di fatto si presenta come la vera, futura, forza di opposizione.

    • Il metodo, dunque, è stato quello di lanciare un segnale, un allarme, una proposta. E aspettare che fosse condiviso, sostenuto, partecipato. Nel caso contrario sarebbe morto lì, tra i pochi post di una pagina Facebook senza storia e senza futuro come ce ne sono tante.
    • il popolo viola è ovunque ma non sa di esserlo come direbbe Franca Corradini
    • I tentativi di dare una struttura -benché leggera- al Popolo Viola nato dalla Rete, ricorrendo agli schemi della democrazia delegata, dai coordinamenti ai gruppi di controllo, si sono rivelati fallimentari perché introducono elementi di paralisi o peggio ancora di “correntismo” tipici della modalità partitica
    • Il Popolo Viola non può essere un movimento formato partito nè viceversa. La sua natura era e deve rimanere quella di sensibilità diffusa e generalizzata, di innesco delle scintille che si producono per il superamento del berlusconismo e per il cambiamento nel Paese.
    • Popolo Viola è chiunque promuova un’iniziativa o una manifestazione che interpreti questo spirito e questi obiettivi, sia esso un cittadino, un collettivo locale o un utente di Facebook
    • Facebook per il Popolo Viola non è una semplice piattaforma virtuale come qualcuno va affermando avventuristicamente. Per le sue caratteristiche, per la sua capacità pervasiva, Facebook (visto in chave politica) rappresenta per il popolo viola ciò che il vecchio radicamento (le sezioni, i circoli, le sedi decentrate) rappresentavano per le forme classiche di aggregazione politica: fonte di informazione, di scambio, di formazione politica e di costruzione di un pluralismo identitario.
    • Facebook è “l’articolazione territoriale” del Popolo Viola nel paradigma della Rete.
    • I gruppi locali, nati in fase di costruzione del No-B Day, sono uno strumento di traduzione operativa di una sensibilità che vive nella Rete, che trova sbocco nella nuova modalità molecolare (e non orizzontale che è concetto tipico del politicismo “di base”).
    • Chi pensa di poter importare gli schemi partitici nella nuova modalità molecolare della Rete commette un grossolano errore di valutazione (o di sottovalutazione) ma soprattutto indica un percorso del tutto impraticabile. Sarebbe come voler alimentare una stufa a gas con la corrente elettrica.
    • il nostro percorso non può che avere i tratti di ciò che Manuel Castells definisce l’autocomunicazione di massa, la capacità moltiplicativa delle reti sociali attraverso cui oggi riusciamo a trasferire velocemente informazioni ad una platea ampia di cittadini, ad operare sintesi e ad innescare processi di mobilitazione in maniera piuttosto rapida.
    • Cosa che le strutture classiche (esempio i partiti), in funzione della loro articolazione politica e organizzativa non possono fare.
    • Abbiamo velocizzato i passaggi in un’ottica che è, appunto, di “condivisione e cooperazione tra pari” e freneticamente emendativa. La Rete è per sua natura costantemente autoemendativa, non consente previsioni di lungo periodo.
    • l’aspetto più innovativo di questa esperienza che oggi chiamiamo Popolo Viola, rispetto agli altri movimenti, è che il nostro non ha un leader, una figura che incarna eroicamente le istanze di cambiamento. Questo movimento è un leader collettivo.
    • il dato più innovativo e spiazzante e, allo stesso tempo, quello meno compreso e accettato (persino da chi si riconosce nel nostro popolo) da chi invoca figure di riferimento riconoscibili, visibili, “esposte” in un’ottica che è esattamente quella imposta dalla devastante tendenza alla personalizzazione della politica (facce e non contenuti: il berlusconismo)
    • Il Popolo Viola non è, al momento, un soggetto programmatico. E’ l’incontro tra molteplici identità che si riconoscono in un’unica richiesta politica: il superamento del berlusconismo e l’affermazione della legalità costituzionale.
    • Noi non ci occupiamo di tutti i problemi del nostro Paese: non siamo un partito o una confederazione sindacale. Noi ci preoccupiamo della deriva autoritaria del nostro Paese, dell’eccezione alla democrazia che Berlusconi rappresenta.

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Su Facebook, prima manifestazione virtuale di massa antirazzista contro il razzismo e la xenofobia.

Il gruppo di Fb No Lega Nord Day ha organizzato per sabato 16 Gennaio una manifestazione mai vista sinora: una protesta virtuale via Facebook per gridare no al razzismo di Rosarno e della Lega Nord. Lo scopo: avere impatto massmediatico. Far parlare dell’evento attraverso la (sciocca) cassa di risonanza dei meidia mainstream (in special modo i media di proprietà del Padrone).

Ma la manifestazione dovrà necessariamente essere disvelatrice di quella grande menzogna che si è voluto far passare attraverso quegli stessi media supini al Padrone, gli stessi media che hanno parlato di violenza dell’immigrazione e di degrado, quando invece a Rosarno il vero degrado è l’istituzione collusa e lo sfruttamento della manodopera fornita a costo pari a zero da migranti disperati in fuga dalla miseria.

