
Ma come è potuto accadere? Guardando a quegli anni, al 1992, al 1993, ai morti lasciati sull’asfalto, all’asfalto sollevato per aria come un tappeto. Ma come è potuto accadere, ci si può soltanto chiedere. E la desolazione aumenta percependo pienamente che la verità non sarà mai raggiunta, se non fra molti anni. Scoperto un nome, smascherato un volto, un altro nell’ombra si staglia e la caccia ai mandanti occulti diventa un gioco a somma zero in cui chi è chiamato ad investigare si ritrova impietosamente al punto di partenza.
I magistrati di Caltanissetta, il pool di investigatori chiamato a rifare le indagini sulla strage di Via D’Amelio, avendo accertato le falsità del pentito Scarantino, autoaccusatosi del furto della 126, hanno ipotizzato una sorta di trama nera, un anti-Stato che operava militarmente prima, politicamente poi, per imprimere alla politica italiana un segno profondo. Da ciò ne è nato un teorema giornalistico che ha uno dei suoi assiomi nella volontà mafio-massonica di impedire l’elezione a presidente della Repubblica di Giulio Andreotti. In quel preciso istante, che è l’anno 1992, ebbe inizio il conflitto fra Stato e anti-Stato: l’omicidio Lima. Ed è come se per il Nord e il Sud del paese fossero stati previsti destini diversi. Al Sud si operò per impedire l’azione giudiziaria. Al Nord si lasciò fare a quello zelante pool di magistrati di Milano che aprì l’inchiesta Mani Pulite. In mezzo, nell’ombra della normalità, con le vesti di insospettabili collaboratori e di super poliziotti fedelissimi alla causa, si nascondevano uomini dalla doppia identità, Giano bifronte che tessevano le fila del nemico da combattere, la Mafia.
Si suppone ci fossero agenti del Sisde nella polizia palermitana, nelle istituzioni, fra i mafiosi medesimi. Una triangolazione fatale, dentro la quale non fuoriusciva un bel nulla. Da un lato vi era l’opera depistatoria di Arnaldo La Barbera; dall’altro, i trattativisti facenti capo al generale dei Ros Mario Mori. E poi i vertici della Polizia, del Viminale.
La Barbera è stato capo della Squadra Mobile di Venezia, poi di Palermo, ex questore di Palermo, poi di Roma, infine messo al vertice di Ucigos e indagato nell’inchiesta sulla mattanza della Scuola Diaz durante il G8 di Genova, dove forse ispirò l’irruzione nell’edificio e la messinscena delle molotov. Morto per cancro nel 2002, soltanto durante lo scorso mese di Giugno è stato scoperto essere a libro paga del Sisde per almeno due anni, a cavallo fra il 1986 e il 1987.
Dovete sapere che La Barbera diventò capo della Squadra Mobile di Palermo nel 1988, ma lo fu anche per un breve periodo, nel 1985. La Barbera era una sorta di solver-man, un uomo che risolve i guai, che riporta l’ordine. Nel ’85 la Mobile di Palermo era allo sbando: i suoi predecessori, o erano coinvolti nella P2, oppure finirono ammazzati (vi suonerà strano, ma la mafia lasciò stare il piduista). Quando arrivò lui, la Squadra Mobile di Palermo divenne la “Mobile di Ferro”. Nessuno poteva pensare che La Barbera nascondesse una doppia identità, nome in codice “Catullo”. Il suo vice era Guido Longo:
Guido Nicolò Longo era uno dei due sbirri che il Viminale paracadutò nell’infermo di Palermo nella seconda metà degli anni Ottanta. L’altro si chiamava Arnaldo La Barbera. Insieme dovevano ricostruire una Squadra mobile colpita al cuore da veleni, sospetti ma, soprattutto, omicidi. Sì perché la mafia aveva assassinato, uno dopo l’altro, i migliori investigatori siciliani […] La Barbera capo della nuova Mobile, Longo vice […] Giovanni Falcone si fidava di loro. Loro ammiravano Falcone […] E toccò anche a Longo, nel frattempo alla Dia di Palermo, indagare su quei massacri e contribuire alla cattura dei macellai di Capaci […] Guido Longo lo mandano a Napoli. A capo della Dia (L’ultimo cacciatore di mafiosi Longo, da Cosa nostra a Gomorra – Napoli – Repubblica.it).
