La Trattativa Stato-Mafia secondo Radio Rai

Capita in un pomeriggio assolato di fine Giugno di ascoltare per radio, a distanza di venti anni, il racconto di una delle tragedie che hanno segnato la nascita della Seconda Repubblica. L’ombra e il mistero che rendono opaco il biennio 1992-1993 vengono a sorpresa diradati da una eccellente quanto insolita trasmissione di Radiotre. La Trattativa Stato-Mafia diventa quindi Storia. Una Storia scritta ma che per lo Stato e il suo sistema giudiziario non è vera.

Da riascoltare:

Radiotre – Cuore di Tenebra, La Trattativa

Capire l’attentato di Brindisi

No, non ci riesco. Non riesco a capire l’attentato di Brindisi. Non capisco l’obiettivo, la modalità, il luogo. Dannazione, perché a Brindisi? Perché davanti ad una scuola, che pur porta quel nome importante, Morvillo-Falcone? Perché colpire delle studentesse di sedici anni?

Se in un primo momento mi è sembrato fosse inequivocabilmente una “cosa” di mafia, un attentato in stile terroristico con il medesimo modus operandi del 1992-93, per giunta davanti all’unica scuola in Italia che porta quel nome (ve n’è una seconda, ma è un asilo) e in concomitanza con l’anniversario di Capaci, il ventennio di Capaci. Poi ho compreso che tutto quanto è accaduto è irrazionale e la mafia non è mai irrazionale. La mafia è potere e il potere si basa sul consenso. La mafia non è così stupida (e nemmeno la Sacra corona Unita). Stanno lì, a curare i loro traffici, a corrompere giudici e politici, a riscuotere il pizzo, ad ammazzare qualche avversario, ma mai e poi mai potrebbero versare sangue inutilmente. Solo una volta la mafia ha causato vittime innocenti, in Via dei Georgofili, nel 1993, ma fu un “danno collaterale” non previsto, non preventivato. Un errore nella strategia dei mafiosi trattativisti che ha causato in seguito il pentimento di Spatuzza. E il fallito attentato dell’Olimpico aveva nel mirino i Carabinieri, non persone innocenti. In tutte queste occasioni, la mafia ha impiegato il tritolo. Il tritolo è la firma della mafia. Non il Gpl.

Melissa e le compagne nel 1992 non erano neanche ancora nate. Chi ha ucciso Melissa ha ucciso l’innocenza. Ha strappato l’innocenza che era l’unica speranza per questo maledetto paese. Chi ha colpito Brindisi voleva ottenere il massimo dello sdegno. Questo è nichilismo puro. E’ volontà di distruzione. E’ desiderio di annientare il vivere insieme e in comune. In questo contesto simbolico, la mafia non c’entra nulla.

Chi ha piazzato le bombe davanti a una scuola lo ha fatto tenendo all’oscuro la Sacra Corona Unita. È gente spietata che si è infiltrata nel territorio pugliese. La scelta di usare bombole del gas rende poi difficile rintracciare la provenienza di un eventuale esplosivo. Quindi anonimato assoluto. Tracce zero (Brindisi, le bombe sono della Cupola Nera).

Quando nel 1992 iniziò il periodo delle Stragi terroristiche mafiose, il Ministro dell’Interno Scotti comparve in anticipo dinanzi alle telecamere ventilando la possibilità di una fase di destabilizzazione delle istituzioni. Le stragi di mafia sono sempre, in un certo qual modo, preannunciate. Prima arrivano gli avvertimenti. In questo caso non abbiamo avuto nessun avviso. Nessuno, tranne uno: la rivendicazione dell’attentato ad Adinolfi da parte del FAI. Chi ha sparato al manager dell’Ansaldo ha avvisato che sarebbero state messe in atto altre azioni di tipo terroristico. Almeno sette.

Adinolfi, rivendicato l’attentato
Anarchici informali: “Altre 7 azioni”

Il documento: “Abbiamo riempito con piacere il caricatore. Impugnare una pistola, scegliere e seguire l’obiettivo, sono stati un passaggio obbligato. Un piccolo frammento di giustizia”. Il procuratore di Genova conferma l’allerta: “Non si possonio escludere nuovi attentati” (La Repubblica.it).

