Belmokhtar, il Guercio che visse due volte

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L’attacco terroristico contro lo stabilimento Areva, gruppo francese che produce reattori nucleari, ad Arlit in Niger e il susseguente attacco contro una caserma ad Agadez, avvenuti giovedì scorso 23 Maggio, portano la firma di Mujao, il Movimento per l’Unicità e la Jihad nell’Africa Occidentale, responsabile del massacro di In Amenas, in Algeria, sede di uno stabilimento della British Petroleum. Il gruppo era stato decapitato durante la guerra francese in Mali, qualche mese fa, quando la tv di stato ciadiana avevano dichiarato morto, in conseguenza di un raid dell’esercito del Ciad impegnato a fianco dei francesi, il leader jihadista Mokhtar Belmokhtar, detto il Guercio. Ma Mokhtar Belmokhtar (in alto, una delle rare foto), è stato dichiarato in questi giorni, è ancora vivo.

Belmokhtar è una sorta di figura leggendaria del deserto, un terrorista spietato, reduce dalla guerra dei mujaheddin in Afghanistan e dalla guerra della GIA (Gruppo Armato Islamico) in Algeria. Ha fatto parte di Al qaeda nel Maghreb Islamico, il dominus dell’area del Sahel, per poi separarsi da esso e costituire una propria brigata, chiama al-Mua’qi’oon Biddam, letteralmente “Brigata dei Marchiati con il Sangue”.

BBC News ha riportato le dichiarazioni di Alakhbar El-Hassen Ould Khalil, esponente di al-Mua’qi’oon Biddam, secondo cui gli attacchi ad Arlit e Agadez (venti morti in tutto), condotto con la tecnica dei suicidi a bordo di camion bomba, sono stati supervisionati dal Guercio. I Marchiati col Sangue sono tuttora il gruppo ristretto che ruota attorno a Belmokhtar e costituiscono l’asse portante di Mujao. Il loro raggio d’azione si è spostato nell’area nebulosa del Sahel fra Niger e il sud della Libia. Proprio in Libia, l’Unione Europea ha inviato una missione civile – Eubam Lybia – per il pattugliamento delle frontiere, un colabrodo che rischia di alimentare la spirale terroristica alle porte degli stabilimenti petroliferi Exxon e BP in Cirenaica.

Il presidente del Niger, Mahamadou Issoufou, ha dichiarato ieri che i terroristi di Agadez e Arlit presto torneranno a colpire. Si muovono velocemente, indisturbati, nel deserto. Attaccano i paesi collaborazionisti della guerra francese in Mali, e naturalmente gli interessi francesi. Presto verrà attaccato il Ciad, ha detto Issoufou. E i terroristi si muoveranno sempre dalla Libia. Dichiarazioni che hanno causato l’irritazione del Primo Ministro libico, Ali Zeidan, in visita a Bruxelles: “voci prive di fondamento e non corrispondenti alla realtà”. Secondo Issoufou, la causa dell’instabilità del Sahel è stata la guerra contro Gheddafi nel 2011 e per riportare l’ordine bisogna ripartire proprio da Tripoli, il cui confine verso il deserto è una porta girevole. Laggiù, nel profondo deserto libico, si sono riorganizzati i gruppi qaedisti che l’attacco francese ha solo scacciato più in là: il Sahel è troppo vasto per essere controllato da un contingente militare così ridotto. La Francia in Mali ha inviato non più di seicento uomini, la restante parte è stata fornita dai membri Ecowas, specie dal Ciad e dal Niger, i cui governi tendono a proteggere gli investimenti industriali francesi.

Intanto il Mali andrà alle urne, il prossimo 28 Luglio dovrebbe già essere in grado di svolgere il primo turno delle elezioni presidenziali. Tutto ciò mentre il presidente del Burkina Faso, Blaise Compaoré, ha avviato i negoziati con i gruppi tuareg che occupano ancora la città di Kidal.

I Tuareg dichiarano l’indipendenza dell’Azawad: Mali nel caos, è crisi umanitaria

Il capo della giunta militare al potere in Mali, Amadou Sanogo, ha chiesto l’intervento militare Occidentale nel nord del Mali per eliminare ciò che egli chiama i gruppi gruppi armati islamici di Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI) e di Ansar Edine, che hanno preso il controllo delle città del nord del Mali, pochi giorni fa. Ha detto Sanogo, in un’intervista al quotidiano francese “Le Monde”, le forze occidentali non hanno fatto ancora nulla per evitare che nel nord del Mali si insedi uno Stato canaglia, come lo era l’Afghanistan al tempo del governo dei Taliban. Il Sahel potrebbe diventare una centrale del Terrore, un nuovo campo di addestramento a due passi dall’Europa. Gli eserciti di questi paesi avevano attraversato il mare per distruggere la” infrastrutture del terrorismo in Afghanistan”, ora quella stessa struttura si sta ricreando in Mali. Per Sanogo l’intervento straniero è necessario per fronteggiare la situazione umanitaria nel nord del suo paese, ben “più urgente” della situazione nella capitale, Bamako, dove dopo il colpo di stato che lo ha portato al potere, la vita si sta svolgendo normalmente. Amnesty International ha denunciato una vera e propria crisi umanitaria, con circa sessantamila bambini costretti a lasciare le case per i campi profughi. Si presume che i profughi si siano riversati anche oltre confine, in Niger e in Mauritania, dove è in corso una carestia terribile, con morie di bestiame e – nella capitale Nouakchott – proteste degli studenti.

