Esclusivo | Storia della mozione 5 Stelle sulle pensioni d’oro

Leggi la seconda parte: https://yespolitical.com/2014/01/12/tetto-alle-pensioni-doro-e-i-confini-della-costituzionalita/

A calvalcare l’indignazione son buoni tutti. Vi ricordate il Popolo Viola? Esiste ancora un blog, tenuto da uno dei fondatori del movimento, tale Franz Mannino, con un profilo – diciamo così – schiettamente anti-casta. Due giorni fa, durante la seduta n. 147 della Camera sono state discusse alcune mozioni relative a “iniziative volte all’introduzione di un prelievo straordinario sui redditi da pensione superiori ad un determinato importo” (Resoconto Stenografico, seduta n. 147 del 08/01/2014). Sì, parlo delle mozioni sulle Pensioni d’Oro.

Il blog viola urla allo scandalo. Vi era una mozione 5 Stelle, la Mozione n. 1-00194 di Sorial Girgis Giorgio (M5S) ed altri, che “consisteva nell’applicare un prelievo alle pensioni d’oro ricavando un miliardo e 140 milioni per aumentare le pensioni minime di 518 euro all’anno” (violapost). Ben in 337 hanno votato contro questo sacrosanto provvedimento. E giù la lista dei votanti, frutto di “un lavoraccio” perché “in questa forma [la lista] non troverete da nessun’altra parte”. L’equazione è molto semplice: un 5 Stelle ha proposto di tagliare le pensioni d’oro, il Pd ha votato contro. Ergo, i piddini sono pervasi dai lobbisti e difendono il privilegio. “Conservate quest’elenco e tiratelo fuori al momento del voto”, ammoniscono i violacei.

Leggendolo, ho notato una incongruenza: una mozione non contiene una norma, una mozione è un atto di indirizzo che – se votato dall’aula – impegna il governo a fare una determinata operazione, che può essere molto semplicemente prendere in esame un problema e studiarne alcune soluzioni normative. E’ pertanto un provvedimento di portata inferiore rispetto, per esempio, ad un emendamento, laddove invece i parlamentari che lo hanno firmato intendono apportare una modifica sostanziale ad un articolo di un progetto di legge.

Intanto, però, quel giorno le mozioni sul medesimo argomento erano ben sette:

  1. mozioni Sorial ed altri n. 1-00194
  2. Giorgia Meloni ed altri n. 1-00255
  3. Di Salvo ed altri n.1-00256
  4. Tinagli ed altri n. 1-00257
  5. Gnecchi ed altri n. 1-00258
  6. Fedriga ed altri n. 1-00259
  7. Pizzolante ed altri n. 1-00260

Su ben sei mozioni, fra cui la Sorial, la rappresentante del governo, Maria Cecilia Guerra, Viceministro del lavoro e delle politiche sociali, ha espresso parere contrario. Su una, la mozione Gnecchi, ha invece dato invece parere positivo. Concentriamoci su quest’ultima, e sulla mozione Sorial, che trascrivo di seguito per la parte in cui si cita l’attività richiesta al governo:

Mozione Sorial, impegna il governo a:

  • a valutare l’opportunità di assumere iniziative per prevedere, per un periodo limitato di tre anni, sui redditi da pensione lordi annui un contributo solidale supplettivo;
  • a valutare l’opportunità di revisionare i trattamenti pensionistici erogati per prestazioni lavorative di elevato importo, al fine di adeguare i trattamenti medesimi all’effettiva contribuzione da parte del lavoratore beneficiario in quiescenza, riducendo la quota di trattamento acquisita in base al sistema retributivo, fissando per ciascuna forma di sistema un tetto massimo di pensione erogabile.

Viste così, le richieste sembrano proprio ineccepibili. Però vi invito lo stesso a leggere la mozione Gnecchi. Vi chiederei di rivolgere la vostra attenzione al preambolo del documento:

il Governo e il Parlamento hanno opportunamente introdotto, con la recente legge di stabilità, significative misure che si muovono proprio nella direzione di affrontare i problemi di equità sociale connessi con l’esistenza di importi pensionistici di ammontare particolarmente elevato in assenza – in molti casi – di un’effettiva ragione giustificatrice. Sotto questo aspetto, meritano di essere segnalati: il comma 486, che ha introdotto per un triennio un contributo di solidarietà a carico dei trattamenti di più elevato ammontare, anche al fine di sostenere iniziative in favore dei lavoratori cosiddetti «esodati»; il comma 489, il quale ha introdotto un limite alla cumulabilità dei redditi da pensione percepiti da ex dipendenti pubblici con ulteriori fonti di reddito pure poste a carico della finanza pubblica (Mozione 1-00258).

Sorprendente, non è vero? Sorial chiedeva al governo di valutare l’introduzione di un prelievo aggiuntivo per tre anni che però è già stato approvato nella legge di Stabilità 2014 (qui il testo; scorrete con la ricerca sino ai commi 486 e 489). Il secondo punto della richiesta di Sorial risulterebbe invece compreso nella frase che Gnecchi ha voluto così formulare, e che ha incontrato il favore del governo:

a monitorare gli effetti e l’efficacia delle citate misure introdotte con la legge di stabilità;
a valutare, agli esiti di questo monitoraggio, l’adozione di interventi normativi che, nel rispetto dei principi indicati dalla Corte costituzionale, sempre in un’ottica di solidarietà interna al sistema pensionistico, siano tesi a realizzare una maggiore equità per ciò che concerne le cosiddette «pensioni d’oro» e correggano per queste ultime eventuali distorsioni e privilegi derivanti dall’applicazione dei sistemi di computo retributivo e contributivo nella determinazione del trattamento pensionistico (Mozione 1-00258).

In pratica, anche se con parole meno chiare, la Mozione Gnecchi (che, ripeto, è un atto di indirizzo!) chiede al governo di “correggere le distorsioni e i privilegi derivanti dall’applicazione dei sistemi di computo retributivo e contributivo”. Va da sé che la richiesta di Sorial è legittima, ma non è uno scandalo se l’aula decide di rimandare la discussione in Commissione Lavoro, come specificato nel dibattito da Cesare Damiano (“Il Governo è appena intervenuto sulle «pensioni d’oro». Noi, con la nostra mozione, diciamo che siamo pronti a discutere – lo faremo in Commissione lavoro, ci sono molte proposte di legge“).

Sia chiaro: l’apposizione di un tetto alle pensioni d’oro è un atto doveroso. Tuttavia, sono in essere alcuni ostacoli di carattere costituzionale sui quali la Consulta si è già espressa ribadendone la effettività (“la giurisprudenza costituzionale guarda con sfavore forme di prelievo coattivo di ricchezza che vadano a colpire solo talune fonti di reddito“, scrive Gnecchi), che dovrebbero essere presi in considerazione prima di introdurre un nuovo intervento su tale materia.

Detto ciò, resta da capire perché, per ogni voto e per voti su mozioni di indirizzo, si dovrebbero fare liste di parlamentari indegni. Non vi era solo la mozione Sorial, in discussione. E non solo la mozione Sorial non è stata approvata. Inoltre, anche se fosse stata approvata, non avrebbe modificato alcunché nella legislazione vigente (Art. 1, commi 486 e 489 della Legge di Stabilità), che già prevede – per il prossimo triennio – un prelievo regolativo sulle pensioni d’oro nonché il divieto di cumulo con altri trattamenti retributivi. L’atto avrebbe semplicemente rimandato la questione al governo, il quale avrebbe poi ‘tirato’ le proprie conclusioni.