Allo stato attuale, affermare che Brindisi sia una delle sette azioni minacciate dalla Federazione Anarchica Informale, è pura illazione. Ma provate a considerare il simbolo impiegato nella lettera di rivendicazione dell’attentato ad Adinolfi:

La stella dell’anarchia si unisce ad un altro simbolo. Suggerisce la congiunzione fra due mondi, fra due distinti gruppi terroristici, aventi matrice politica differente. Le frecce convergenti sono il simbolo delle Cospirazione delle Cellule di Fuoco greche. La A è l’anarchismo. Le frecce convergenti sono una simbologia che ha qualcosa a che fare con il neonazismo. E naziosmo è volontà di distruzione allo stato puro.

Il simbolo utilizzato dagli anarchici informali per rivendicare l’attentato a Roberto Adinolfi è stato ‘adottato dal gruppo greco Cellule di fuoco da parte del Fronte rivoluzionario internazionale che lo ha completato con un nuovo elemento. Secondo gli investigatori, la stella a cinque punte con inscritta la ‘à di anarchia aggiunta al mezzo cerchio con le cinque frecce che è il simbolo delle Cellule di fuoco apporta una «novità non solo formale ma anche sostanziale» (Il Manifesto).

Cosa intendevano per sette azioni? Hanno a che fare con quanto successo oggi? Domande, domande. Ma l’idea terribile che un attacco come quello di Brindisi sia inutile, che si volto solo a distruggere, che sia in definitiva aberrante e mostruoso e motivato solo da una volontà di mettere a fuoco il paese, di farlo bruciare finché non ne rimanga nulla, è piuttosto evidente, sia esso opera della mafia o dell’eversione internazionale. O di tutt’e due.

Cosa dicono quei minutissimi frammenti di vita sparsi per la strada? Sono come i corpi straziati di Utoya. Ma ad Utoya, come a Tolosa, il killer è visibile, si mostra a volto scoperto e rivendica immediatamente il bagno di sangue. Addirittura redige, esegue un report dettagliato del massacro filmandosi. L’attentatuni non ebbe bisogno di rivendicazione, poiché era fin troppo chiaro che ad ammazzare Falcone e Morvillo e la scorta erano i Corleonesi stragisti. Via D’Amelio stiamo cercando di comprenderla in questi mesi, pur così lontani dalla verità. Ma Brindisi? Possibile che la mafia ora se la prenda con le scuole? Quale utilità può ricavarne da un atto simile? Naturalmente nessuna.

Siamo davvero intenti a veder fili dove non ci sono quando invece ignoriamo il disegno delle conchiglie?

Il Sisde parallelo: super-poliziotti antimafia o spie?

Ma come è potuto accadere? Guardando a quegli anni, al 1992, al 1993, ai morti lasciati sull’asfalto, all’asfalto sollevato per aria come un tappeto. Ma come è potuto accadere, ci si può soltanto chiedere. E la desolazione aumenta percependo pienamente che la verità non sarà mai raggiunta, se non fra molti anni. Scoperto un nome, smascherato un volto, un altro nell’ombra si staglia e la caccia ai mandanti occulti diventa un gioco a somma zero in cui chi è chiamato ad investigare si ritrova impietosamente al punto di partenza.

I magistrati di Caltanissetta, il pool di investigatori chiamato a rifare le indagini sulla strage di Via D’Amelio, avendo accertato le falsità del pentito Scarantino, autoaccusatosi del furto della 126, hanno ipotizzato una sorta di trama nera, un anti-Stato che operava militarmente prima, politicamente poi, per imprimere alla politica italiana un segno profondo. Da ciò ne è nato un teorema giornalistico che ha uno dei suoi assiomi nella volontà mafio-massonica di impedire l’elezione a presidente della Repubblica di Giulio Andreotti. In quel preciso istante, che è l’anno 1992, ebbe inizio il conflitto fra Stato e anti-Stato: l’omicidio Lima. Ed è come se per il Nord e il Sud del paese fossero stati previsti destini diversi. Al Sud si operò per impedire l’azione giudiziaria. Al Nord si lasciò fare a quello zelante pool di magistrati di Milano che aprì l’inchiesta Mani Pulite. In mezzo, nell’ombra della normalità, con le vesti di insospettabili collaboratori e di super poliziotti fedelissimi alla causa, si nascondevano uomini dalla doppia identità, Giano bifronte che tessevano le fila del nemico da combattere, la Mafia.

