Trattato MES all’esame dell’Alta Corte tedesca

Enrico Berlinguer

Enrico Berlinguer (Photo credit: Wikipedia)

Sono ben due i ricorsi contro i recenti Trattati Europei, il Fiscal Compact e il Trattato MES. Ad opera di Linke e di un ex CDU, tale Peter Gauweiler. Così l’Alta Corte della Repubblica Federale Tedesca si appresta a far vivere all’Europa il suo giorno più lungo. Se dai Custodi della Legge Fondamentale tedesca arrivasse una bocciatura ai trattati europei, allora sarebbe il caos. Anche Angela Merkel potrebbe veder pregiudicata la propria leadership nel paese: è lei ad aver firmato per la Germania i due trattati. Se non li difendesse in sede di giudizio di legittimità, allora mancherebbe al suo ruolo di Cancelliere. E’ una partita molto rischiosa, nessuno può permettersi di perderla.

Sebbene il MES o ESM abbia una struttura quasi di diritto privato – è al pari della BCE, un istituto bancario o per meglio dire finanziario – e sia di fatto molto antidemocratico avendolo fornito di forme di deliberazione diverse dal board della BCE (voto ponderato come il Consiglio vs. una testa un voto), la sua approvazione è divenuto un passo irrinunciabile. Mi spiego: se domani l’Alta Corte dovesse dichiarare ESM o il Fiscal Compact contrari alla legge tedesca e in definitiva una violazione della sovranità statuale in materia finanziaria, allora questi trattati cesseranno immediatamente di esistere. Nessuno potrà mai ratificare un trattato che non sia adottato dalla Germania. Sia chiaro: sarebbe la fine dell’Europa. Linke e il deputato della CDU hanno messo il proprio paese in una brutta posizione e hanno scaricato sui giudici costituzionali una responsabilità prima di tutto politica, che non compete a dei giudici. Questo perché è un fatto politico l’aver riconosciuto a livello europeo che la “sempre maggior integrazione” di cui si parla nel Trattato Istitutivo della Unione Europea è giunta ad interessare la parte di sovranità statuale relativa ai bilanci pubblici. Questo è un fatto inoppugnabile. Jean Monnet, uno dei padri dell’Europa, intuì nella integrazione funzionale la via per poter creare un modo per far interagire gli Stati Europei senza per forza farsi la guerra.  L’Unione Europea è nata come un atto di pace. Il paradigma funzionalista l’ha fatta evolvere in un carrozzone che produce burocrazia. Per la vulgata comunista, l’Europa è sempre stata una riserva plutocratica che usa la potestà regolamentare per plasmare il mercato a proprio piacimento. Fu Enrico Berlinguer, durante il Comitato Centrale del PCI del 9 febbraio 1973 ad affermare che “nella prospettiva del superamento dei blocchi, e del ricostituirsi in forma di una presenza unitaria dell’intera Europa, noi ci battiamo intanto per un’Europa Occidentale che sia democratica, indipendente e pacifica: non sia né antisovietica né antiamericana”. Soltanto dopo il 1973 si può parlare di europeismo di sinistra.

Se Linke oggi è contro il MES e il Fiscal Compact (“tolgono denaro al welfare tedesco”) allora significa che Linke vuol cancellare quell’originario atto di pace che fu il Trattato di Roma del 1957. Abbiamo all’epoca riconosciuto i nostri destini comuni di cittadini europei. Non dovrebbe più esistere un welfare tedesco, ma il welfare tedesco dovrebbe esser parte di un più generale welfare europeo. Invece gli egoismi nazionali ci stanno di nuovo mettendo uno contro l’altro e l’austerità pretesa da Merkel sta spogliando i paesi meno virtuosi del sud europeo del proprio welfare nazionale.

La prospettiva Hollande

La prospettiva Hollande spaventa i mercati. Hollande, l’uomo normale della sinistra normale. Un socialista, uomo medio e forse mediocre. Uno che non suscita passioni, che non è affiliato alla Mala delle Banche, né al dogmatismo germanico del rigor mortis del monetarismo deflattivo. Con il crollo della Borsa di oggi, il segnale è dato: la Francia verrà messa a ferro e fuoco dal tritacarne dello Spread e sarà la fine dell’Eurozona. A meno che il progetto di governance creativa dei Banksters non venga prontamente dirottato su Berlino. In questo clima non ci sono amici e nemici, tutti possono finire nell’occhio del ciclone, compreso Monti.