Di questo passo mi ha colpito la frase: “Falcone si fidava di loro”. Insieme a La Barbera e Longo vi erano poliziotti del calibro di Manganelli e De Gennaro. De Gennaro diventò poi capo della Polizia, il suo successore è stato proprio Manganelli. Fu De Gennaro a inviare La Barbera a Genova, quel sabato, al G8 di Genova. La Barbera e Longo indagarono su Capaci. E La Barbera incappò in quel bigliettino, quello in cui vi era il numero di cellulare di un agente del Sisde, perso proprio lassù, sulla collinetta di Capaci. Quel numero corrispondeva all’utenza di tale Lorenzo Narracci, vice di Bruno Contrada. Una prova così importante che non condusse ad alcun risultato. Venne poi arrestato Giovanni Brusca, indicato come l’uomo che schiacciò il pulsante del telecomando che fece esplodere l’ordigno sotto l’autostrada. Il mostro che sciolse il piccolo Di Matteo nell’acido. Gran merito a La Barbera, eroe dell’antimafia.
Perché mai La Barbera avrebbe dovuto indagare Narracci? Quando si trattò di testimoniare al processo Contrada, La Barbera difese l’operato del collega:
E’ stato lui [La Barbera] ad ammettere di avere trovato l’ anno scorso a Roma una lettera anonima del 1985, un appunto “non protocollato”, scritto “verosimilmente in ambienti interni alla questura di Palermo” per accusare Contrada di rapporti con boss come Riccobono e Badalamenti e di avere dei “possedimenti” in Sardegna […] Avvocato Gioacchino Sbacchi: “Ha accertato qualcosa su Contrada in esito alla delega dei giudici di Caltanissetta?”. La Barbera: “No”. Sbacchi: “Lei e’ stato dirigente della Mobile di Palermo per tanto tempo. Ha acquisito elementi di collusione su Contrada?”. Sbacchi: “Contrada ha mai interferito nelle indagini? Ha mostrato attenzioni particolari, e’ stato indiscreto?”. La Barbera: “Assolutamente no. Ci siamo parlati 4, 5 volte…”. Sbacchi: “Le sono mai stati riferiti sospetti su Contrada?”. Sbacchi: “Lei ha mai avuto rapporti con Contrada nella qualita’ di funzionario del Sisde?”. La Barbera: “Ho partecipato ad una riunione con lui dopo la strage Borsellino”. Sbacchi: “Ritenne il contributo di Contrada positivo o deviante?”. La Barbera: “Deviante proprio no. Fu un contributo fornito da un addetto ai lavori”. Avvocato Piero Milio: “Conosce il rapporto di Contrada contro Badalamenti?”. La Barbera: “Non lo ricordo, ma ho letto diversi rapporti di Contrada fatti con estrema perizia”. Presidente Francesco Ingargiola: “Quell’ anonimo trovato all’ Alto commissariato era stato protocollato o lasciato li’ come un pezzo di carta?”. La Barbera: “Non era protocollato”. Presidente: “Per quanto riguarda i possedimenti in Sardegna?”. La Barbera: “La Procura di Palermo nel 1985 non aveva avviato nessuna indagine patrimoniale” (l’ Antimafia perquisita per Contrada).