Si suppone ci fossero agenti del Sisde nella polizia palermitana, nelle istituzioni, fra i mafiosi medesimi. Una triangolazione fatale, dentro la quale non fuoriusciva un bel nulla. Da un lato vi era l’opera depistatoria di Arnaldo La Barbera; dall’altro, i trattativisti facenti capo al generale dei Ros Mario Mori. E poi i vertici della Polizia, del Viminale.

  • La Barbera

La Barbera è stato capo della Squadra Mobile di Venezia, poi di Palermo, ex questore di Palermo, poi di Roma, infine messo al vertice di Ucigos e indagato nell’inchiesta sulla mattanza della Scuola Diaz durante il G8 di Genova, dove forse ispirò l’irruzione nell’edificio e la messinscena delle molotov. Morto per cancro nel 2002, soltanto durante lo scorso mese di Giugno è stato scoperto essere a libro paga del Sisde per almeno due anni, a cavallo fra il 1986 e il 1987.

Dovete sapere che La Barbera diventò capo della Squadra Mobile di Palermo nel 1988, ma lo fu anche per un breve periodo, nel 1985. La Barbera era una sorta di solver-man, un uomo che risolve i guai, che riporta l’ordine. Nel ’85 la Mobile di Palermo era allo sbando: i suoi predecessori, o erano coinvolti nella P2, oppure finirono ammazzati (vi suonerà strano, ma la mafia lasciò stare il piduista). Quando arrivò lui, la Squadra Mobile di Palermo divenne la “Mobile di Ferro”. Nessuno poteva pensare che La Barbera nascondesse una doppia identità, nome in codice “Catullo”. Il suo vice era Guido Longo:

Guido Nicolò Longo era uno dei due sbirri che il Viminale paracadutò nell’infermo di Palermo nella seconda metà degli anni Ottanta. L’altro si chiamava Arnaldo La Barbera. Insieme dovevano ricostruire una Squadra mobile colpita al cuore da veleni, sospetti ma, soprattutto, omicidi. Sì perché la mafia aveva assassinato, uno dopo l’altro, i migliori investigatori siciliani […] La Barbera capo della nuova Mobile, Longo vice […] Giovanni Falcone si fidava di loro. Loro ammiravano Falcone […]  E toccò anche a Longo, nel frattempo alla Dia di Palermo, indagare su quei massacri e contribuire alla cattura dei macellai di Capaci […] Guido Longo lo mandano a Napoli. A capo della Dia (L’ultimo cacciatore di mafiosi Longo, da Cosa nostra a Gomorra – Napoli – Repubblica.it).

Di questo passo mi ha colpito la frase: “Falcone si fidava di loro”. Insieme a La Barbera e Longo vi erano poliziotti del calibro di  Manganelli e De Gennaro. De Gennaro diventò poi capo della Polizia, il suo successore è stato proprio Manganelli. Fu De Gennaro a inviare La Barbera a Genova, quel sabato, al G8 di Genova. La Barbera e Longo indagarono su Capaci. E La Barbera incappò in quel bigliettino, quello in cui vi era il numero di cellulare di un agente del Sisde, perso proprio lassù, sulla collinetta di Capaci. Quel numero corrispondeva all’utenza di tale Lorenzo Narracci, vice di Bruno Contrada. Una prova così importante che non condusse ad alcun risultato. Venne poi arrestato Giovanni Brusca, indicato come l’uomo che schiacciò il pulsante del telecomando che fece esplodere l’ordigno sotto l’autostrada. Il mostro che sciolse il piccolo Di Matteo nell’acido. Gran merito a La Barbera, eroe dell’antimafia.