Potete ben capire che, procedendo in questo senso, ovvero gridando allo scandalo sempre mettendo in un unico calderone voti su semplici mozioni, voti su emendamenti e voti chiave, non si comprende proprio nulla. A che serve tenere a memoria la lista dei votanti, se semplicemente lo scandalo non c’è?

Civati: ‘se Matteo cambia verso, io il verso non lo cambio’

Intervista a La Stampa di Giuseppe Civati. Inevitabile parlare di Renzi e della sua nuova, nuovissima, anzi vecchia, posizione sul governo Letta. Se Matteo cambia verso, dice Civati, suo avversario nella corsa alla segreteria PD, allora io il verso non lo cambio.

Lo schiaffo di Palazzo Grazioli

Così Alfano non c’era alla riunione del PdL. E’ arrivato a Palazzo Grazioli ben dopo la mezzanotte. L’incontro con Berlusconi è durato non più di venti minuti. Una visita, null’altro, per comunicare che un manipolo di senatori farà la scissione. Silvio, Dudù, Francesca, l’aria improvvisamente impietrita. Alfano, e quella spocchia da azzeccagarbugli abbronzato. Abbiamo dirazzato, Silvio.

E’ la prima volta forse che la trama di relazioni di Silvio Berlusconi trova un limite, anzi, la prima volta che viene lentamente sgretolata ai bordi. L’ex Cavaliere ha scoperto che un’altra affinità, un’affinità rimasta sommersa per quasi venti anni, lega questi uomini al Presidente Letta. Fabrizio Cicchitto, Maurizio Lupi, Carlo Giovanardi, lo stesso Alfano, hanno percepito il ritorno di un comune sentire. E così tradiscono il padre padrone del loro partito, l’ormai vecchio avvizzito e degenerato fondatore del Predellino, in vista forse di una qualche ricompensa politica: avere un ruolo da protagonista nell’epoca post-berlusconiana. Che poi questo coincida con il ritorno del Grande Centro, o della Balena Bianca, poco importa. In fondo – questo è il loro segreto – sono sempre stati, intimamente, duplici e democristiani.

In tutto questo scenario, il Partito Democratico è arrivato al capolinea: ora il PD dovrà scegliere se essere la carne sacrificale per il risorgimento della DC o scegliersi la propria parte e una identità, risolvendo per sempre quell’ambiguità di fondo che lo ha contraddistinto sin dalla prima ora. Sarebbe bello che, ad operare questa scelta, fossero non i gerarchi chiusi in una riunione stile ‘caminetto’, ma gli iscritti e gli elettori, e non necessariamente in questo ordine. Sarebbe bello, ma potrebbe non accadere. E’ appunto per tale ragione che occorre esserci. C’è una differenza sostanziale fra i Democratici e Alfano, Giovanardi, Lupi, Cicchitto. E non serve che ve la spieghi. Bisogna solo farla rispettare.

Senato, gli equilibri cambiano (secondo il @Corriereit)

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L’infografica degli amici del Corriere della Sera prevede una pattuglia di 28 senatori pronti a sacrificarsi per Letta. Sarà vero?

Petizione al Governo Italiano: Abbassate le imposte sui redditi da lavoro

Firma la Petizione. Mancano almeno 5000 firme. Aiuta i promotori a far pressione sul Governo Letta. Clicca qui.

A:
Segreteria del Consiglio dei Ministri
Roberto Speranza
Luigi Zanda
Stefano Fassina
Ministero dell’Economia e delle Finanze
Presidente del Consiglio Enrico Letta
Segreteria Generale del Governo Italiano
Governo Italiano – Rapporti con il Parlamento
Governo Italiano – Ufficio Stampa
Governo Italiano – Ufficio di Presidenza
Ministero del Tesoro – Ufficio Stampa
Ministero del Tesoro – Relazioni con il Pubblico
Vi chiediamo di adoperarvi per abbassare le imposte sui redditi da lavoro per guadagnare agli occhi dei contribuenti onesti – sui quali tutto il peso è gravato in questi anni – la credibilità necessaria a combattere l’evasione fiscale.
Se esistono le risorse per tagliare l’Imu sulla prima casa o per evitare l’aumento dell’Iva, allora esistono le risorse per tagliare le aliquote sull’imposta sui redditi. Riteniamo che la seconda soluzione sia di gran lunga preferibile alla prima.
Oltre al dramma della disoccupazione, oggi moltissimi italiani faticano ad arrivare a fine mese malgrado lavorino regolarmente, per via di contratti incerti, compensi insufficienti e un carico fiscale che pesa su di loro in modo eccessivo: per questi motivi, chiediamo di iniziare dalla riduzione dell’aliquota sul primo scaglione, quello che coinvolge i redditi fino a 15.000 euro lordi. Così facendo sosterremo il reddito di tutte le famiglie italiane, e non solo di quelle proprietarie, e riusciremo a diminuire il cuneo fiscale che grava sul costo del lavoro per le imprese.Per queste ragioni è necessario ridurre il carico fiscale sui redditi da lavoro, subito!

Cordiali saluti,
[Il tuo nome]

Il discorso di Walter Tocci sulla Riforma dell’articolo 138 della Costituzione

Questo ha detto Walter Tocci, stamane al Senato. Un discorso condivisibile, che mette l’accento non su generici allarmi di ‘attacco alla Carta Costituzionale’ ma al contrario mette in discussione tutto l’impianto argomentativo che ha indotto il governo a procedere con una riforma dell’articolo 138. Per Tocci, “si ricorre all’ingegneria istituzionale per obbligare il politico a fare ciò che non gli riesce spontaneamente”, ergo la modifica istituzionale è un paravento che nasconde la reale intenzione di non far niente.

Su questo blog ho avuto parole di critica verso gli allarmisti, verso i professionisti dell’indignazione. Il progetto di legge costituzionale n. 813 è pura scena. Istituisce un comitato fatto di parlamentari (una ‘bicamerale’ a tutti gli effetti) che dovrà preparare dei pacchetti di riforme istituzionali non meglio precisate entro diciotto mesi da quando lo stesso entrerà in funzione. Tutte le riforme istituzionali che il Comitato riuscirà a produrre (quale è il minimo sindacale? Due? Tre riforme?) attraverseranno il Parlamento ad una velocità sinora sconosciuta (1 mese di intervallo fra le due votazioni nello stesso testo) e però dovranno passare il vaglio del referendum popolare anche se validate dal voto dei due terzi. Ebbene, mai queste leggi avranno il voto dei due terzi; mai potranno passare lo scoglio del referendum in una situazione politica così precaria e frammentata (il governo delle larghe intese non sopravviverà a lungo, soprattutto dopo l’accelerazione della deriva giudiziaria per Berlusconi). Questo progetto di legge non è osceno perché sbagliato; è osceno poiché politicamente insostenibile e senza futuro. E’ osceno poiché reca in sé la pretesa di essere rappresentanza di una volontà popolare ma è invece frutto dell’opera di partiti sostenuti da meno della metà del corpo elettorale. 