Bruno Contrada fu arrestato il 24 Novembre 1992 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, la stessa del Gen. Mori. Su di lui pesavano le dichiarazioni dei pentiti Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese, Salvatore Cancemi. Condannato a 10 anni in primo grado, fu assolto con formula piena in Appello. Una assoluzione sospetta. Infatti il giudizio di legittimità della Cassazione annullò la sentenza di secondo grado e dispose la ripetizione del giudizio d’appello presso una diversa sezione della Corte d’Appello di Palermo. La sentenza definitiva è giunta nel 2007, dopo dodici anni di dibattimenti, quando la Cassazione ha confermato la seconda sentenza d’Appello e la condanna a 10 anni per l’ex poliziotto e ex dirigente della Polizia di Stato (Wikipedia). La vicenda Contrada inizia alla fine del 1992: ha qualcosa a che vedere con la trattativa? contrada viene scaricato dal Sisde? Oppure quelli del servizio segreto si trovano improvvisamente impreparati dinanzi a questa offensiva mafiosa per mano dei pentiti? Di fatto la prima sentenza d’Appello può essere configurata come il tentativo estremo di salvare Contrada. Ma di più il Sisde non poteva fare. Avrebbe messo a rischio l’intera operazione di depistaggio, forse. Poiché proprio alla fine del 1992, La Barbera fu nominato dal Viminale (Mancino) al vertice del pool investigativo stragi “Falcone e Borsellino”. In quella veste, La Barbera organizzò il depistaggio sulle indagini per la morte di Borsellino:
Vincenzo Ricciardi, Salvatore La Barbera e Mario Bo sono tre esimi rappresentanti delle forze dell’ordine italiane. Il primo questore di Novara, il secondo in servizio alla polizia postale di Milano, il terzo capo della squadra mobile di Triste […] Tre uomini, pluridecorati, all’apice delle loro carriere, si sono ritrovati tutti in Procura, per essere interrogati su fatti avvenuti più di 18 anni fa. Perché loro formavano il gruppo investigativo “Falcone-Borsellino”, incaricato di far luce sulle stragi del 1992. Il loro capo era il superpoliziotto Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo e questore della stessa città, deceduto nel 2002 […] L’accusa, per i tre funzionari, è di quelle pesanti: calunnia aggravata, perché “in concorso con il dottor Arnaldo La Barbera, nonché con altri allo stato da individuare”, inducevano, mediante minacce e percosse, Salvatore Candura, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino a mentire in merito alle stragi del ‘92 (I tre poliziotti di La Barbera fanno scena muta | Docmafie).
Un’altra testimonianza sui fatti che condussero all’arresto di Scarantino e soci ci proviene da Gioacchino Genchi, il quale ebbe a collaborare spesso con Arnaldo La Barbera nella sua veste di consulente informatico. All’epoca – 1992-93 – la tecnologia dei telefoni cellulari era scarsamente diffusa. Così la pratica investigativa dell’analisi dei tabulati era cosa nuova. Genchi aveva in mano elementi che sconfessavano l’indirizzo preso per le indagini di Caltanissetta, opera di La Barbera e del procuratore aggiunto Giordano. Genchi, fra il 4-5 maggio 1993, ruppe con La Barbera, con il quale ebbe un furioso litigio: la ragione era la fretta del poliziotto di arrestare Pietro Scotto (il possibile telefonista di Via D’amelio individuato dallo stesso Genchi) e chiudere le indagini. Secondo Genchi, invece, Scotto avrebbe potuto portare al “livello superiore”. Poi è stata una escalation di eventi:
Il 14 un’autobomba esplode a Roma, in via Fauro. L’attentato pare diretto al giornalista Maurizio Costanzo, che ci stava passando, ma che al momento dello scoppio era ancora fuori bersaglio. Sulla stessa via, a una manciata di metri, c’è parcheggiata la Y10 di Lorenzo Narracci, vice di Contrada al Sisde, che abita lì. C’è chi si chiede se il vero obiettivo fosse lui. La strategia della tensione si sposta poi a nord. Il 27 tocca a Firenze, via dei Georgofili, agli Uffizi: cinque morti e trentasette feriti. Il giorno dopo, Pietro Scotto viene arrestato. L’11 luglio, il ministro dell’Interno Nicola Mancino promuove La Barbera dirigente superiore e col grado di questore lo assegna alla direzione centrale della polizia criminale di Roma. L’anno successivo diventerà il nuovo questore di Palermo (L’agente Catullo, Gioacchino Genchi e quella porta sbattuta).