  • Bruno Contrada

Perché mai La Barbera avrebbe dovuto indagare Narracci? Quando si trattò di testimoniare al processo Contrada, La Barbera difese l’operato del collega:

E’ stato lui [La Barbera] ad ammettere di avere trovato l’ anno scorso a Roma una lettera anonima del 1985, un appunto “non protocollato”, scritto “verosimilmente in ambienti interni alla questura di Palermo” per accusare Contrada di rapporti con boss come Riccobono e Badalamenti e di avere dei “possedimenti” in Sardegna […] Avvocato Gioacchino Sbacchi: “Ha accertato qualcosa su Contrada in esito alla delega dei giudici di Caltanissetta?”. La Barbera: “No”. Sbacchi: “Lei e’ stato dirigente della Mobile di Palermo per tanto tempo. Ha acquisito elementi di collusione su Contrada?”. Sbacchi: “Contrada ha mai interferito nelle indagini? Ha mostrato attenzioni particolari, e’ stato indiscreto?”. La Barbera: “Assolutamente no. Ci siamo parlati 4, 5 volte…”. Sbacchi: “Le sono mai stati riferiti sospetti su Contrada?”. Sbacchi: “Lei ha mai avuto rapporti con Contrada nella qualita’ di funzionario del Sisde?”. La Barbera: “Ho partecipato ad una riunione con lui dopo la strage Borsellino”. Sbacchi: “Ritenne il contributo di Contrada positivo o deviante?”. La Barbera: “Deviante proprio no. Fu un contributo fornito da un addetto ai lavori”. Avvocato Piero Milio: “Conosce il rapporto di Contrada contro Badalamenti?”. La Barbera: “Non lo ricordo, ma ho letto diversi rapporti di Contrada fatti con estrema perizia”. Presidente Francesco Ingargiola: “Quell’ anonimo trovato all’ Alto commissariato era stato protocollato o lasciato li’ come un pezzo di carta?”. La Barbera: “Non era protocollato”. Presidente: “Per quanto riguarda i possedimenti in Sardegna?”. La Barbera: “La Procura di Palermo nel 1985 non aveva avviato nessuna indagine patrimoniale” (l’ Antimafia perquisita per Contrada).

  • I depistaggi

Bruno Contrada fu arrestato il 24 Novembre 1992 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, la stessa del Gen. Mori. Su di lui pesavano le dichiarazioni dei pentiti Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese, Salvatore Cancemi. Condannato a 10 anni in primo grado, fu assolto con formula piena in Appello. Una assoluzione sospetta. Infatti il giudizio di legittimità della Cassazione annullò la sentenza di secondo grado e dispose la ripetizione del giudizio d’appello presso una diversa sezione della Corte d’Appello di Palermo. La sentenza definitiva è giunta nel 2007, dopo dodici anni di dibattimenti, quando la Cassazione ha confermato la seconda sentenza d’Appello e la condanna a 10 anni per l’ex poliziotto e ex dirigente della Polizia di Stato (Wikipedia). La vicenda Contrada inizia alla fine del 1992: ha qualcosa a che vedere con la trattativa? contrada viene scaricato dal Sisde? Oppure quelli del servizio segreto si trovano improvvisamente impreparati dinanzi a questa offensiva mafiosa per mano dei pentiti? Di fatto la prima sentenza d’Appello può essere configurata come il tentativo estremo di salvare Contrada. Ma di più il Sisde non poteva fare. Avrebbe messo a rischio l’intera operazione di depistaggio, forse. Poiché proprio alla fine del 1992, La Barbera fu nominato dal Viminale (Mancino) al vertice del pool investigativo stragi “Falcone e Borsellino”. In quella veste, La Barbera organizzò il depistaggio sulle indagini per la morte di Borsellino:

Vincenzo Ricciardi, Salvatore La Barbera e Mario Bo sono tre esimi rappresentanti delle forze dell’ordine italiane. Il primo questore di Novara, il secondo in servizio alla polizia postale di Milano, il terzo capo della squadra mobile di Triste  […] Tre uomini, pluridecorati, all’apice delle loro carriere, si sono ritrovati tutti in Procura, per essere interrogati su fatti avvenuti più di 18 anni fa. Perché loro formavano il gruppo investigativo “Falcone-Borsellino”, incaricato di far luce sulle stragi del 1992. Il loro capo era il superpoliziotto Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo e questore della stessa città, deceduto nel 2002 […] L’accusa, per i tre funzionari, è di quelle pesanti:  calunnia aggravata, perché “in concorso con il dottor Arnaldo La Barbera, nonché con altri allo stato da individuare”, inducevano, mediante minacce e percosse, Salvatore Candura, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino a mentire in merito alle stragi del ‘92 (I tre poliziotti di La Barbera fanno scena muta | Docmafie).