Leggete bene questo eccezionale discorso.

Vorrei ribaltare un famoso incipit dicendo che tutto, fuorché la cortesia, mi porta contro questa proposta di legge. Il mio dissenso comincia dal titolo, si alimenta dal testo e diventa totale sull’idea stessa di toccare la Costituzione.

Per rispetto del mio partito non voterò contro, ma, nel rispetto dell’articolo 67, non posso votare a favore. D’altronde, c’è già troppo unanimismo: si propagano luoghi comuni che sembrano veri solo perché ripetuti con sicumera dall’inizio, trent’anni fa. Il mondo è cambiato, ma l’agenda è rimasta sempre la stessa.

L’entusiasmo iniziale delle bicamerali si è tramutato in una vera ossessione a modificare le istituzioni, una malattia solo italiana, che non trova paragoni in nessun altro Paese occidentale. È difficile credere che la nostra Carta costituzionale sia tanto più difettosa delle altre da meritare questo accanimento terapeutico. È più probabile che il malanno dipenda dagli improbabili costituenti.

Siamo chiamati a dichiarare che la revisione della Costituzione è oggi una suprema esigenza nazionale. Mi chiedo perché, per che cosa e in nome di chi.

La domanda sul perché riguarda la decisione. Si ricorre all’ingegneria istituzionale per obbligare il politico a fare ciò che non gli riesce spontaneamente, ma questo cadornismo applicato all’ordinamento è sempre fallito: il bipolarismo doveva eliminare la corruzione; il federalismo doveva promuovere lo sviluppo locale; il maggioritario doveva garantire la stabilità. Per dirla con don Abbondio, chi non ha la volontà politica, non se la può dare con gli artifici istituzionali.

Eppure questa illusione è dura a morire. Ha sostenuto strategie politiche, ha animato i talk show, ha creato perfino il nuovo ordine professionale degli ingegneri istituzionali, costituito dai parlamentari esperti del tema – ai quali va comunque la mia stima personale – dai giuristi, che ne hanno fatto una carriera accademica, e dagli editorialisti, che ne hanno fatto una fortuna mediatica.

L’ordine degli ingegneri si pone solo domande tecniche, ma il dato saliente del trentennio è la crisi dei partiti. La causa politica dell’ingovernabilità è stata trasferita in capo alle istituzioni. Se non si decide, non è colpa mia, ma dello Stato che non funziona: questo è il motto del politico, a tutti i livelli. Lo sviamento, però, non è stato innocuo: è servito come alibi alla politica per non affrontare i suoi problemi, che si sono di molto aggravati. Le istituzioni sono state stravolte per finalità di parte, invece di essere curate nella loro essenza.

La promessa era di riformare lo Stato per migliorare i partiti, ma sono peggiorati entrambi; mai erano giunti tanto in basso nella stima dei cittadini.

È tempo di fare sobriamente la nostra parte, lasciando in pace le istituzioni. L’unica riforma veramente necessaria è cambiare i nostri partiti per renderli adeguati al compito di governo del Paese.

La domanda sul che cosa si è ridotta ad un mantra: il mondo cambia e bisogna decidere in fretta. Ma in quest’Aula sappiamo bene che le leggi più brutte sono proprio quelle più frettolose: il “porcellum” fu approvato in poche settimane; le leggi ad personam di gran carriera; diversi decreti di Monti, approvati con lo squillar di trombe, sono oggi smontati dal Governo Letta. Il decisionismo senza idee ha prodotto un’alluvione normativa che soffoca l’economia e la vita quotidiana dei cittadini.

Aveva ragione Luigi Einaudi a fare l’elogio della lentezza parlamentare come antidoto all’ipertrofia normativa. Non è la velocità ma la qualità che manca al procedimento legislativo.

La causa è nello strapotere dei governi che da tanti anni propongono solo leggi omnibus, con centinaia di commi disorganici, improvvisati, spesso modificati prima di essere applicati. Questa peste normativa distrugge l’amministrazione dello Stato, crea i contenziosi, le interpretazioni fantasiose e la paralisi attuativa. Bisognerebbe restituire al Parlamento la piena sovranità legislativa, ma questa autoriforma dovremmo farla noi, cari colleghi, senza delegarla all’ordine professionale degli ingegneri istituzionali, dovremmo attuarla con l’orgoglio di parlamentari: poche leggi l’anno, in forma di codici unitari, delegando funzioni al Governo e aumentando i poteri di controllo. Stabilire che non si legiferi senza prima valutare i risultati delle leggi precedenti. Dare alle Commissioni parlamentari poteri di inchiesta: un dirigente di Finmeccanica deve temere un’audizione come un manageramericano quando va in Senato.

Alla terza domanda (in nome di chi?) si risponde: nell’interesse nazionale. Eppure, ogni volta che abbiamo modificato la Costituzione ce ne siamo dovuti pentire: il Titolo V ha creato conflitti permanenti tra Stato e Regioni; dopo lo ius sanguinis del voto all’estero oggi si passa ad invocare lo ius soli per i figli degli immigrati; prima si blocca il pareggio di bilancio e poi si esulta per la deroga concessa dall’Europa.

D’altro canto, basta leggere il testo per notare la differenza. La bella lingua italiana, con le parole semplici e intense dei Padri costituenti, viene improvvisamente interrotta da un lessico nevrotico e tecnicistico, scandito dai rinvii a commi, come un regolamento di condominio. Sono queste le parti aggiunte da noi.

Fortunatamente i cittadini hanno evitato i guai peggiori bocciando la legge costituzionale ideata dagli stessi autori del “porcellum”. L’unico baluardo è venuto dai presidenti di garanzia come Scalfaro, Ciampi e Napolitano. Mi sconcerta la leggerezza con la quale si ritiene possibile demolire questo ultimo bastione. In Italia la personalizzazione si è sempre presentata come patologia e non come responsabilità delle leadership. Non scherziamo col fuoco: il presidenzialismo non sarebbe un emendamento, ma un’altra Costituzione.

Dovremmo avere un senso del limite. I nostri partiti rappresentano oggi a malapena la metà del corpo elettorale, l’altra metà ha manifestato in tutti i modi il disagio e la sfiducia. Noi non siamo quindi in grado, in questo momento, di rappresentare l’unità nazionale. Non è saggio usare la revisione costituzionale per santificare un Governo privo del mandato elettorale. Questo è il vulnus che segna la modifica del 138. Il procedimento lega la sorte del Governo ai tempi e ai modi della revisione costituzionale. Porre un vincolo di maggioranza come inizio e come fine nella della riforma è una forzatura politico-costituzionale senza precedenti in Italia e in Europa. I Governi passano, le Costituzioni rimangono, non dimentichiamolo.

Dovremmo prendere atto che la nostra generazione non è capace di fare queste riforme, che possa farlo oggi al minimo storico del consenso elettorale è un ardimento senza responsabilità, è una dismisura contro lo spirito costituzionale. Lasciamo alle generazioni successive il compito di rielaborare l’eredità ricevuta dai Padri costituenti. Non tutte le generazioni hanno l’autorevolezza per cambiare la Costituzione.