Intanto la Comunità Economica degli Stati dell’Africa occidentale ha imposto sanzioni economiche e finanziarie al Mali per costringere i golpisti a ristabilire l’ordine costituzionale e restituire il potere al deposto presidente Amadou Toumani Toure (ATT). Il paese era in procinto di elezioni presidenziali, che dovevano svolgersi durante il mese di aprile.

Ieri, intanto, a Gao, il Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad ha dichiarato solennemente l’indipendenza dal Mali.

“Proclamiamo solennemente l’indipendenza dell’Azawad”, ha dichiarato Mossa Ag Attaher, [leader del Movimento per la liberazione dell’Azawad (MNLA)] indicando di voler rispettare “le frontiere con gli stati limitrofi”. La regione è considerata come la culla naturale dei tuareg. Ieri a Gao – la maggiore città del Nord del paese sconvolto dall’avanzata di tuareg e di miliziani islamici, iniziata dopo il colpo di stato della giunta militar di Amadou Sanogo – alcuni assalitori non identificati hanno rapito il console algerino. Attaher ha condannato quest’atto “molto violento” da parte di “un commando terrorista” (La Repubblica.it).

Verosimilmente la Francia non starà a guardare. A breve Sarkozy impiegherà l’Azawad come argomento di campagna elettorale. L’influenza francese nella rivolta libica e le pressioni per l’intervento Nato, che hanno determinato – insieme all’insurrezione di Bengasi e della Cirenaica – la caduta del Raìs Gheddafi, verranno impiegate nella dialettica elettorale dalla controparte socialista e da Hollande come causa radice dell’attuale crisi umanitaria nel nord del Mali. Molti combattenti del MNLA sono ex comandanti libici ma di origini tuareg. Sarkozy molto probabilmente si sentirà obbligato a intervenire, per sopire le critiche della Gauche. E il MNLA, che non è un gruppo salafista fondamentalista come invece AQMI (i rapitori di Rossella Urru) e Ansar Edine, verrà ricacciato nel deserto. Una nuova Guerra al Terrore si profila all’orizzonte.

Soldati senza divisa: la storia e le incongruenze dei tre connazionali reclusi in Libia

Qualcuno si sarà sorpreso per la storia dei tre italiani reclusi nel carcere di Abu Shalim da un mese e liberati dai ribelli. Tre agenti di sicurezza, creduti spie, malmenati dagli sgherri del regime, chiusi in una galera libica. Fin qui nulla di particolarmente diverso dalle solite storie di lavoratori all’estero, caduti rapiti o incarcerati nei più pericolosi teatri di guerra. Eppure, se indugiaste un po’ più a lungo sulle cronache dei giornali, scovereste un lungo elenco di stranezze.

Ecco quelle più importanti, a parer mio:

  1. Nessuno ne denunciato la scomparsa. Prendete ad esempio la vicenda dell’operatore di Emergency rapito in Darfur: sebbene i giornali mainstream abbiano altro di cui occuparsi, soprattutto in rete e se ne parla e si fanno seguire gli appelli per la liberazione. La Farnesina ha attivato i consueti canali di mediazione per ottenerne la liberazione. Invece dei tre contractors (?) italiani in Libia non è stata nemmeno denunciata la scomparsa. La madre di uno dei tre, Luca Boero, genovese abitante nell’entroterra alessandrino, ha rivelato di aver provato a contattare il figlio al cellulare per un mese senza riuscirci. Condotta curiosa, per una madre che non sa dov’è il proprio figlio. Non ha pensato minimamente di fare denuncia di scomparsa dopo un mese di tentativi?
  2. I tre italiani stavano cercando di sconfinare in Libia dalla Tunisia. Entrare clandestinamente in un altro paese non è proprio la miglior cosa. Ricordate cosa facciamo noi ai clandestini? Li chiudiamo nei CIE, centri di identificazione ed espulsione. I nostri dovevano andare ad un appuntamento nei pressi di Ben Gardane. Ben Gardane  si trova “a 499 km da Tunisi ed a soli 32 km dal confine con la Libia dal villaggio libico di Ras Ajdir” (wikipedia). Non si capisce perché, se uno ha un appuntamento a Ben Gardane, prima del confine libico, poi si ritrovi al di là dello stesso. Poiché è chiaro che se uno si trova in territorio libico e va a Ben Gardane non ha alcuna ragione di esser fermato e incarcerato dalla polizia di Gheddafi: si suppone che sia entrato in Libia con il visto turistico almeno, e che ne abbia uno analogo per entrare in Tunisia. Altrimenti, è chiaro, i tre dovevano trovarsi in territorio tunisino e dovevano andare a Ben Gardane per ottenere quel lavoro, poi, per ragioni ignote, hanno sconfinato illegalmente.
  3. Il lavoro era molto probabilmente fare da security a una famiglia libica. Non si comprende perché il loro datore di lavoro abbia preferito far entrare i tre illegalmente nel paese anziché fargli ottenere un visto.
  4. Luca Boero ha una vicenda personale paradigmatica: 42enne, nato a Genova ma residente a Garbagna, in provincia di Alessandria, è esperto di arti marziali, cultore del fisico e della forma, era stato nei reparti speciali dell’Esercito. Qui aveva collezionato diverse esperienze e missioni all’estero. Era stato in Kossovo ed in Bosnia. Poi aveva abbandonato la divisa e si era congedato. Aveva preso il diploma di investigatore privato e lavorato come addetto alla sicurezza anche per la Ibsa, la stessa società di sicurezza e formazione della quale aveva fatto parte anche Fabrizio Quatrocchi. Un soldato senza divisa. Come Quatrocchi, Cupertino, Stefio, tre dei quattro rapiti in Iraq nel 2004: ex carabiniere, ex militare dell’esercito, ex parà. Boero ha militato nei “reparti speciali dell’Esercito”. Non è chiarito quali. Boero opera nel settore “sicurezza” con guadagni anche di ventimila euro al mese. Chi doveva proteggere in Libia? E’ probabile che non fosse la prima volta che Boero si trovava all’estero per “missioni” di questo genere. Sui giornali raccontano di una sua residenza solo occasionale: “«Lo vediamo quando non è a Genova o all’estero per lavoro », dicono gli amici del bar.” (Agenfax).
  5. IBSA, Investigazioni, bonifiche ambientali e servizi sicurezza, ha un ufficio proprio a Genova, in via Odero Attilio.

Libia, rapiti quattro giornalisti italiani

Quattro giornalisti italiani sono stati rapiti in Libia. Lo conferma la Farnesina. Sono due inviati del Corriere della Sera, uno di Avvenire e uno de La Stampa. Sono stati catturati questa mattina vicino a Zawiya, città a ovest di Tripoli. La conferma arriva anche dall’Ordine dei giornalisti del Lazio. “Quattro giornalisti italiani sono stati rapiti in Libia – ha detto il presidente Bruno Tucci – sono Elisabetta Rosaspina, Giuseppe Sarcina del Corriere della Sera, Domenico Quirico de La Stampa e Claudio Monici di Avvenire”. Stavano andando in macchina da Zawiah a Tripoli quando un gruppo di lealisti hanno fermato la macchina nella quale viaggiavano, uccidendo l’autista libico. I cronisti, secondo quanto appreso, sono stati poi portati un un appartamento nel quale ad uno di loro, il giornalista del quotidiano ‘Avvenire’, è stato permesso di chiamare il giornale da un telefono fisso per avvisare del rapimento (via TG1).

La costellazione tribale post Gheddafi

La deflagrazione del regime libico è insieme un collasso statale e un collasso familiare, poiché a Tripoli si fa ancor adesso fatica a distinguere ciò che è Stato da ciò che è Privato. La connessione fra sfera pubblica e privata nel sistema Gheddafi è totale. Perciò la cacciata dei governanti è insieme una faida familiare. Tanto più che molti dei “parenti” e degli amici, fino a poco tempo fa allocati nei ministeri e compiaciuti servitori del Rais, si sono sganciati dal partito perdente ed hanno preso parte al Comitato Nazionale di Transizione. Lo stesso Mustafa Jalil è stato ministro di Gheddafi; così era ministro di Gheddafi anche l’attuale primo ministro del governo provvisorio di Bengasi, Jabril. Si legge che la Farnesina stia puntando le sue chance di mantenere Roma al centro degli affari libici sull’ex numero due della rivoluzione verde, ovvero Abdessalam Jalloud, capo della tribù Magariha. Senza la sua defezione, senza il suo pollice verso contro Gheddafi, non ci sarebbe stato l’attacco a Tripoli. Le forze dei rivoltosi erano impantanate a Brega. L’attacco da Est era impotente nonostante i bombardamenti della Nato. Jalloud ha rovesciato il tavolo del conflitto.

Al coro degli ex alleati di Gheddafi si inseriscono i Fratelli Musulmani e i nazionalisti (riassumibili nelle figure del professore di economia Ali Tarhouni e nel giornalista Mahnmoud Shaman, o nel portavoce del governo Gogha). Lo stesso Jalil predica tolleranza e giustizia senza crudeltà né vendetta, ma “vuole che tutti si allineino a una mappa già tracciata nella scorsa primavera e racchiusa nella Dichiarazione costituzionale” (trentasette articoli in cui fra l’altro si dice che la Sharia è principio ispiratore della legge dello Stato – fonte Corsera, 23/8/11, p. 9).

