
Catena Umana degli Studenti davanti ai musei egizi
A cercare delle analogie fra le rivolte di Algeria, Tunisia ed Egitto ci si imbatte invece in una marea di differenze. E se volessimo estendere il campo d’analisi all’altra sponda del Mediterraneo, a Grecia, Albania, Spagna, Portogallo e Italia, dovremmo intensificare il nostro sforzo di immaginazione.
Cominciamo dall’Algeria: il paese non è certo nel gorgo della crisi del debito, tanto più che negli scorsi anni il governo, capeggiato dall’anziano Bouteflika, ha risanato i conti grazie all’aumento dei prezzi degli idrocarburi – l’Algeria è ottava nel mondo come produttrice di petrolio ed esporta gas verso l’Europa, soprattutto verso l’Italia. Eppure, ad inizio anno i prezzi degli alimentari sono cresciuti del 20%. Ed è esplosa la rivolta. Fra l’altro l’algeria è reduce da una sanguinosissima guerra civile, svoltasi nell’indifferenza europea durante gli anni novanta, per la quale Bouteflika si è sempre presentato come pacificatore e “salvatore della Patria”. I disordini dei giorni scorsi non sono attribuibili all’opposizione interna: il FIS, il Fronte Nazionale di Salute, formazione islamica, è stato messo al bando. La rivolta è dovuta alla fame, alla disperazione dei giovani, i più senza lavoro e senza alcuna prospettiva di averlo. L’emigrazione non funziona più come valvola di sfogo, i disperati sono diventati massa ed è difficile che un popolo intero emigri.
Diverso il discorso per la Tunisia, laddove la crisi non ha sfiorato la pur debole economia legata al turismo, al commercio, all’industria chimica e di trasformazione delle materie petrolifere (importate dall’Algeria). Il regime di Ben alì, uno dei più longevi – durava infatti da 24 anni – ha garantito un sostanziale benessere a scapito delle libertà civili e politiche. Se ne deduce che la rivolta è in questo caso legata alla impermeabilità del sistema politico verso la società. Mentre in Algeria è l’incapacità di fornire risposte alla crisi la causa scatenante della rabbia popolare, in Tunisia è la censura e la repressione politica. Ma anche in questo caso è una rivolta di giovani contro un regime di vecchi: giovani senza futuro contro una gerontocrazia abbarbicata al potere. Ben Alì ha pensato bene di mettere in salvo sé stesso e la famiglia. Ha intuito che gli uomini dello Stato, polizia ed esercito in primis, non erano disposti a seguirlo sino in fondo nella difesa del privilegio di casta.
La stessa cosa la starà pensando Mubarak, in queste ore rifugiato a Sharm El Sheik consapevole che l’esercito non è con lui e il popolo vuole la sua testa. L’Egitto forse riassume in sé entrambe le peculiarità degli altri due paesi: la repressione politica e la fame. In più su di esso convergono le attenzioni degli USA e di Israele per questioni di equilibri geopolitici: fra l’altro in Egitto esiste un pulviscolo di formazioni islamiche dedite alla lotta armata che potrebbero far scivolare il paese veros una forma di stato di tipo confessionale, alla stregua dell’Iran. In queste ore appare sempre più evidente il lavoro degli USa per condizionare la transizione: l’oganizzazione islamica storica, i Fratelli Musulmani, fondata nel 1928, propende per un governo guidato dal El Baradei. Costituire un governo con i Fratelli Musulmani significa – per gli USA – sottrarre il paese all’estremismo alquaedista. Qualcuno sussurra che si tratti di una strategia studiata da tempo. Addirittura si sostiene che la rivolta sia stata suggerita da Washington al fine di agevolare la transizione di un leader oramai ottanduenne:
Un documento diplomatico segreto pubblicato da Wikileaks rivela che gli Stati Uniti, pur appoggiando in Egitto il governo di Mubarak, da almeno tre anni sostengono segretamente alcuni dei dissidenti che sarebbero dietro la rivolta di piazza di questi giorni. Secondo il dispaccio, la decisione farebbe parte di un piano per favorire un “cambio di regime” in senso democratico al Cairo, nel 2011. Dal 2008, gli Usa lavorerebbero quindi in segreto alla deposizione del presidente egiziano (La Repubblica.it).
Che la rivolta in Egitto sia pilotata o meno, anche in questo caso si ripete il medesimo schema: giovani contro vecchi. Giovani senza futuro contro anziani presidenti inamovibili da decenni. non saprei dire se gli USA abbiamo preconizzato anche questo. Ma l’impegno politico dei giovani nei sovvertimenti di regime è un elemento costante che si ripropone sempre: così è accaduto anche nella Germania Est contro l’anziano Honecker; così in Serbia con Milosevic.
Di questo terzetto manca solo la Libia e il suo caudillo Gheddafi, classe 1942: qualcuno ha parlato di effetto domino. E del Mediterraneo come della cassa di risonanza dell’onda di rivolta del Maghreb. Un’onda anomala che potrebbe investire anche l’Italia, governata da tal Silvio Berlusconi, classe 1936.
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