  • La Barbera vs. Genchi

Un’altra testimonianza sui fatti che condussero all’arresto di Scarantino e soci ci proviene da Gioacchino Genchi, il quale ebbe a collaborare spesso con Arnaldo La Barbera nella sua veste di consulente informatico. All’epoca – 1992-93 – la tecnologia dei telefoni cellulari era scarsamente diffusa. Così la pratica investigativa dell’analisi dei tabulati era cosa nuova. Genchi aveva in mano elementi che sconfessavano l’indirizzo preso per le indagini di Caltanissetta, opera di La Barbera e del procuratore aggiunto Giordano. Genchi, fra il 4-5 maggio 1993, ruppe con La Barbera, con il quale ebbe un furioso litigio: la ragione era la fretta del poliziotto di arrestare Pietro Scotto (il possibile telefonista di Via D’amelio individuato dallo stesso Genchi) e chiudere le indagini. Secondo Genchi, invece, Scotto avrebbe potuto portare al “livello superiore”. Poi è stata una escalation di eventi:

Il 14 un’autobomba esplode a Roma, in via Fauro. L’attentato pare diretto al giornalista Maurizio Costanzo, che ci stava passando, ma che al momento dello scoppio era ancora fuori bersaglio. Sulla stessa via, a una manciata di metri, c’è parcheggiata la Y10 di Lorenzo Narracci, vice di Contrada al Sisde, che abita lì. C’è chi si chiede se il vero obiettivo fosse lui. La strategia della tensione si sposta poi a nord. Il 27 tocca a Firenze, via dei Georgofili, agli Uffizi: cinque morti e trentasette feriti. Il giorno dopo, Pietro Scotto viene arrestato. L’11 luglio, il ministro dell’Interno Nicola Mancino promuove La Barbera dirigente superiore e col grado di questore lo assegna alla direzione centrale della polizia criminale di Roma. L’anno successivo diventerà il nuovo questore di Palermo (L’agente Catullo, Gioacchino Genchi e quella porta sbattuta).

L’arresto di Scotto è quello che si direbbe un arresto ad orologeria. Ma se dalle parole di Genchi si intuisce che La Barbera aveva affrettato i tempi perché desideroso di fare carriera (infatti scoppiò in lacrime davanti a Genchi dicendogli che sarebbe diventato questore e che per lui era in vista una promozione), il fatto che il medesimo fosse al soldo del Sisde cambia le carte in tavola: La Barbera agiva per la propria personale ambizione o invece era sotto mandato del Sisde? La fretta nel chiudere le indagini era dettata dalle bombe oppure si approfittò del caos generato dagli attentati sul continente per far passare la notizia dell’arresto di Scotto in maniera superficiale ai media e all’opinione pubblica?

  • L’Addaura

Il revisionismo giudiziario di quest’epoca ha investito anche il caso del fallito attentato dell’Addaura a Giovanni Falcone. La storia è nota, così come è nota la misteriosa fine dei due poliziotti, Agostino e Piazza, che sventarono l’attentato. Emerge anche in questo caso il ruolo nell’ombra di Arnaldo La Barbera. L’agente Catullo si avvalse forse dell’opera di un ispettore di polizia di Pescara, tale Guido Paolilli:

Dopo un mese e mezzo l’agente Agostino fu ucciso (Emanuele Piazza fu strangolato nove mesi dopo) e la squadra mobile di Palermo seguì per anni un’improbabile “pista passionale”. Un altro depistaggio. Cominciato la stessa notte dell’omicidio con una perquisizione a casa del poliziotto ucciso. Qualcuno entrò nella sua casa e portò via dall’armadio alcune carte che Agostino nascondeva […] Quel qualcuno era l’ispettore di polizia Guido Paolilli, ufficialmente in servizio alla questura di Pescara ma spesso “distaccato” a Palermo e “a disposizione” di La Barbera (Il superpoliziotto La Barbera era un agente dei Servizi – Repubblica.it).