Cosa faranno i Berberi? Cosa i Tuareg? L’aspetto generale è quello di una dissoluzione della Libia. Di un suo precipitare verso forme di conflitto tribale come in Somalia o in Iraq. La sindrome irachena sembra la definizione più coerente in questo momento. Difficile che si crei un movimento democratico e pacifista in un paese a lungo sottoposto a violazioni dei diritti umani e a violenze. Più facile che la sete di vendetta prenda il sopravvento.

Libia, si apre il fronte italiano con Parigi

Dopo quarantanni di affari con Gheddafi, le imprese italiane non ci stanno e battono il pugno sul tavolo del tentennante governo. Grazie alla proverbiale impreparazione del nostro esecutivo, incapace di riposizionarsi in tempo in uno scenario altamente mobile e incerto, si prevede che le nostre imprese subiranno la concorrenza di quelle francesi e di quelle inglesi, mentre prima potevano beneficiare di un mercato monopolistico come solo in patria potevano avere.

Per Cestari “questa silente competizione ha gia’ fruttato molto in termini di ‘preliminari di accordi’ proprio alla Francia. Sotto una mirata regia -spiega- forte di una dinamica collaudata e di una virtuosa intesa tra indirizzi politico-militari ed economico-finanziari, Parigi in questi mesi ha guadagnato molto terreno dalla strategia dei bombardamenti a tutto vantaggio del proprio sistema economico. E’ quindi illusorio -prosegue- affermare che a fine guerra si ripartira’ a parita’ di condizioni: le aziende italiane erano regine e protagoniste in Libia; in un prossimo futuro dovranno faticare molto per riconquistare le posizioni azzerate, perse” (Alfredo Cestari, presidente di ItalAfrica, via Libero-News).

Quei fautori della rivoluzione liberale in Italia sono adesso tutti in prima linea a lamentare che i francesi hanno fatto lobbing nella Libia liberata.

Libia, cosa ha detto Jalil

Assicureremo a Gheddafi un processo equo, perche’ tutto il mondo possa vedere alla sbarra il piu’ grande dittatore della Terra.

Rifiuto qualsiasi esecuzione fuori dalla legge – ha aggiunto Jalil – ma ho paura che qualcuno dei ribelli possa applicare la legge del taglione.

Speriamo di catturarlo vivo, così da poterlo sottoporre a un giusto processo, in modo che tutto il mondo possa vedere il più grande dittatore. Onestamente non so come lui possa difendersi da tutti i crimini che ha commesso contro il popolo libico e il resto del mondo.

La vera vittoria – ha concluso – ci sarà quando Gheddafi verrà catturato.

Lanuova Libia sarà diversa dal passato, sarà fondata sulla libertà, sull’uguaglianza e sulla fraternità (vive la France).

Mustafa Abdel Jalil, leader del Cnt (Consiglio Nazionale Transitorio) 

Quel profondo silenzio del governo sulle armi a Gheddafi

Il baillame politica-giustizia di questi giorni, accoppiato alla crisi del debito e alla manovra, ha del tutto oscurato una notizia angosciante, passata inosservata sul The Guardian il 19 Luglio scorso e lasciata decadere in fretta dalla stampa italiana.

The Guardian racconta di uno stock di armi – 30.000 fucili Kalashnikov AK-47 automatici, 32 milioni di munizioni, 5.000 razzi Katyusha, 400 missili anticarro Fagot filoguidati e circa 11.000 altre armi anticarro – spariti da un’isola del Mediterraneo, l’isola di Santo Stefano e forse transitati per la Sardegna.

Sono stati trasferiti da un magazzino sull’isola di Santo Stefano, al largo della costa nord della Sardegna, e trasportati verso la terraferma, dove sono stati caricati su camion dell’esercito, ha detto al Guardian una fonte vicina all’operazione. Ma cosa sia successo loro dopo è un mistero – e ora anche un segreto (The Guardian).

E’ un segreto perché il governo italiano ha bloccato le attività investigative. La Presidenza del Consiglio ha posto il segreto di Stato non appena un magistrato di Tempio Pausania ha avviato l’inchiesta. Le armi, che provenivano da un sequestro eseguito da forze militari navali britanniche e italiane durante le guerre balcaniche degli anni novanta, sarebbero scomparse fra il 18 e il 20 di Maggio.

