Un articolo del 1992, quando Giorgio Bocca definì per sempre la miserrima classe dirigente leghista. Un pezzo esemplare e lungimirante. Per superare l’inutile polemica del Giorgio Bocca “omofobo e razzista”.
HANNO PERSO LA TESTA
09 ottobre 1992 — pagina 1
LA LEGA avanza, dicono a Milano, “come il coltello nello stracchino”. Basta lasci fare agli altri che fanno a gara per aiutarla. Questo Nicola Mancino, ministro degli Interni, che nella crisi dirompente della partitocrazia, nella fine pietosa delle sue arroganze, cerca di togliere ai cittadini di Varese e di Monza il diritto di votare. Questo Giuseppe Gargani, noto per le partite a tresette con De Mita, che propone di mandare in galera i giornalisti che danno notizie su Tangentopoli, proprio lui nato e cresciuto alla politica nel bel mezzo della colossale dissipazione e corruzione del terremoto e della illegalità legalizzata di cui a quanto pare non si è mai accorto, pur essendo presidente della commissione giustizia della Camera. Questi cinquanta deputati che scrivono al ministro della Giustizia, Martelli, perché freni i giudici che si occupano della corruzione e se scorri i loro nomi scopri che metà sono in attesa o in timore di una comparizione giudiziaria e l’ altra metà sono stati eletti con i voti della Camorra o della Mafia. QUESTI leader dei partiti sordi a ogni richiamo della ragione, impudentemente testardi: il Bettino Craxi che vuole rifondare e moralizzare il Psi come se non fosse notoriamente il signore di piazza del Duomo 19, degli uffici dove quelli del suo stato maggiore ritiravano le tangenti e questo De Michelis che Craxi ha voluto, con violenza provocatrice, vice segretario del partito, che a parte le faccende giudiziarie risulta persona irresponsabile – cretino no, perché cretino non è – al punto di aver dichiarato alla stampa sul finire del 1990 a bancarotta finanziaria incombente “ci stanno davanti quindici e forse venti anni di una espansione economica e di un benessere senza precedenti”. In nobile gara con gli Andreotti e i Cirino Pomicino che continuavano a falsificare i bilanci dello Stato pur di rimanere al potere. Questo Francesco Cossiga che, forse per solidarietà massonica, rende pubbliche lodi al giudice Carnevale, ne parla come di un perseguitato, ignorando che con le sue trecento o quattrocento sentenze cassate ha reso praticamente impossibile per più di un decennio la persecuzione giudiziaria dei mafiosi. E Cossiga era il Presidente della Repubblica, colui che avrebbe dovuto proteggere i diritti degli italiani deboli, degli italiani umili taglieggiati, minacciati, uccisi dai mafiosi che Carnevale mandava liberi per i più ridicoli, anzi irridenti difetti di forma. Questi ministri della Giustizia e degli Interni che solo ora mettono taglie sui grandi latitanti e fanno fare retate a Gela, ma prima hanno affossato il pool antimafia e non si sono accorti che a Gela il prefetto era il boss Joccolano. E anche questi sindacati, questo Pds, che continuano a anteporre i loro interessi organizzativi, consociativi o politici a quello ormai dominante della nazione in pericolo. Ma purtroppo, o per fortuna, la Lega non si accontenta di stare sulla riva del fiume in attesa che passi il cadavere della partitocrazia. La Lega si è messa a sentenziare, a proporre, a sproloquiare, a fare la terrorista come se fosse un gioco eccitante, non solo per bocca del suo grande comunicatore Umberto Bossi o del suo mattocchio intellettuale Gianfranco Miglio, ma anche con i suoi quadri medi e inferiori che si avvicendano alle tribune messe a loro disposizione da una informazione attenta al nuovo per gridare “ci siamo anche noi”. La signorina Pivetti che si toglie il gusto di trattare da complice dei partiti e dei ladri il cardinale di Milano Martini; il capogruppo alla Camera Marco Formentini, che come se fosse una innocua boutade propone di far crollare sul paese la montagna del debito pubblico; lo Speroni e gli altri che al seguito di Bossi e di Miglio parlano nel vago di una riforma federalista ma nel concreto secessionista, come se rovesciare l’ orologio della storia italiana, tornare indietro di duecento anni ai primi moti unitari, fosse una bella festa paesana da andarci vestiti da Alberto da Giussano con spadoni e elmi di cartapesta, come al carnevale di Ivrea. L’ impressione è che i dirigenti della Lega si siano lasciati plagiare e quasi drogare da questo “coltello che affonda nello stracchino”, da questo successo facile e travolgente. Che si siano veramente convinti che i milioni di padani che gli danno il voto glielo danno veramente per le quattro scemenze localistiche e federalistiche con cui cercano di supplire un programma che non c’ è? Che non abbiano capito che gran parte di questo voto gli è dato da chi pensa alla Lega come l’ ariete, come il grimaldello che può rompere il pack dei partiti? Si prova persino imbarazzo nel ricordare ai dirigenti della Lega quelle che sono acquisizioni ormai sedimentate, consolidate nella coscienza della nazione. E non dico i legami economici, finanziari, strutturali dello Stato unitario, non dico i cataclismi e i pandemoni che affronterebbe chiunque si provasse a rompere quel po’ di stato di diritto, quel po’ di stato europeo che siamo riusciti a mettere assieme in centotrentadue anni. Non dico neppure le osservazioni più ovvie in materia economica, come chiedere ai Bossi e ai Formentini di spiegarci come verrebbe ripartita in una divisione dell’ Italia la montagna del debito pubblico. Al nord per quanto spetta agli acquirenti di Bot e Cct? L’ ottantuno per cento, come è stato calcolato, del prodotto lordo della Padania? E l’ economia padana, secondo Bossi, sopravvivrebbe sotto una simile valanga? Ma non sono ripeto questi argomenti economici, questi discorsi a non finire sul do ut des fra l’ Italia ricca e la povera, che pure c’ è e che una cultura meridionalistica onirica e piagnona sbaglia a rifiutare a contestare, gli argomenti decisivi; ma qualcosa di molto più importante, di molto più conficcato nella coscienza della nazione. Che non c’ è, non ci sarebbe delitto peggiore che abbandonare milioni di meridionali onesti, di concittadini onesti a un destino libanese; che lasciare inermi di fronte alla nomenklatura armata e ricca della malavita organizzata e del ceto politico corrotto i milioni di siciliani, di calabresi, di campani, di pugliesi che chiedono di vivere in un paese civile e ordinato. Sarebbe la morte, con vergogna, della società civile del settentrione. – di GIORGIO BOCCA