Loro, i tessitori di trame logiche perfette da stendere al cospetto degli elettori, per incantenare gli stessi a una identità culturale che non prevede il diverso, queste eminenti personalità della politica italiana dovrebbero invece prendere atto del fallimento sistemico, del fallimento della statualità, e riconoscere in sé medesimi i primi responsabili di questo. A Rosarno lo Stato non c’è, lo Stato a Rosarno arriva come un esercito straniero, come una forza di interposizione, per un’azione di peace restoring. A Rosarno lo Stato è potente come lo è l’ONU sul teatro delle relazioni internazionali. Perlomeno, dovrebbero questi signori Ministri prendere coraggio e affrontare l’opinione pubblica e la verità. Invece la miseria che li perseguita, ne ha devastato le parole e le azioni, e ora non possono che ripetere la medesima litania di sempre: “è colpa di chi ci ha preceduto, è colpa dell’altro, è colpa del diverso”.

La miseria delle parole e delle azioni degli uomini politici è speculare alla miseria di un territorio in cui lo Stato ha abdicato per una forma di potere oscuro che trae linfa dalle isitituzioni stesse e che tende, non già a sostituirsi a esse, ma a cooptarle per rendere certa e a proprio favore la decisione.

E, pertanto ai promotori di questa iniziativa, lancio da queste colonne una proposta: che il grido anzirazzista non sia separato dal grido di giustizia e che sia evidenziata e sostenuta in questa occasione sia la protesta contro le leggi ad personam, sia la protesta contro l’illegalità mafiosa, sia il ripudio della politica anti-migranti della Lega e del governo: ma sia altrettanto sostenuta e divulgata la proposta di legge sulla cittadinanza scritta dai deputati Granata (PdL) e Sabelli (PD) con la quale si intendono abbreviare i tempi per l’acquisizione della stessa e rafforzare nel nostro paese il principio dello jus solis. Se ci abbandoniamo al mero contestare, falliremo ogni obiettivo. Sia questa un’occasione per informare e creare consenso sulle giuste battaglie.

Dicono che l’identità stiamo smarrendola, a forza di rinunciare alle nostre radici e di convivere con diversi che ci condannano al meticciato. Anche questa è menzogna. In realtà siamo già cambiati: non perché incomba il meticciato tuttavia, ma perché la nostra identità non è più quella ­ curiosa, accogliente, porosa ­ che fu nostra quando emigravamo in massa e incontravamo violenza. È un ottimo viatico l’ultimo libro di Gian Antonio Stella (Negri Froci Giudei – L’eterna guerra contro l’altro, Rizzoli 2009): si scoprirà che la mutazione già è avvenuta, nel linguaggio della Lega e nella disinvoltura con cui si accettano segregazioni che trasformano l’uomo in non uomo.  L’identità che abbiamo perduto, la recuperiamo solo se non tradiamo quella vera inventandone una falsa. Solo se sblocchiamo le memorie e ricordiamo che le sommosse antimafia dei neri prolungano le rivolte italiane condotte, sempre in Calabria, da uomini come Peppe Valarioti e Giannino Losardo, i dirigenti comunisti uccisi dalle ’ndrine nel 1980. Solo se scopriremo che il nostro problema irrisolto non è l’identità italiana, ma l’identità umana (B. Spinelli – Se questi sono uomini – La Stampa.it)

CONTRO RAZZISMO E XENOFOBIA 24 ORE DI PROTESTA SU FACEBOOK – Partecipa!

Sabato 16 gennaio 2010

Aderenti, sostenitori e simpatizzanti di No Lega Nord Day, abbiamo deciso di indire

LA PRIMA MANIFESTAZIONE VIRTUALE DI MASSA DELLA STORIA CONTRO IL RAZZISMO E LA XENOFOBIA.

Un piccolo sforzo per un grande sogno di giustizia.

Istruzioni per partecipare:

sabato 16 gennaio, per almeno 24 ore, teniamo come STATO la seguente frase

DIVERSO…PERCHE’? STRANIERO…DOVE? ALTRO…QUANDO? Siamo tutti parte del medesimo respiro. Smettiamo di accettare, per ignavia, l’esclusione e l’invenzione di nuove differenze. Non respingere, Accogli!

Anche Gesù è stato un clandestino. NORD DAY Milano 6 marzo 2010 ore 14.oo NO RAZZISMO! NO OMOFOBIA! NO XENOFOBIA!

Poi, durante la giornata ogni volta che vedremo in bacheca qualcuno che ha la stessa scritta clicchiamo su “Mi Piace”.

Quindi inviamo il comunicato riportato sotto a tutti i nostri contatti e chi vuole potrà scrivere un proprio pensiero sulla pagina dell’evento anche indicando citazioni, canzoni, o altro in tema tenendo conto che durante la giornata la pagina sarà al centro dell’attenzione dei media.

Libertà di rete, libertà di blog, i titoli sospetti dei giornali.