Lega Nord, piangere sul Parmalat versato

Inutile piangere sul (Parma)lat versato. La Lega Nord poteva inserire qualche uomo di fiducia nella proprietà Parmalat e così far assorbire il latte padano, fuori mercato da tempo immemore e spesso irrispettoso delle quote di produzione decise a Bruxelles. Gli allevatori verranno invece schiacciati dalla concorrenza, sebbene Parmalat faccia già da tempo riferimento al mercato dell’Est europeo per il latte a lunga conservazione – vero core businness dell’azienda. L’offerta di Lactalis è un premio per gli azionisti e i risparmiatori che hanno nel proprio portafolgio i titoli Parmalat, dei coraggiosi dopo la fregatura targata Tanzi. L’azienda è sana, produce utili: i francesi arriveranno e faranno degli investimenti – che diamine, per una volta abbiamo attirato del capitale estero e manca poco che lo mandiamo via. Forse addirittura faranno crescere l’occupazione. Un evento storico.

Quindi l’intervento maldestro di Tremonti, in accordo con il Carroccio, era del tutto antitetico al mercato. Tremonti, il liberista, si è scoperto un nazional-statalista della peggior specie. E la sconfitta francese per la Lega si potrebbe ritorcere contro. Il settore agricolo soffre la concorrenza dei prodotti polacchi, cechi, sloveni. Il mercato unico non premia la nostra agricoltura, poco efficiente e poco propensa alle riconversioni produttive. Vedremo forse i trattori bloccare le autostrade? Tradizionalmente la Lega pesca molti voti nel settore, e il settore fa lobbing da anni sulla Lega. Un rapporto che potrebbe uscire malconcio dopo questa vicenda.

Ora, volendo mettere sul piatto della bilancia la Libia e Parmalat alla Lactalis, certamente nell’ottica leghista pesa decisamente di più la seconda voce. La Libia è il casus belli per premere su B., reo di aver mollato la presa con Sarkozy per privilegiare gli interessi dell’ENI in Cirenaica. Le bombe non interessano a nessuno. Nemmeno interessa se sono effettivamente precise e se sono giunte a destinazione senza aver prodotto danni collaterali. Conta il proprio orticello, e quello leghista sta per essere invaso da vacche da latte inferocite.

Libia, la Lega bombarderebbe a tappeto, il PD non sa dove stare

Attenti a non farvi ingannare: le ragioni profonde dell’opposizione della Lega Nord alla decisione del governo di bombardare in Libia non è dovuta a questioni di pacifismo. Fosse per la Lega si bombarderebbe a tappeto tutta la Libia, pur di non avere un solo profugo in Padania. Ci sono sottosegretari che hanno ipotizzato di sparare ai barconi di disperati. Questa la loro forza, l’idiozia.

La Lega lamenta il lassismo di Berlusconi dinanzi alla Grandeur di Sarkozy. Il Nostro si è ammosciato davanti al presidente francese. Berlusconi è uscito dal vertice con Parigi a mani vuote. Soprattutto sui respingimenti francesi, Berlusconi nulla ha potuto se non firmare una lettera congiunta con Sarkozy il cui valore è prossimo a zero. In più il governo ha calato le braghe con Lactalis – troppo alta la sua offerta per i modesti investitori italiani – e sul nucleare non ha potuto rompere in alcun modo i contratti con EDF, la società elettrica francese. Insomma, una disfatta. Evidentemente le barzellette non hanno fatto ridere nessuno. Ridevano i francesi, e soprattutto i loro portafogli.

La Lega avrebbe detto sì ai bombardamenti in cambio di una 2contropartita tecnica” all’altezza: niente accoglimenti degli immigrati tunisini, niente aerei. Ma Berlusconi si è trovato conle spalle al muro. Chissà quale il tono di chiamata di Obama, l’altro giorno. Un governo veramente debole in politica estera. I cablogrammi svelati da Wikileaks hanno mostrato come il governo già nel 2009 fosse genuflesso dinanzi all’amministrazione Obama quando venne richiesta collaborazione per lo smistamento dei carcerati di Guantanamo. L’Italia dovette gestire due tunisini, poi espulsi, e per fare ciò Frattini fece carte false con la Lega. La Lega era ritenuta dall’ambasciatore USA una vera incognita, un elemento che poteva gettare i rapporti con Roma nell’incertezza.

Questo il capitolo “Lega”. Non sta meglio il PD. Sappiate sin da ora che la spaccatura nella maggioranza sulla Libia sarebbe avvenuta anche a parti invertite, ovvero con una coalizione PD-IDV-SeL. Insomma, un problema cronico fra atlantistismo e pacifismo che attanaglia il centro-sinistra sin da quando esso stesso ha cominciato a prefigurarsi come maggioranza di governo. I governi Prodi, D’Alema hanno vissuto sulla loro pelle tensioni terribili. E i governi di allora, quando si trattò di rifinanziare le missioni in Iraq o di bombardare la Serbia, impiegarono acrobazie verbali non dissimili da quelle impiegate dai berluscones in queste ore.

Ecco perché anche oggi il PD sulla Libia non ha una linea politica: gli inviati di Bersani non fanno che evidenziare le incongruenze della maggioranza ma dimenticano di dire quel che pensano sulle bombe. Da che parte sta Bersani? Le bombe sono il naturale sbocco della strategia adottata a Marzo? Oppure abbiamo alternative?