Se La Barbera fosse ancora vivo, l’accusa che lo investirebbe sarebbe gravissima: aver agito in modo da cancellare le prove sull’attentato a Falcone. Falcone collaborava con La Barbera, che era a capo della Mobile. Falcone si fidava di lui. Ed è pur vero che la stagione di La Barbera a Palermo coincide con la stagione dei veleni per il pool antimafia: dopo la conclusione del Maxi-processo (1987), avviene la nomina a capo dell’Ufficio istruzione, in luogo di Caponnetto che aveva voluto lasciare l’incarico, del consigliere Antonino Meli, in quale agì in contrasto a Falcone e Borsellino; poi nel 1989 l’Addaura; poi ancora le lettere del Corvo di Palermo.

Naturalmente La Barbera, Contrada, Narracci, non agivano per conto proprio. Agivano in maniera coordinata, perseguendo il medesimo – destabilizzante – progetto. Si può affermare che obbedissero agli ordini provenienti dall’alto? Ovvero dal quadro istituzionale compromesso con il Sisde deviato? E’ proprio questo, il quadro istituzionale, che mette i brividi. Poiché all’epoca, ai vertici della Polizia di Stato vi era Vincenzo Parisi, già direttore del Sisde fra il 1984 e il 1987; il Sisde, fra il 1987 e il 1994 cambiò quattro diversi Direttori (Malpica, Voci, Finocchiaro, Salazar), segno di una certa instabilità che era poi lo specchio dell’instabilità politica; Malpica fu al centro dello scandalo dei fondi neri del Sisde; presidente della Repubblica, nel 1992, divenne, al posto di Andreotti, Oscar Luigi Scalfaro, padre costituente e strenuo difensore della Costituzione, che però ebbe un passato di Ministro dell’Interno nel governo Craxi fra il 1983 e il 1987; insieme a Nicola Mancino, venne coinvolto anch’esso nello scandalo Fondi Neri-Sisde (famoso il suo discorso alla tv, “Io non ci sto!”); Nicola Mancino, che divenne ministro dell’Interno nel 1992, dal giorno alla notte, spodestando Vincenzo Scotti ad insaputa del medesimo, in uno dei più strani rimpasti di governo che la storia repubblicana abbia mai conosciuto.

Sitografia:

 

Il mistero dell’Addaura fra servizi deviati e eversione

A inoltrarsi nei misteri del fallito attentato a Giovanni Falcone, all’Addaura, nel Giugno 1989, non bastano le mappe della memoria né gli archivi storici. Forse quel che verrà scoperto dopo vent’anni non sarà sufficiente a poter riscrivere la storia di questa pagina di lotta alla Mafia. Forse la rivelazione del nome dell’agente segreto, chiamato Franco, legato all’ex sindaco di Palermo, don Vito Ciancimino, promessa dal figlio Massimo grazie al ritrovamento in famiglia di un vecchio telefonino del padre, aiuterà a leggere anche questo episodio diversamente dalle sentenze passate in giudicato, esclusivamente orientate ad attribuire la paternità dell’attentato ai padrini di Cosa Nostra. Ma se si provano a unire tutti i ‘puntini’, come in un rebus enigmistico, anticipando i tempi della conclusione di indagini quantomeno tardive, il quadro appare inquietante.