Leggete su Articolo 21 – Libera Rete in Libero Stato l’incipit del post di Tania Passa:

L’attacco alla rete da parte dell’esecutivo di destra inizia mesi fa, attraverso un tam tam mediatico televisivo/estivo sugli effetti collaterali di internet, ovviamente a suon di talk senza alcuna validità scientifica; hanno sfilato psicologi che mettevano in guardia dall’internetdipendenza , ed è poi proseguito con l’allerta Alfaniana di ottobre sui gruppi che inneggiavano contro B. su facebook, fino ad arrivare ai vari pdl di Pecorella e Carlucci sull’equiparazione del web alle leggi sull’editoria, con il finale sul “livestreaming” di Romani, un’autorizzazione al Governo per ogni sito o blog che trasmetta video in diretta come se fosse una televisione commerciale. […] è proprio la logica il vero bug del rapporto della politica, sia di destra che di parecchia opposizione, con il web. Come tutti i processi culturali il potere se non li comprende allora preferisce abbatterli, in questo caso tacciandoli di terrorismo e nefandezze varie, ed è così che sono nate le folli idee di mettere filtri al web di Maroni o le affermazioni del Consigliere Innocenzi dell’Agcom che, al seminario Bordoni affermava speranzoso l’auspicio che dall’estero arrivassero fondi per finanziare la rete. E chi, supponiamo noi,  se non i soliti amici Berlusconiani dell’Egitto o della Dacia? Non è da sottovalutare poiché consegnare le dorsali web agli “ amici” per avere il controllo degli ip sarebbe mostruoso.

Poi, navigando sul web, potreste imbattervi in titoli come questi:

Secondo Repubblica – sì, avete letto bene, Repubblica – esisterebbero intere schiere di ragazzini dopati dal Social Network più pericoloso d’Italia. L'”emergenza” è arrivata a tal punto che si starebbero organizzando ovunque “centri di disintossicazione”. Un vero colpo della disinformazione. Proprio nei giorni in cui Facebook è additato dal Potere come centro di sovversione e Emilio Fede, durante il suo anti-Telegiornale, pubblica il risultato di un televoto secondo il quale il 73% degli intervenuti vuole la chiusura di questo covo di terroristi mediatici. Si direbbe che è spazzatura, spazzatura televisiva e pure indifferenziata.

E’ un dramma vero, questo vi dicono i tg di regime. Mescolano Facebook e pedofilia, molestie, stalking e social network, come già fece l’on. Carlucci con tutto il web nel suo famoso disegno di legge. La criminalizzazione del web continua, anche su La Stampa.it, dove si sceglie invece un’ottica comparativa, titolando come segue:

Obama nomina un supervisore del Web. Sentito? Anche Obama censura Internet. Quindi, un lettore qualsiasi che non clicca sul titolo e non approfondisce il tema con la lettura integrale dell’articolo, cosa percepisce? Egli è portato a credere che sia lecito censurare la rete, poiché anche in USA hanno gli stessi problemi, capisce che si tratta di un’emergenza planetaria: sul web si delinque, perciò è necessaria la regolamentazione. Peccato che la nomina dello “cyberzar” sia motivata da altre ragioni. Basterebbe proseguire a leggere il testo:

    • Obama nomina uno zar per il Web – LASTAMPA.it
      • L’esigenza di nominare un responsabile per la “cybersicurezza” era diventata particolarmente urgente in considerazione della vulnerabilità ad attacchi informatici dei sistemi bancari, militari e delle comunicazioni in generale. L’ultimo e più eclatante episodio in ordine di tempo era stato l’oscuramento di Twitter da parte di alcuni hacker iraniani […] Secondo quanto rivela il New York Times, dopo un lungo braccio di ferro tra interessi politici, militari, di intelligence e d’affari, è stata decisa la nomina di Howard Schmidt. Il “cyberzar”, come è stato definito, farà capo al National Security Council, il principale organo che si occupa delle questioni di sicurezza nazionale, e avrà l’opportunita di riferire direttamente a Obama.

    Perché questa strategia comunicativa? Ma Obama che nomina il cyberzar ha in vista la sicurezza della rete, mentre gli interventi legislativi nostrani hanno solo in vista il suo controllo. Scambiano la sicurezza con il controllo. E il controllo lo esercitano reprimendo la libertà d’espressione:

    «Sono sempre stato uno strenuo sostenitore di Internet e dell’assoluta mancanza di censura». (Barack Obama, discorso agli universitari cinesi, Shanghai, 16 novembre 2009).

    Non solo, mentre La Stampa relega il video dell’intervento di Joi Ito, CEO di Creative Commons, noto per le sue idee libertarie in fatto di rete e condivisione, a un trafiletto – poi rimosso – della main page (fra l’altro il video non ha i sottotitoli né il doppiaggio tradotto, quindi è fruibile solo da chi padroneggia bene l’inglese), nella pagina “Tecnologia” riprendono il medesimo allarme riportato da Repubblica, ovvero la pericolosa “dipendenza” da Facebook:

    Che dire? Allarmi troppo tempestivi e sospettosamente in sincrono con l’attacco dei politici italiani all’indomani dei fatti di Piazza Duomo.

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