“Lampedusa? Facciamola diventare un grande Centro di Espulsione”

Dopo il Fora di Ball bossiano, è in atto un concorso pubblico di idee per la risoluzione del “problema” Lampedusa. E qualcuno è giunto a livelli di idiozia mai raggiunti sinora. Naturalmente aspettando lo sbarco di Silvio Forever sull’Isola della Disperazione:

“I più scatenati sono […] gli ex An, che sentono la concorrenza del Carroccio sul tema della sicurezza. La bresciana Viviana Beccalossi è drastica: ‘Io farei evacuare gli italiani da Lampedusa e trasformerei l’intera isola in un grande centro di espulsione’” (IMGPress).

Viviana Beccalossi, ex An, attualmente ricopre l’incarico di vicepresidente e assessore all’agricoltura nella giunta lombarda guidata da Roberto Formigoni.

La Libia, l’ENI e quel miliardo a fondo perduto

Petrolio. Ne scrisse un libro, un giorno, un uomo, e dopo morì in circostanze misteriose. Si chiamava Pierpaolo Pasolini. Aveva romanzato la storia dell’ENI e del suo padre storico, Enrico Mattei, morto in un incidente aereo che ha ben poco dell’incidente.

L’ENI, sempre l’ENI, la ritroviamo oggi, co-protagonista della sceneggiata libica, la nuova ennesima guerra per la difesa dei diritti umani. ENi non spara, preleva. Preleva barili di oro nero, di gas naturale. Per questo paga al regime libico una quota altissima, il prezzo più salato per una compagnia estera in Libia. ENI trattiene a malapena il 12% della produzione di greggio, il 40% di gas, il resto rimane in mano libica, che commercializza per proprio conto. Questo perché negli anni ’70, quando Gheddafi era socialista e faceva la rivoluzione alla testa delle masse libiche, petrolio e gas sono stati nazionalizzati. Alla medesima maniera di Chavez in Venezuela. Una misura che è sin giusta, se ci pensate: che diritto hanno le compagnie estere di venire nel nostro paese e di sfruttarne le risorse al prezzo imposto da loro? In fondo anche l’ENI è una ‘National oil Corporation’, una compagnia di bandiera, controllata cioè dal governo, che opera all’interno dei propri confini in regime di monopolio o di semi-monopolio, al contrario di Bp, Total, ExxonMobil, multinazionali che rispondono soltanto al proprio interesse e a quello dei loro investitori.

Wikileaks ci ha permesso di conoscere le relazioni pericolose di ENI e NOC, la compagnia nazionale libica. Ce lo ricordano Debora Billi su Il Fatto (qui) e Gianni Cavallini sul suo blog (qui). ENI aveva un contratto standard, poi ha dovuto rinegoziare al ribasso, con una quota di produzione che è passata dal 35-40% al 12% come detto sopra. Dopo è partita la campagna della compagnia libica contro le altre imprese estere: tutti i nuovi contratti hanno adottato lo standard ENI, con notevole scorno per Total e soci:

23-07-2008: “Con il nuovo accordo, lo share di produzione per il consorzio europeo (quello che sviluppa la città di Marzuq, ndr) sarà ridotto dal 25% al 13%. Repsol, Omv, Total e Saga Petroleum hanno seguito altri maggiori attori in Libia nel cedere alle pressioni Noc verso il nuovo accordo Epsa IV, che prevede significative riduzioni di share per le compagnie internazionali. E se qualcuno dubita, ecco pronto un cablo in cui ci si lamenta proprio della della rigidità della Noc, e specialmente della gestione autocratica del responsabile Shukri Ghanem. Il quale, appena lo scorso anno, ha annunciato di voler estendere il fatidico accordo Epsa IV anche alle compagnie che finora hanno goduto di concessioni tradizionali (D. Billi, Il Fatto, cit.).

4. (SBU) Nell’ottobre 2007, l’ENI si è accordata con il NOC per convertire i contratti esistenti di produzione a lungo termine, che sono stati firmati a metà degli anni 1980 sotto le condizioni EPSA III, secondo il modello contrattuale più recente EPSA-IV (reftel). Tale accordo è stato presentato al Congresso Generale del Popolo Libico per l’approvazione e la ratifica, ed è stato ratificato il 12 giugno. Nell’ambito del nuovo accordo Eni ha ridotto la sua quota di produzione al 12% per il petrolio (35-50 per cento in meno per i suoi vari ambiti) e del 40% per il gas naturale (50 per cento in meno). La quota per la produzione di gas scenderà al 30% dopo il 2018. In cambio il NOC ha esteso di 25 anni i contratti EPSA III ad ENI, ha approvato un’espansione di 3 miliardi di metri cubi (BCM) per il Gasdotto della Libia occidentale (WLGP), e la costruzione di un nuovo impianto da 4 milioni di tonnellate l’anno di LNG (gas naturale liquido) a Mellitah. Eni ha accettato condizioni fiscali meno attraenti per i suoi blocchi (il suo portafoglio complessivo è sceso al 42% a causa di più base quote di produzione), e ha fatto un miliardo dollari di pagamenti a fondo perduto. Le licenze Eni sono state convertite al modello EPSA IV che ora scadrà nel 2042 (per il petrolio) e nel 2047 (per il gas) – (G. Cavallini blog, cit.).