Dovremmo prenderne atto con umiltà, con l’umiltà di cui parla Papa Francesco, che dovrebbe sempre accompagnare l’esercizio del potere. La nostra umiltà è il migliore contributo che possiamo portare oggi alla Carta costituzionale. (Applausi dai Gruppi PD, M5S e Misto-SEL e della senatrice De Pin).

Deroga articolo 138 della Costituzione: gli sviluppi in Commissione

Dicevo la scorsa settimana che l’allarmismo sull’annunciata deroga all’articolo 138 della costituzione, improvvisamente riproposto dal blog di Grillo dopo alcuni giorni di silenzio da parte dei media, era ingiustificato. Così era, così è, ma devo aggiornarvi sugli sviluppi del dibattito al Senato in I Commissione Affari Costituzionali.

Fino a ieri, lo spettro della deroga era contenuto all’interno di una mozione parlamentare che impegnava il governo ad inserire, nel progetto di legge costituzionale che dovrebbe istituire un Comitato per le Riforme Istituzionali, una deroga al limite dei tre mesi contenuto nel citato articolo 138, al primo comma (distanza di tre mesi fra le due deliberazioni). Leggendo il resoconto della riunione della I Commissione, avvenuta ieri 02/07/2013, dove erano in esame gli emendamenti all’articolo 4 del disegno di legge costituzionale 813, si scopre che l’impianto dell’articolo 138 è rimasto praticamente integro con alcune piccole variazioni che possono essere problematiche.

L’articolo 4, al comma 4, prevede una riduzione della distanza temporale fra le due pronunce del legislatore rispetto al testo originale dell’articolo 138 – non quindi una deroga, ma una abbreviazione dei tempi (una deroga, di fatto, dovrebbe comportare una riduzione della rigidità ascritta nella costituzione, mentre il ddl costituzionale, con l’articolo 5, rafforza la rigidità estendendo il referendum popolare anche alle riforme votate con maggioranza qualificata dei due terzi). Ma, mentre nel testo originale era previsto il termine minimo di un mese, l’emendamento 4.14, che ha incontrato il parere favorevole della relatrice del documento Anna Finocchiaro, riduce ulteriormente questo termine a quarantacinque giorni. La modifica rimane limitata alla permanenza in ‘vita’ del Comitato per le riforme, il quale decadrà il giorno dopo aver prodotto le suddette riforme (o con lo scioglimento di una o di entrambe le Camere). L’abbreviazione dei tempi della doppia deliberazione, quindi, non è permanente, ma transitoria e limitata. Va da sé che tale modifica non cambia la procedura del passaggio del provvedimento da una Camera all’altra, le quali continuano ad essere obbligate a completarne l’esame entro tre mesi.

In realtà, l’allarme dovrebbe provenire da altri piccoli dettagli che passano quasi inosservati nel testo del resoconto parlamentare. Anna Finocchiaro, nell’esprimersi “favorevolmente sull’emendamento 4.14”, pone la condizione per l’approvazione che sia “riformulato sopprimendo le parole sul medesimo testo“. Può quindi, in virtù di questo emendamento, un ddl costituzionale prodotto dal Comitato essere approvato alla seconda votazione alla Camera o al Senato in un testo modificato rispetto alla prima deliberazione?

Riassumo nuovamente:

  1. parlare di deroga all’articolo 138 è improprio perché il ddl costituzionale S-813 modifica solo l’elemento temporale della doppia deliberazione, ma non la elimina;
  2. tali modifiche sono temporanee, poiché il legislatore le ha agganciate alla ‘vita’ del Comitato per le riforme, che a sua volta viene dismesso in caso di conclusione dei lavori, o di scioglimento delle Camere;
  3. l’articolo 5 (Referendum) continua a essere previsto anche per i ddl costituzionali approvati con maggioranza qualificata dei due terzi e di fatto costituisce un rafforzamento della rigidità della costituzione;
  4. l’unica modifica importante è l’eliminazione dall’emendamento 4.14 della dicitura ‘sul medesimo testo’, il che implica che le due deliberazioni possono avvenire su testi differenti.

PS:  Vorrei farvi notare che il Comitato per le riforme viene istituito con legge costituzionale giocoforza seguendo il dettato costituzionale dell’articolo 138, pertanto sarà operativo fra almeno sette mesi…

[seguirà aggiornamento]

 

Finanziamento Partiti, Tocci risponde sul meccanismo dell’inoptato

Ieri ho domandato a Walter Tocci, senatore del PD e estensore di un disegno di legge che intende regolamentare diversamente il finanziamento dei partiti, come ha affrontato, nella stesura della sua proposta del 2xmille ai partiti, la questione dell’inoptato ovvero dell’insieme delle somme che non sono state disposte semplicemente perché il contribuente non ha espresso alcuna volontà.

Tocci ha risposto stamane, esprimendo la propria contrarietà al subdolo meccanismo che il Governo Letta ha previsto nella propria versione del DDL di riforma del finanziamento dei partiti: “La proposta Letta sbaglia a prevedere il due per mille per lo Stato, non c’è bisogno di contrapporlo ai partiti, e a ripetere il meccanismo dell’inoptato. La nostra proposta di legge lo evita e segue la normativa già in vigore per il cinquexmille”.

Infatti, solo il 5xmille è effettiva espressione di una volontà, la cui rinuncia non implica alcuna ripartizione automatica. Il meccanismo dell’inoptato deve essere subito emendato dal governo. Non è presentabile una proposta del genere. Enrico Letta dovrebbe far proprio il disegno di legge Tocci.

Per approfondire:

Finanziamento Partiti: la riforma Letta e il trucco dell’inoptato

Proposta del democratico Walter Tocci

Finanziamento Partiti: la riforma Letta e il trucco dell’inoptato

Secondo il progetto di riforma preparato dal Governo Letta, uno dei meccanismi che dovrebbe regolamentare il Finanziamento dei partiti politici sono il 2xmille e le detrazioni d’imposta per le cosiddette erogazioni liberali. Fondamentalmente lo schema del disegno di legge somiglia a quanto proposto dal democratico Walter Tocci ma con alcune sostanziali differenze. La prima, la più evidente, che ha fatto insorgere l’ala dura del M5S: il meccanismo del 2xmille studiato dal governo somiglia molto al sistema dell’8xmille che regola le distribuzioni dei soldi della tassa sul reddito alle organizzazioni religiose, specie per la parte in cui si regola la gestione dell‘inoptato. L’inoptato è l’insieme delle somme che non sono state disposte ad alcuno semplicemente perché il contribuente non ha espresso la sua volontà. Il ministro Orlando (PD), intervistato da SkyTg24, ha cercato invano di sostenere la propria affermazione secondo cui nel 2xmille non ci fosse alcuna traccia di meccanismo distributivo automatico dell’inoptato in stile 8xmille. Orlando si è letteralmente arrampicato sugli specchi.