  1. Le indagini iniziali: il mistero della data, gli identik e l’esplosivo.

    • il tentativo di attentato fu posto in essere il 20 Giugno 1989 e non il 21, giorno della effettiva divulgazione della notizia; ragion per cui, tutto l’armamentario argomentativo che collegava il fallimento dell’attentato alla casualità della scelta di Falcone di ‘non fare il bagno’ è priva di fondamento: l’attentato fallisce, lo sappiamo oggi, perché due poliziotti, in forza al Sismi, si accorgono dei movimenti intorno alla costa prospiciente la villa di Falcone;
    • vengono realizzati due identikit di due uomini visti armeggiare dai bagnanti intorno alla costa su un gommone giallo: oggi sappiamo che i due uomini erano in realtà i due poliziotti, Agostino e Piazza, che hanno sventato l’attacco; i due identikit non vengono mai pienamente divulgati, né incrociati con le altre testimonianze;
    • dell’esplosivo inizialmente si sa tutto, soprattutto da dove proviene (“I poliziotti della Mobile hanno ricostruito la storia dell’ esplosivo dall’ azienda produttrice di Domusnovas in provincia di Cagliari alla ditta che lo commercializza, la Sei di Ghedi, in provincia di Brescia”, NELL’ AGGUATO A FALCONE STESSO ESPLOSIVO DELLA STRAGE SUL TRENO NAPOLI – Repubblica.it » Ricerca); si tratterebbe del medesimo esplosivo impiegato per la cosiddetta ‘Strage di Natale’, l’attentato di matrice terroristico-mafiosa al treno Napoli-Milano, che saltò in aria nella gallerie degli appennini, dopo Firenze, causando 16 morti; la strage fu affibiata all’estermismo nero collegato a ambienti camorristici – fu coinvolto persino un parlamentare del MSI, tale Massimo Abbatangelo: “Carmine Esposito, “‘ o professore”, un bizzarro e chiacchierone informatore della polizia […] aveva preannunciato la strage. “Scoppierà un treno d’ argento”, anticipò. Nessuno gli credette ma, quando il treno saltò, il suo nome ritornò a galla e di Carmine Esposito anche il pio sprovveduto poliziotto di Napoli conosce amicizie e legami, sa dei suoi stretti rapporti con quei “neri” che, usciti dalla sezione missina “Berta”, confluirono negli anni Settanta nel drappello estremista di “Avanguardia nazionale” di Stefano Delle Chiaie, i collegamenti con i camorristi della Sanità, Misso e Galeota”, LA VERITA’ SU QUEL NATALE DI SANGUE – Repubblica.it » Ricerca;
    • sulla provenienza dell’esplosivo viene imbastito il primo tentativo di depistaggio evocando la tesi della pista dell’eversione nera: ‘neri’ gli attentatori del 904, ‘neri’ quelli dell’Addaura giacché Falcone stava indagando sull’omicidio del Presidente della Regione Sicialia, Piersanti Mattarella, ucciso forse per mano di Giusva Fioravanti, che venne appunto indagato;
    • l’esplosivo, verrà poi scritto, è il medesimo impiegato a Capaci e in Via D’Amelio; oggi sappiamo che è arrivato sulla scogliera non per via mare ma dalla ‘terraferma’; chi ha visto tutto, come Francesco Paolo Gaeta, è morto: “Gaeta faceva il bagno e riconobbe sugli scogli Angelo Galatolo che si dava alla fuga perché individuato dagli uomini della scorta di Falcone. Gaeta, tossicomane, era ritenuto un personaggio inaffidabile. Per questo motivo Vito Galatolo, padre di Angelo, appariva preoccupato: se a questo lo pigliano, diceva, ci consuma a tutti”, Vide l’attentato all’Addaura, ucciso – Repubblica.it); la rivelazione la fa Angelo Fontana, pentito, nipote del boss Angelo Galatolo, dell’Acquasanta, nel 2007. E’ ovvio e naturale che se Gaeta faceva il bagno, vede Galatolo sulla costa e non sul gommone. Nessuno ha chiesto a Gaeta se vi erano altri uomini intorno agli scogli quel giorno. A parlare oggi è sempre il Fontana, che rivela, “Nicola Di Trapani e Salvuccio Madonia trasportarono l’esplosivo in un borsone da sub, che venne posizionato sugli scogli, sul lato destro della villa guardando il mare, in una sorta di piattaforma, dove stavano anche altri bagnanti; gli stessi rimasero nei pressi per circa due ore” (Il tuffo con il telecomando – Ecco perché fallì l’attentato all’Addaura – Corriere.it). Angelo Galatolo era l’uomo con il telecomando, ma venne scoperto e si tuffò in mare insieme all’aggeggio che poi perse in acqua (qualcuno lo ha cercato?).
  2. Nino Agostino, morto perché sapeva.