Sappiamo – sempre per merito di Wikileaks – che anche sul fronte del gas russo l’ENI ha stretto accordi al ribasso: ne abbiamo parlato su questo blog già a dicembre. Allora emerse un quadro oscuro di società off-shore in cui si presagiva la presenza del nostro caro Presidente del Consiglio. In quella storia, ENI apriva il mercato italiano “all’ingrosso” del gas metano, di cui è praticamente monopolista, a una società facente riferimento a Gazprom. Praticamente un suicidio commerciale. Sul fronte libico, ENI ha barattato un presunto aumento di capacità di un gasdotto nonché la costruzione di un secondo tutta da definire. In aggiunta, ENI ha versato un miliardo di dollari – diconsi dollari – a fondo perduto!

A questo punto viene da domandarsi chi comanda la NOC libica. Le ‘personalità chiave’ della compagnia sono Shukri Ghanem, presidente della compagnia nonché ex Segretario Generale del Comitato del Popolo cioè del governo libico; Faraj Mohamed Said, vicepresidente; Ahmed Elhadi Aoun, Amministratore. Questi signori mettono il piede nel consiglio di amministrazione di tutte queste società (il grafico potrebbe non essere recente poiché riporta il nome di Agip):

NOC è posseduta per intero dal governo libico. L’accordo ENI è del 2007: in Italia governava Prodi. ENI era presieduta da Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’azienda dal 2005. Scaroni è stato definito il “vero” amico dei libici. Interpellato dalla stampa, ha ribadito chei rapporti fra ENI e NOC non sono affatto compromessi:

“Absolutely not, I do not think they are compromised,” said Eni Ceo Paolo Scaroni about Eni’s relations with Libya on the sideline of an audition at the lower Chamber. Scaroni said: “We are maintaining our relations with the National Oil Corporation, our natural contact there. Any political system set up in the future will have its NOC which has contracts with us, so we will continue doing business with it.” Scaroni concluded:” I don’t see any reason for our relations to be jeopardized.” (AdnKronos).

Scaroni pensa che qualsiasi sia il governo libico del futuro, NOC continuerà ad esistere e così i contratti che ENI ha con esso. Che sciocchezze: è fin troppo chiaro che il prossimo governo libico dovrà accettare la “linea francese”, che sarà forse quella della liberalizzazione del mercato del petrolio e del gas in Libia. E quel miliardino di dollari si sarà perso nel canale di Sicilia.

Libia, tu chiamala se vuoi guerra

Guerra di Libia 1911

Guerra di Libia 2011

No, non è peace keeping. Non è un intervento umanitario. E’ guerra, anche se ufficialmente – lo dice Napolitano – non siamo in guerra. Otto caccia bombardieri nostrani stanno sorvolando i cieli di Tripoli sganciando il loro pesante bagaglio. I nostri cieli testimoniano il transito degli aerei inglesi e francesi. Un rimbombo sinistro, molto frequente in mattina: chi abita a nord come me se ne sarà accorto. I nostri cieli sono cieli di guerra, e non l’avevamo previsto.

La decisione del governo di concedere le basi (nonché il voto di un parlamento prono e privo di opposizione) è stata repentina, priva della necessaria riflessione circa i rischi, altissimi, di rappresaglia libica contro le nostre navi mercantili, o persino in terra, qui da noi, nelle stazioni, negli aeroporti. A pensarci bene, l’avvallo all’attacco è un gesto da irresponsabili, soprattutto da parte di chi aveva stretto mani e baciato anelli. Non siamo più amici della Libia, poiché mai lo siamo stati. Eravamo amici del dittatore, questo sì, già sufficientemente vergognoso. Ora siamo anche messi dalla parte dei traditori, e questo la dice lunga sulla nostra libertà – pari a zero – in materia di politica estera. D’altronde i cablogrammi di Wikileaks hanno rivelato il giudizio di Washington su Berlusconi. Il pagliaccio è manovrabile, è da tener buono poiché utile al raggiungimento dei loro obiettivi geopolitici.