Va da sé che il testo del DDL non è ancora pubblico e qualsiasi ragionamento in proposito è difficile da fare. Perciò dobbiamo fidarci (ed è una bella sfida) di quanto riportano i giornali online stasera. Secondo il Fatto Quotidiano, il provvedimento del governo Letta ha il trucco: la parte di tassazione inoptata viene distribuita tra i partecipanti proporzionatamente alle scelte ricevute. Tutto il contrario di quel che accade con il 5xmille (una formula di democrazia fiscale dedicata agli enti privati e pubblici specie del terzo settore), in cui l’inoptato viene trattenuto dallo Stato per la spesa corrente (e spesso il 5xmille legittimamente disposto dal contribuente non viene nemmeno pagato). La proposta Tocci non contiene alcuna norma in proposito. Se Tocci e gli altri firmatari non hanno inserito norme in proposito, è evidente che l’intenzione del legislatore è quella di non ammettere che l’inoptato sia suddiviso proporzionalmente alle scelte effettivamente praticate. Ciò eviterebbe di gonfiare in maniera spropositata la quota di tassazione da suddividere fra gli aventi diritto.

Ho chiesto al Senatore Tocci – via Facebook – di specificare cosa intende fare in merito. In attesa della risposta – che pubblicherò su questa pagina non appena l’avrò ricevuta – è utile segnalare due ulteriori aspetti che differenziano la proposta Tocci e il disegno di Legge del Governo: 1) la percentuale di tassazione da disporre per ogni contribuente è dell’uno per mille (governo Letta: 2xmille); 2) la proposta Tocci pone il tetto dei 50000 euro annui alle erogazioni liberali (governo Letta: nessun limite, ma introduce la formula della detrazione – 52% sino a 5000 euro, 26% sino a 26000 euro; nulla per cifre superiori, che pure possono essere donate); 3) la proposta Tocci intende regolare, con le medesime modalità definite per i partiti, il finanziamento delle fondazioni (governo Letta: non dispone nulla in merito); 4) gli aventi diritto sono tutti quei partiti che hanno superato l’1% di voti (governo Letta: ogni partito che ha eletto almeno un rappresentante).

Per un confronto:

proposta Tocci

il comunicato stampa del Governo sul DDL di riforma

Proposta Letta, la gestione dell’inoptato:

Art. 4 – (Destinazione volontaria del due per mille dell’imposta sul reddito)

Le destinazioni di cui al comma precedente sono stabilite sulla base delle scelte effettuate dai contribuenti in sede di dichiarazione annuale dei redditi mediante la compilazione di una scheda recante l’elenco dei soggetti aventi diritto. Il contribuente può indicare sulla scheda un unico partito o movimento politico ovvero può dichiarare che intende mantenere il 2 mille della propria imposta a favore dello Stato. In caso di scelte non espresse, la quota di risorse disponibili, nei limiti di cui al comma 4, è destinata ai partiti ovvero all’erario in proporzione alle scelte espresse. Nel caso di cui al periodo precedente, la ripartizione di risorse fra i partiti e movimenti politici è effettuata in proporzione ai voti validi conseguiti da ciascun avente diritto nelle ultime consultazioni elettorali per il rinnovo della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.

Scarica la bozza del disegno di legge finanziamenti-partiti

Walter Tocci risponde a Yes, political! sul meccanismo dell’inoptato

Il caso della mozione Giachetti

Intempestiva. Così Anna Finocchiaro ha etichettato la mozione Giachetti (potete leggerla qui, è un mero atto di indirizzo che vincola la Camera, non il governo) che pure era nota da settimane, oggi è diventata dirimente per la prosecuzione dell’esperienza di governo con il Pdl. Sarà l’effetto incoraggiante della “rivincita” di Bersani avvenuta nelle urne domenica e lunedì? Ai posteri l’ardua sentenza. A me, mero osservatore, è parso che le cariatidi del PD, categoria che a sua volta quasi certamente comprende i misteriosi 101, intendono spostare in là nel tempo, e con la soluzione blindatissima delle primarie fra soli iscritti, il congresso e la risoluzione del grande equivoco che ci perseguita dal 24-25 Febbraio. Per resistere, indomiti, e condizionare le dinamiche parlamentari al fine di prolungare la vita amara del governo Letta.

E’ bene ribadire che non vi è stata alcuna rivincita, che il PD è stato salvato localmente solo dalla bontà dei suoi candidati sindaco, che l’astensionismo ha falcidiato maggiormente i partiti liquidi e i movimenti liquidissimi. Detto ciò, l’accordo di ieri sul cronoprogramma delle riforme istituzionali ha palesato ancor di più la dipendenza di Letta dai desiderata di Berlusconi, Brunetta e soci, i quali hanno nuovamente operato per posticipare nel tempo, e forse stralciare, la riforma della legge elettorale. Qualcosa che abbiamo già sperimentato un anno fa, durante il governo dei tecnici. Sappiamo tutti come è andata. Lo sa anche Roberto Giachetti, il quale è andato ostinatamente per la sua strada, perdendo alcuni sostenitori, fra cui Civati (che dapprima ha appoggiato una risoluzione dubitativa sull’accordo di ieri circa la costituzione della Commissione dei 40, poi, consapevole dalla presa di posizione di Letta – ritirate la mozione! – ha votato conformemente alle indicazioni del gruppo). Ma bisogna sottolineare che il voto di oggi era abbastanza insignificante. Un atto di indirizzo verso l’aula, che il PD ha deciso di osteggiare. E senza il voto dei democratici, alla Camera non passa nulla.

Va da sè che stupiscono le impennate della Finocchiaro e l’inconsapevolezza di Epifani. Oramai si rasenta l’ipocrisia. Il vertice del Partito è ancor più indisponente e quella piccola vittoria di domenica, vittoria che si sono frettolosamente intestati (ricordate che Ignazio Marino aveva contro il partito, che lo voleva persino sostituire, tre settimane prima del voto), li ha ancor più ringalluzziti.

E stupisce pure il ritardo con cui il Movimento 5 Stelle si è allineato alla mozione Giachetti. Non sono riusciti a incidere in un dibattito parlamentare che per un giorno si è trasferito tutto all’interno di uno stesso partito.

Come deciderà la Giunta per le Elezioni sull’ineleggibilità di Berlusconi

Posso anticiparvi le conclusioni della Giunta per le elezioni per il caso della ineleggibilità di B. Il cavillo è stato più volte raccontato da giornalisti illustri. Più volte. La legge del 1957 è stata aggirata nel 1994, nel 1996, nel 2006. Eccetera. Andrebbe rivista nel senso di una maggiore specificazione delle figure responsabili di società concessionarie ritenute influenti nei meccanismi decisionali delle stesse. Naturalmente nessuno finora ci ha pensato. E pertanto non mi spiego come si possa pensare di poter ottenere un esito diverso dal 1994, dal 1996 e dal 2006, e proprio ora, con una Große Koalition così perversa come quella fra PD e Pdl.

Ribadisco un concetto: se davvero i 5 Stelle e Grillo volevano metter fuori gioco il Caimano, avrebbero dovuto accettare un governo (temporaneo, molto temporaneo) con PD e Sel. Hanno invece operato per distruggere questa prospettiva e in questi giorni lavorano all’esclusivo scopo di incrementare il consenso a discapito dei Democratici. L’ineleggibilità è impiegata come grimaldello per istigare il malcontento dell’elettorato di sinistra. Ritengo questo teatrino semplicemente disgustoso.