L’arresto di Scotto è quello che si direbbe un arresto ad orologeria. Ma se dalle parole di Genchi si intuisce che La Barbera aveva affrettato i tempi perché desideroso di fare carriera (infatti scoppiò in lacrime davanti a Genchi dicendogli che sarebbe diventato questore e che per lui era in vista una promozione), il fatto che il medesimo fosse al soldo del Sisde cambia le carte in tavola: La Barbera agiva per la propria personale ambizione o invece era sotto mandato del Sisde? La fretta nel chiudere le indagini era dettata dalle bombe oppure si approfittò del caos generato dagli attentati sul continente per far passare la notizia dell’arresto di Scotto in maniera superficiale ai media e all’opinione pubblica?
Il revisionismo giudiziario di quest’epoca ha investito anche il caso del fallito attentato dell’Addaura a Giovanni Falcone. La storia è nota, così come è nota la misteriosa fine dei due poliziotti, Agostino e Piazza, che sventarono l’attentato. Emerge anche in questo caso il ruolo nell’ombra di Arnaldo La Barbera. L’agente Catullo si avvalse forse dell’opera di un ispettore di polizia di Pescara, tale Guido Paolilli:
Dopo un mese e mezzo l’agente Agostino fu ucciso (Emanuele Piazza fu strangolato nove mesi dopo) e la squadra mobile di Palermo seguì per anni un’improbabile “pista passionale”. Un altro depistaggio. Cominciato la stessa notte dell’omicidio con una perquisizione a casa del poliziotto ucciso. Qualcuno entrò nella sua casa e portò via dall’armadio alcune carte che Agostino nascondeva […] Quel qualcuno era l’ispettore di polizia Guido Paolilli, ufficialmente in servizio alla questura di Pescara ma spesso “distaccato” a Palermo e “a disposizione” di La Barbera (Il superpoliziotto La Barbera era un agente dei Servizi – Repubblica.it).
Se La Barbera fosse ancora vivo, l’accusa che lo investirebbe sarebbe gravissima: aver agito in modo da cancellare le prove sull’attentato a Falcone. Falcone collaborava con La Barbera, che era a capo della Mobile. Falcone si fidava di lui. Ed è pur vero che la stagione di La Barbera a Palermo coincide con la stagione dei veleni per il pool antimafia: dopo la conclusione del Maxi-processo (1987), avviene la nomina a capo dell’Ufficio istruzione, in luogo di Caponnetto che aveva voluto lasciare l’incarico, del consigliere Antonino Meli, in quale agì in contrasto a Falcone e Borsellino; poi nel 1989 l’Addaura; poi ancora le lettere del Corvo di Palermo.
Naturalmente La Barbera, Contrada, Narracci, non agivano per conto proprio. Agivano in maniera coordinata, perseguendo il medesimo – destabilizzante – progetto. Si può affermare che obbedissero agli ordini provenienti dall’alto? Ovvero dal quadro istituzionale compromesso con il Sisde deviato? E’ proprio questo, il quadro istituzionale, che mette i brividi. Poiché all’epoca, ai vertici della Polizia di Stato vi era Vincenzo Parisi, già direttore del Sisde fra il 1984 e il 1987; il Sisde, fra il 1987 e il 1994 cambiò quattro diversi Direttori (Malpica, Voci, Finocchiaro, Salazar), segno di una certa instabilità che era poi lo specchio dell’instabilità politica; Malpica fu al centro dello scandalo dei fondi neri del Sisde; presidente della Repubblica, nel 1992, divenne, al posto di Andreotti, Oscar Luigi Scalfaro, padre costituente e strenuo difensore della Costituzione, che però ebbe un passato di Ministro dell’Interno nel governo Craxi fra il 1983 e il 1987; insieme a Nicola Mancino, venne coinvolto anch’esso nello scandalo Fondi Neri-Sisde (famoso il suo discorso alla tv, “Io non ci sto!”); Nicola Mancino, che divenne ministro dell’Interno nel 1992, dal giorno alla notte, spodestando Vincenzo Scotti ad insaputa del medesimo, in uno dei più strani rimpasti di governo che la storia repubblicana abbia mai conosciuto.
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