Quindi la prospettiva Hollande spaventa i mercati. Hollande, quello della spesa pubblica. Hollande, quello che romperà l’asse con Frau Merkel. Ma i mercati sanno che il dogma del rigore di bilancio è mortifero e sta trascinando tutti in un gorgo muto. L’Europa, dicono, ha bisogno di crescita. Poi arriva l’uomo della crescita e vendono i titoli. Ciò che spaventa oggigiorno non è Hollande, ma la reazione di Berlino. Se Hollande deciderà di farsi carico del problema europeo, di far passare il Fiscal Compact per il vaglio di un Referendum popolare o di riformarlo sminuendone i caratteri deflattivi, o  di mettere la politica di bilancio sotto l’ombrello della Commissione e quindi sottrarla alla dinamica intergovernativa dell’Ecofin come è avvenuto sinora, allora Berlino potrebbe decidere di chiamarsi fuori, e il destino dell’Euro e della Unione Europea si farà sempre più incerto.

Fa strano vedere come la prospettiva Hollande, una prospettiva democratica in cui un popolo sceglie alle urne, liberamente, il proprio presidente, collida fortemente con quanto atteso dai mercati. I mercati prevedono una Germania isolata, quella Germania portatrice di una politica sanzionatoria e punitiva. E allo stesso tempo temono la deflazione e la decrescita. Se non è schizofrenia questa… Merkel e il rigorismo monetario – non Sarkozy – sono i veri sconfitti di ieri:

The French delivered a loud non to Berlin’s euro policies, handing a first-round victory to the socialist François Hollande, whose central campaign pledge was to reopen Chancellor Angela Merkel’s eurozone fiscal pact, an international treaty signed by 25 EU leaders and currently being ratified. Almost one in five French also voted for the europhobic Front National of Marine Le Pen, who wants the single currency scrapped and the French franc restored (Ian Traynor, The Guardian).

L’onda lunga dell’opposizione alla schizofrenia monetarista si sta diffondendo per l’Europa e ha investito ieri l’Olanbda, con la dipartita dal governo dello xenofobo neonazista Geert Wilders e le conseguenti dimissioni del primo ministro Mark Rutte. Piazza Wencelsao a Praga, è stata testimone della più grande manifestazione in Repubblica Ceca dalla Rivoluzione di Velluto del 1968, riferisce Traynor. E’ la crisi delle élite europee? No, è la rivolta contro il formalismo tedesco e contro la fedeltà cieca alla politica monetarista della Bundesbank. Traynor accomuna la dipartita di Sarkozy a quella dei capi di governo di Irlanda, Portogallo, Spagna, Grecia, Finlandia, Slovacchia e Italia. La caduta di tutti questi governi è sintomo della crisi delle élite. Niente di meno vero: le élite di governo non sono messe in crisi dal voto, bensì dall’unilateralismo tedesco e, almeno in un caso, ovvero in quello dell’Italia, il cambio del governo è stato eterodiretto dall’esterno per mezzo della leva dello spread. Così non si può dire della Francia e della Spagna, dove invece sono gli elettori ad aver defenestrato i propri capi di governo. Gli elettori, questi terribili e imprevedibili elettori.

Se in Spagna gli elettori hanno espulso dal sistema i socialisti emblema del Riformismo europeo, in Francia è il pomposo Sarkò a perire: una chiara ed evidente tendenza anticiclica che destituisce i governanti e rompe gli schemi partitici permettendo l’avanzamento di neonate formazioni partitiche aventi funzione antisistemica, come lo sono FN in Francia, il movimento di Wilders in Olanda, o il M5S in Italia. Diversi i loro argomenti e le loro propagande, ma simili le genesi e le carriere elettorali.

Le proteste contro l’obbligo di austerità invadono l’Europa ma non la Germania. Per quanto tempo Berlino resterà il paradiso in terra e fino a quando i tedeschi potranno continuare a crescere tenendo mezzo continente sotto i propri piedi?