Invece, sul caso Zanda, non ho trovato parole migliori di quelle di Pippo Civati: “Sono molto freddo su questo punto. La vera questione e’ costruire un sistema di norme che impediscano la candidabilità per il futuro. Dire che adesso Berlusconi non e’ eleggibile come ha fatto Zanda in un cortocircuito totale, visto che siamo alleati, e’ una comica totale. Sarei un po’ piu’ razionale” (via http://www.italiachiamaitalia.it).

Impedire la candidabilità per il futuro. Eh. Il futuro.

Per ripassare:

Seduta della Giunta per le elezioni della Camera dei Deputati, XIII Legislatura, seduta del 17 ottobre 1996.

La Giunta, nella seduta del 20 luglio 1994, esaminò i ricorsi proposti avverso l’eleggibilità dell’onorevole Silvio Berlusconi. Il relatore del tempo ebbe a riferire che il Comitato per le eleggibilità e le incompatibilità aveva valutato all’unanimità infondati i ricorsi, ritenendo che l’articolo 10 del testo unico non fosse applicabile all’interessato in quanto l’inciso «in proprio» doveva intendersi «in nome proprio», e quindi non applicabile all’onorevole Berlusconi, atteso che questi non era titolare di concessioni radiotelevisive in nome proprio e che la sua posizione era riferibile alla società interessata solo a mezzo di rapporti di azionariato. Nella discussione si evidenziò, da parte di vari componenti, che in materia di diritti soggettivi pubblici e, in particolare, di elettorato passivo, non sono consentite interpretazioni estensive e che l’espressione «in proprio», di cui alla norma di legge, non si riferisce al fenomeno delle società e tantomeno può essere richiamato nei casi di partecipazioni azionarie indirette. Tali posizioni risultavano coerenti con le sentenze della Corte costituzionale. La Giunta di allora, di conseguenza, respinse a maggioranza i ricorsi proposti. Osserva che, ad oggi, il Comitato per le eleggibilità e le incompatibilità, in sede di esame preliminare di alcuni dei reclami presentati, ha convenuto a maggioranza sui principi richiamati ed ha quindi preso atto dell’insussistenza di ipotesi di ineleggibilità per i ricorsi ex articolo 10, commi 1 e 3, del citato testo unico, in considerazione dell’assenza di titolarità «in proprio» delle posizioni giuridiche interessate dalla norma. Il Comitato ha preso altresì atto della non ricorrenza, per i deputati interessati, dei presupposti di fatto per configurare ipotesi di ineleggibilità. Per tali motivi comunica che il Comitato propone l’archiviazione per manifesta infondatezza dei reclami presentati avverso l’eleggibilità dei deputati Berlusconi, Berruti, Dell’Utri, Martusciello, Previti e Sgarbi (Camera dei Deputati, Giunta per le elezioni, XIII Legislatura).

Delrio e Zanonato scelgono la decadenza

Sul blog di Grillo è arrivata puntale una voce indignata per i due sindaci PD incompatibili con la carica di ministro. Si tratta di Delrio, sindaco di Reggio Emilia, e del (discusso) sindaco di Padova, Flavio Zanonato.

Sul blog è citato il commento di tale Matteo Olivieri, forse poco propenso a verificare quel che scrive (e come lui tutto lo staff che cura ogni giorno la redazione del blog medesimo). L’autore del post cita giustamente l’articolo 13, comma 3, del decreto legge n. 138 del 2011 come convertito in legge n. 148/2011, nel quale è scritto che “ le cariche di deputato, senatore, parlamentare europeo nonché le cariche di governo (Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministri, Vice Ministri , Sottosegretari di Stato e commissari straordinari del Governo), sono incompatibili con qualsiasi altra carica pubblica elettiva di natura monocratica relativa ad organi di governo di enti pubblici territoriali aventi, alla data di indizione delle elezioni o della nomina, popolazione superiore a 5.000 abitanti.” (blog di Beppe Grillo). Ergo, sono due ministri abusivi, ostinati del doppio incarico.

Ora, prima di lanciare la vostra frutta marcia contro il carretto sgangherato del governo Letta, dovete sapere che sia Zanonato che Delrio hanno rifiutato il doppio compenso, come è stato altresì anticipato dallo stesso Letta durante i discorsi alle Camere. Ma soprattutto, Delrio e Zanonato non sono certamente due ministri fuorilegge poiché entrambi hanno scelto di lasciare la carica di sindaco. Non con l’istituto delle dimissioni ma con quello, un po’ più complicato, della decadenza. 

E’ lo stesso Graziano Delrio a spiegarlo sul suo sito:

In queste ore così convulse ho cercato di rassicurarvi ribadendo la mia intenzione di non dimettermi dalla carica di sindaco ed in ogni caso di rimanervi vicino. La legge prevede sia l’istituto delle dimissioni sia la procedura di decadenza del sindaco. Le dimissioni comportano lo scioglimento del consiglio comunale e della giunta ed il commissariamento della città  fino alle elezioni della primavera prossima. La procedura di decadenza consente all’amministrazione comunale eletta di proseguire il suo cammino per i mesi che rimangono con gli organi democraticamente eletti e con la giunta e il programma che hanno ottenuto la fiducia dei cittadini. (Lettera alla nostra città, Graziano Delrio).

La procedura della decadenza non avrà una lunga durata. Di fatto il sindaco non si dimette e pertanto verrà dichiarato decaduto per legge.

è previsto (articolo 69 del decreto legislativo 267/2000) uno speciale procedimento da parte del consiglio di appartenenza, di contestazione all’interessato della situazione ostativa all’esercizio del diritto all’elettorato passivo: la mancata rimozione di tale situazione comporta la decadenza dall’incarico pubblico (articolo 69, comma 5); all’eletto che si trova in tale situazione deve, però, essere concesso un congruo tempo per la rimozione della causa (Corte di cassazione – Sezioni civili: I Sezione, 12 novembre 1999, n. 12529). (Decadenza dalle cariche).

 

Delrio assicura che questa scelta è stata presa nell’interesse delle comunità locali, che non meritano di essere abbandonate a sé stesse.

In ogni caso, ancora una volta, le informazioni divulgate da Beppe Grillo per tramite di un autore minore, non corrispondono al vero.

OCSE chiede di riformare la legge sulla Prescrizione

A leggere il report OECD sulla situazione economica dell’Italia, specie le pagine che contengono le conclusioni dell’organismo internazionale, ci si stropiccia gli occhi in quanto ci si aspetterebbe ben altro che un invito – inequivocabile – a spingere sulle riforme anticicliche e pro-crescita. E invece, le due pagine di raccomandazioni sembrano un vero e proprio programma di governo: un programma al cui cospetto i discorsi del governo Letta paiono essere più una lista disordinata di (buoni) propositi che mai vedranno la luce.