    • I dei due poliziotti legati al Sismi in attività ‘antimafia’ non muoiono per motivi passionali; si mise in atto un vero e proprio depistaggio, forse volto a coprire il ruolo di ulteriori infiltrati all’interno delle cosche.  Per Piazza ci sono le dichiarazioni di Angelo Fontana, “Nulla so dell’omicidio Agostino —ha dichiarato il pentito Fontana ai magistrati —, mentre per quanto riguarda Piazza posso dire che lo stesso venne strangolato all’interno di un mobilificio di un mafioso di San Lorenzo” (Il tuffo con il telecomando – Ecco perché fallì l’attentato all’Addaura – Corriere.it); Vito Lo forte sostiene che Gaetano Scotto abbia avuto un ruolo nella morte di Agostino; e il pentito Oreste Pagano è praticamente l’unico che ha fornito alcune indicazioni: “Ero al matrimonio di Nicola Rizzuto, in Canada – riferì Pagano agli investigatori – c’era un rappresentante dei clan palermitani, Gaetano Scotto. Alfonso Caruana mi disse che aveva ucciso un poliziotto perché aveva scoperto i collegamenti fra le cosche ed alcuni componenti della questura. Anche la moglie sapeva, per questo morì” (http://www.antimafiaduemila.com/content/view/18494/78/). Perché il depistaggio? I due agenti ufficialmente non hanno mai collaborato con il Sismi.
    • Il depistaggio fu messo in opera da un altro poliziotto, Guido Paolilli, ‘amico’ della vittima: “La sua iscrizione nel registro degli indagati è scattata in seguito ad una conversazione intercettata a marzo nella sua casa di Montesilvano a Pescara. In quell’occasione il televisore di Paolilli era sintonizzato su Rai 1 e stava trasmettendo la testimonianza del padre di Agostino che ricordava l’esistenza di un biglietto trovato  nel portafogli di Nino: “Se mi succede qualcosa – era scritto in quel pezzo di carta – andate a cercare nell’armadio di casa”. Il figlio di Paolilli allora chiese al padre: Cosa c’era in quell’armadio? e il padre rispose: Una freca di carte che ho distrutto”, (Antimafia Duemila – Omicidio Agostino: scoperti nuovi documenti). Da chiarire i viaggi fatti da Agostino sino a Trapani: “Un parente ha raccontato ai magistrati di alcuni viaggi dell’agente a Trapani. Dove, esattamente, non si sa. In quegli anni, ricordano i pm agli atti dell’inchiesta, a Trapani operava l’ultima cellula del servizio segreto Gladio“, (Svolta sull’omicidio Agostino Indagato un poliziotto: “Depistò” – cronaca – Repubblica.it);
    • Il ‘doppio’ ruolo dei Servizi: se Paolilli “era persona di fiducia di Bruno Contrada“, dal momento che “ha testimoniato a sua difesa nel processo a suo carico” (Antimafia Duemila – Omicidio Agostino: scoperti nuovi documenti) e si ingegna per depistare le indagini su Agostino, quest’ultimo, che sventò l’attentato a Falcone, lavorava per il medesimo dipartimento? Chi o cosa Paolilli ha coperto con il depistaggio?
    • Servizi segreti incuriositi dalle attivitià dei giudici: solo lo scorso 5 Marzo 2010, la Procura di Caltanissetta ha aperto un fascicolo d’indagine “sull’intrusione di un funzionario dei Servizi Segreti, in passato assegnato alla Dia, nei locali della Direzione Investigativa Antimafia della citta’” (Antimafia Duemila – Uffici Dia nissena violati, si indaga su 007); oggi, La Repubblica, parla esplicitamente di guerra di spie, sulla linea di tensione fra apertura ai magistrati e continuo depistaggio e minaccia: “E l’intelligence (la parte investigata, sospettata) spia o cerca di spiare ogni mossa degli inquirenti. C’è una formale denuncia di “intrusione informatica” negli archivi della Dia: qualcuno, un paio di mesi fa, ha provato a introdursi nei file che contengono le indagini sulle stragi di Palermo” (Dopo 20 anni torna la guerra di spie gli 007 infedeli frenano le indagini – Repubblica.it).
    • Infine, l’uomo che costituisce il collegamento fra la mafia e i servizi: Gaetano Scotto: l’uomo che fornì il telecomando per l’Addaura, l’uomo che telefona al Castello Utveggio poco prima di via D’Amelio, l’uomo che sa della vera fine di Agostino.

Letture consigliate:

Il Mistero dell’Addaura… ma fu solo cosa Nostra? di Luca Tescaroli, editore Rubettino

Anteprima

luca tescaroli