Dico questo anche un po’ provocatoriamente, ma saprete meglio di me che una delle principali obiezioni sollevate durante la stagione economicamente depressiva del governo Monti rispetto a politiche anticicliche era che i vincoli europei sul bilancio pubblico non potevano essere violati. In realtà non era affatto vietato che il governo prendesse provvedimenti volti ad una generale deregulation, specie nel settore delle professioni. Ma voi saprete che la nostra rivoluzione liberale si è dimostrata una bolla di sapone e la parte politica che storicamente se ne è fatta carico, è stata presto infiltrata da lobbisti e dai piccoli feudatari delle rendite di posizione. Quindi, la nostra interpretazione del dettato europeo è stato: maggiore tassazione erga omnes, conseguente compressione salariale, riduzione dei consumi, riduzione degli ordinativi, riduzione delle produzioni industriali e così via in una spirale negativa che ci ha fatto perdere quasi il 3% di Pil lo scorso anno e – stando alle previsioni OECD aggiornate – il 1.5% nel corso del 2013.

L’OECD ha suddiviso le raccomandazioni in tre parti: la prima dedicata alla politica fiscale e finanziaria; la seconda circa il mondo della produzione della regolamentazione del mercato del lavoro e altre politiche strutturali; la terza e ultima relativa alla riforma della Pubblica amministrazione e della giustizia civile. E’ da leggere la parte relativa al mercato del lavoro, in cui l’organizzazione internazionale suggerisce al governo di rovesciare l’impostazione attuale, che vede garantiti i lavoratori che un lavoro ce l’hanno, mediante le varie forme della cassa integrazione, estendendo una sorta di assicurazione sociale a tutti, compresi disoccupati e quelli che un lavoro non lo cercano più. In materia di controllo della spesa pubblica, l’OECD chiede di proseguire la strada intrapresa con la spending review, stabilendo per la selezione delle politiche di spesa un criterio basato sulla priorità dell’intervento.

E’ molto interessante il capoverso sulla Giustizia. Sarei curioso di sapere cosa ne pensa la dolce metà della maggioranza PD-Pdl poiché in esso si cita la necessità di prevenire e risolvere i conflitti di interesse. Inoltre, per l’OECD il ricorso ai decreti lege andrebbe limitato e il governo dovrebbe legiferare per mezzo di codici o di testi unici. Ma soprattutto colpisce l’ultimo punto, il numero tre, laddove viene prescritto di rivedere la legge sulla ‘Prescrizione’ dei processi, che andrebbe rivista onde evitare ‘manovre dilatorie’, permettendo lo svolgimento sia del processo che dell’appello nei limiti delle prescrizione medesima. Qualcosa di indigesto per i peones di Berlusconi e pertanto non verrà mai raccontato sui giornali.

Quello che segue è il testo delle pagine 13 e 14 del documento pubblicato a questo link: http://www.keepeek.com/Digital-Asset-Management/oecd/economics/oecd-economic-surveys-italy-2013_eco_surveys-ita-2013-en

In corsivo i miei commenti e le parti che, a mio avviso, sono degne di essere confrontate con le dichiarazioni alle Camere (decisamente soft) del presidente del Consiglio Enrico Letta.

La politica fiscale e finanziaria.

  1. Proseguire gli sforzi per arrestare e invertire la tendenza al rialzo del rapporto debito-PIL. Ciò potrebbe essere realizzato sia con un bilancio in pareggio o con un piccolo surplus fiscale, sostenuto da una forte implementazione di riforme strutturali che agiscano sulla crescita.
  2. Mettere a fuoco il consolidamento di bilancio sul controllo della spesa [spending review], con un processo di revisione della politica della selezione delle priorità, una delle quali è un regime di assicurazione contro la disoccupazione ancor più completo, già legiferato [salario minimo?].
  3. Se le condizioni macroeconomiche si deteriorano, ancora una volta, consentire agli stabilizzatori automatici di funzionare [doppio aumento IVA]
  4. Creare il cosiddetto Consiglio fiscale appena legiferato, dandogli piena indipendenza, personale altamente qualificato, garanzia di accesso ai dati, un bilancio adeguato e la libertà di investigare come ritiene necessario.
  5. Incoraggiare le banche ad aumentare ulteriormente le disposizioni contro le perdite, e continuano a sollecitarle nel soddisfare le loro esigenze di capitale con ricapitalizzazioni o vendita di attività non-core. Incoraggiare la concorrenza nel settore finanziario.

La produzione e la regolamentazione del mercato del lavoro; altre politiche strutturali.
Proeguire le riforme del 2012:

  1. Completare l’attuazione delle riforme chiave, assicurando che la regolazione del settore Trasporti venga istituita rapidamente e che l’Autorità garante della concorrenza utilizzi i suoi nuovi poteri attivamente.

Estendere le riforme:

  1. Rimuovere normative restanti che limitano la capacità nei servizi di vendita al dettaglio e professionali; riconsiderare alcuni passi indietro, in particolare quelli che hanno limitato l’espansione della concorrenza tra avvocati.
  2. Promuovere un mercato del lavoro più inclusivo, migliorare l’occupabilità, con un maggiore sostegno per la ricerca di lavoro e della formazione, collegato con una più ampia rete di sicurezza sociale, anziché salvaguardare posti di lavoro esistenti.
  3. Promuovere l’ampliamento dell’attuale accordo tra le parti sociali in modo da allineare meglio i salari rispetto alla produttività, per contribuire a ripristinare la competitività.
  4. Ampliare la base imponibile [lotta all’evasione] riducendo l’imposizione fiscale completa, consentendo riduzioni di aliquote fiscali marginali sul lavoro, in particolare sulla seconda fonte di reddito.

Pubblica amministrazione e della giustizia civile
Segui attraverso le riforme 2012:

  1. Incoraggiare l’uso delle disposizioni di trasparenza della riforma della pubblica amministrazione e la legge anti-corruzione, agendo con decisione sulle inefficienze, sui conflitti di interesse o la corruzione.
  2. Completare la riorganizzazione territoriale dei tribunali, ottimizzando i processi giudiziari, migliorando l’uso delle tecnologie dell’informazione e allargando gli incentivi per un maggiore utilizzo di meccanismi di risoluzione alternativa delle controversie. Continuare razionalizzazione del governo sub-nazionale [abolizione delle province].

Estendere le riforme.

  1. Limitare l’uso di decreti legge, lavorare per codici (“Testo Unico”) della legislazione, garantire la valutazione dell’impatto effettivo di leggi e regolamenti, e aumentare l’uso di clausole transitorie.
  2. Costruire intorno alle disposizioni di legge anti-corruzione sviluppando a tutti gli effetti una Legge sulla libera Informazione [nel testo ‘freedom of information act‘].
  3. Rivedere la legge sulle limitazioni (“prescrizione”) nei procedimenti per crimini di corruzione per ridurre gli incentivi a manovre dilatorie, come includere lo svolgimento del processo in primo grado e d’appello nei termini della prescrizione.

PD | Congresso chiuso come una scatoletta

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Renzi ha recentemente affermato di non essere interessato alla corsa per la segreteria del Partito Democratico. Nella sua idea, la premiership (di coalizione?) non va più di pari passo con la leadership di partito. Che strano calcolo è mai questo?

Che il sindaco di Firenze osteggiasse quella regolina dello Statuto, quella che assegna al segretario del partito, eletto con primarie aperte, la candidatura alla presidenza del Consiglio, era cosa nota sin dai tempi delle consultazioni per Italia Bene Comune, alle quali si è potuto presentare proprio in virtù di una deroga concessa – non senza dilemmi – da parte di Pierluigi Bersani. Quella norma, che in altri paesi è regola condivisa, veniva all’epoca dipinta come un ostacolo antidemocratico poiché era usata dall’entourage del segretario per scongiurare la sua partecipazione. 

Il chiamarsi fuori dalla partita del congresso ha un suo significato che non è così immediato: Renzi intende risparmiarsi per il momento in cui il governo Letta subirà il peggiore di killeraggi politici da parte dei poco onesti compagni di viaggio che si è cercato. Renzi non vuole mescolarsi, non vuole sovrapporre la propria immagine di rottamatore della vecchia politica alla formula del partito pesante.

Mi sembra che questo genere di raziocinio abbia poco a che fare con il bene collettivo nonché con l’interesse medesimo del partito, che necessita senz’altro di esser rimesso sulla carreggiata giusta di una selezione democratica (perché aperta agli elettori) delle leadership nonché delle linee politiche da perseguire. Insieme alla scelta di appoggiare la soluzione-pacchetto Napolitano-Letta, l’avversione verso la formula congressuale aperta e specie verso i bizantinismi delle Direzioni o delle Assemblee nazionali, fanno apparire il rottamatore scaltro e machiavellico ma chiaramente orientato al perseguimento del proprio successo personale nella prossima competizione elettorale che lui medesimo pronostica fra dodici-diciotto mesi circa. Nulla di più.

Per mettere in atto questa strategia, oltre alla macedonia in salsa lettiana, Renzi sarebbe propenso ad accettare altre tre soluzioni alquanto sbrigative:

  1. assegnare la reggenza ad un ex DS, purché sia un neutrale e non sia quindi un nome spendibile sia al congresso che per la premiership della coalizione;
  2. dividere per sempre la funzione del segretario del partito da quella del candidato premier;
  3. chiudere il congresso ai soli iscritti, eliminando la fase delle primarie aperte.

Questo sarebbe il contenuto di una sorta di armistizio fra l’ala centrista, di cui il sindaco è punto di riferimento, e gli ex DS. Un patto che dovrebbe consentire di gestire la fase congressuale ad Ottobre, senza fretta, con il minimo grado di coinvolgimento. Le personalità politiche storicamente contrarie alle primarie (specie i dalemiani, che sempre vivono e lottano in mezzo a noi) trovano così una inconsueta spalla in chi nelle primarie aveva costruito tutta la sua popolarità e credibilità.

Così si è espresso Marco Campione, democratico del PD lombardo, sul suo blog, qdR (Qualcosa di Riformista):

Il prossimo congresso sarà utile se i tanti apprendisti stregoni che hanno gestito il PD dimostreranno di essere in grado di governarlo facendo a meno non tanto delle generazioni precedenti quanto dei fantasmi del passato. Il PD è nato scommettendo sul consolidamento dell’assetto bipolare, sulla competizione tra partiti a vocazione maggioritaria, sul riconoscimento reciproco delle forze in campo. Pensiamo sia ancora quella la sfida?

Solo in questo contesto il PD ha senso di esistere. Per questo preoccupa che gli stessi apprendisti che ci hanno portato al disastro oggi mettano in dubbio una delle intuizioni fondative del PD. Nel PD il segretario del partito è il candidato premier non per una bizza di chi ha scritto il nostro Statuto, ma perché nella coincidenza tra premiership e leadership sono concentrate alcune caratteristiche fondamentali. La già richiamata vocazione maggioritaria, l’essere un partito di iscritti ed elettori (che “pesano” allo stesso modo, dunque), l’idea che chi vuole conquistare il paese debba prima convincere il proprio partito, l’accountability del gruppo dirigente e la contendibilità della leadership. Far saltare quell’identificazione vuol dire mettere a rischio tutto questo, non solo cambiare un assetto organizzativo o un modo per eleggere il segretario (@marcocampione, qdR).

Premiership e leadership, vocazione maggioritaria, orientamento agli elettori (l’auctoritas promana dal basso), sono intimamente correlati e pertanto smontare questo impianto significa de facto liquidare il Partito. E’ una vera e propria restaurazione. A cui possiamo soltanto opporci.

Una bufala per l’Huff Post | Civati smentisce la fiducia al governo Letta

Pippo Civati non ha mai firmato nessun documento sul voto ‘di fiducia’ al governo Letta. Secondo quanto scritto dall’Huffington Post oggi, Civati avrebbe condiviso con Gozi, Puppato e Zampa, definiti i ‘dissidenti’ del PD, una paginata di riflessioni spacciate per una specie di bozza di mozione di fiducia. Il presunto documento contiene argomentazioni che Civati non ha affatto espresso in questi giorni, specie nell’ultima intervista, avvenuta proprio oggi nella trasmissione ‘In 1/2 Ora’ della Direttrice dell’Huff Italia, Lucia Annunziata. Nel testo si fa più volte riferimento al momento drammatico che il paese sta attraversando, al senso di responsabilità che i firmatari sentirebbero in quanto eletti attraverso le primarie.

E’ questo il senso della nostra fiducia: un atto di responsabilità individuale e collettiva che ci assumiamo nei confronti di tutti gli Italiani e di coloro che ci hanno dato fiducia con il loro voto. Una fiducia che vogliamo meritarci ogni giorno di più” (Huff post cit.).

Ebbene, in coda al testo compare come primo firmatario proprio Civati. Da qui si è innescato un corto circuito giornalistico. Nessuno ha provato a verificare la notizia, che è stata ribattuta persino dal Sole 24 Ore.

I dissidenti del Pd: sì alla fiducia – Corriere della Sera – ‎2 minuti fa‎

Voto di fiducia, si sgonfia il dissenso in casa Pd – Il Sole 24 Ore – ‎20 minuti fa‎

Pd, Civati, Gozi, Puppato e Zampa: “Ok a fiducia per governo Letta” – La Repubblica – ‎1 ora fa‎

Pd, i ‘ribelli’ capitolano: “Votiamo la fiducia per senso di  – Quotidiano.net – ‎1 ora fa‎

Che succede ora nel Pd? – il Giornale – ‎56 minuti fa‎

Civati ha specificato che prenderà una decisione sul voto di fiducia soltanto domattina, dopo la discussione del Gruppo Parlamentare del PD.

Smentisco

Circola da qualche minuto un documento che include anche la mia firma e in cui annuncio il mio voto di fuducia al Governo. Non so come sia uscito, ma non ho firmato alcuna dichiarazione di fiducia e quindi smentisco.
Come ho detto più volte in questi giorni, e ancora poche ore fa in diretta su Rai 3, le mie perplessità sul Governo Letta rimangono, e prenderò una decisione in merito alla fiducia solo dopo averne discusso, come ho ripetutamente richiesto, domattina con il resto dei colleghi del Pd. Non prima.

Aggiornamento: a quanto sembra, il documento contiene una qualche veridicità poiché Sandro Gozi, uno dei presunti firmatari, si è così espresso su Twitter:

Notare l’espressione “il nostro documento”, segno che Gozi ne rivendica la paternità condivisa con altri. Sappiamo che Civati non è fra di essi. E Laura Puppato?

Definitivo ore 20.06: Sandro Gozi risponde su Twitter, il nome di Civati primo firmatario era frutto di un “malinteso”.