In Libia si combatte una nuova guerra del liberismo: un altro mercato da liberalizzare, quindi da colonizzare con le multinazionali occidentali. C’è posto per produzioni che qui da noi costano, c’è manodopera abbondante: alle spalle c’è un deserto che vomita disperati che si accontenterebbero di una paga da miseria. Certo meglio dei lager del Rais. Siete sorpresi del ruolo di primo piano dell’Unione Europea? E’ frutto del multilateralismo obamiano. Gli europei si prendano la parte di costi per la liberalizzazione della Libia, non soltanto i benefici. Noi sorvoliamo i cieli libici perché in terra abbiamo già l’ENI e non possiamo permettere che Total e Bp la scalzino: meglio una spartizione. Un pozzo a ciascuno. Intanto Frattini ipotizza: si andrà avanti finché Gheddafi non cadrà. Con un ministro degli esteri così c’è poco da star tranquilli. Berlusconi ci tiene a tranquillizzare tutti: Gheddafi non ha la tecnologia necessaria per colpire le nostre isole: Lampedusa, Linosa, Pantelleria. Poi lo scopriamo alla testa di una cordata con Putin con lo scopo di ricomporre le parti, come se noi non fossimo pienamente coinvolti nella alleanza dei volenterosi occidentali griffata ONU. Una specie di sclerosi della visione dei rapporti internazionali: le iperbole di un vecchio governante esautorato e privo di dignità.

Lampedusa è il fronte di questa guerra, o meglio la più immediata retrovia: un’immensa isola campo-profughi. Chi, che cosa potrà partorire una situazione tanto simile?

Due anni fa nessuno previde che Mohamed Game, cittadino libico residente da anni in Italia, si sarebbe fatto esplodere di fronte alla caserma Santa Barbara di Milano per protesta «contro il governo e Silvio Berlusconi responsabile della politica estera» (Corriere.it).

Esiste una circolare del capo della Polizia Manganelli che invita prefetti e questori a innalzare il livello di attenzione per gli obiettivi sensibili, in particolar modo le frontiere marittime e terrestri, nonché i luoghi simbolo. Non serve ipotizzare armi chimiche: l’unica arma più pericolosa – e che può attuare la vera rappreseglia contro i civili – potrebbe essere già fra di noi. E questa è una della ragioni per cui la chiamiamo guerra.

L’apocalisse giapponese spingerà gli USA alla guerra in Libia?

Per qualche ragione, due mari lontanissimi, il Mediterraneo e l’Oceano Pacifico, diventano stranamente “comunicanti” e non già perché si possa navigare da uno all’altro senza passare per terra, bensì perché la storia e la geologia hanno deciso così. E tutto per colpa della necessità degli uomini di avere energia a buon prezzo per le proprie attività e per le proprie abitazioni. Sì, diciamolo, per colpa del petrolio.

Da un lato, il Giappone con la sua inimmaginabile apocalisse, la distruzione di intere città e di industrie, in primis quella energetica che sta portando al melt down due o tre reattori della centrale di Fukushima. Domani è annunciato il razionamento dell’energia elettrica: per Tokyo sarà il black out. Parliamo di una città di 13 milioni di abitanti. In tutta l’area metropolitana vivono circa 35 milioni di persone. Ergo, il governo giapponese dovrà rivedere la propria politica energetica con misure emergenziali, la prima delle quali sarà incrementare la produzione di elettricità attraverso quella parte di infrastruttura che impiega combustibile non nucleare, ovvero gas e petrolio. Ma mentre per il gas è difficile incrementare la produzione in tempi brevi – sono necessari nuovi gasdotti, nuovi rigassificatori – per il petrolio il problema non sussiste: faranno arrivare qualche petroliera in più. L’energia elettrica di provenienza nucleare in Giappone è circa il 30% di quella prodotta. Considerando che gli impianti coinvolti dal sisma-tsunami sono circa sette, in funzione ne restano almeno undici delle diciotto attualmente funzionanti. Ne consegue – e questo è certo un calcolo spannometrico poiché non conosco la potenzialità degli impianti né il numero di reattori spenti – circa il 10-15% di energia in meno.

Alla riapertura dei mercati sapremo se il rally del prezzo del petrolio di questi giorni si tramuterà in una tendenza chiara al rialzo. L’incremento di fabbisogno di oro nero del Giappone produrrà una scossa sui listini dei mercati. E di riflesso avremo uno shock petrolifero in piena regola. Il sistema produttivo è in grado di reagire alla nuova domanda? I paesi OPEC incrementeranno le attività estrattive? Gli USA metteranno mano alle famigerate riserve?

Qui entra in campo il ‘problema Libia’. L’Europa se n’è lavata le mani, con Italia e Germania su una linea prudente mentre Sarkozy spingeva già per la guerra totale (o Total) al dittatore libico. Gli Stati Uniti sono divisi fra amministrazione Obama desiderosa di cacciare il brutale Gheddafi e gerarchie militari tiepide sull’ipotesi di aprire un terzo gravoso conflitto. In mezzo gli interessi petroliferi degli inglesi – Bp e le sue dannate trivelle – già a far da grancassa agli insorti, speranzosi di trovare il nuovo link per inserirsi nel paese, mentre russi e cinesi, pronti a sostituire i ‘traditori italiani’ con le loro imprese e i loro soldi, restano freddini essendo in buoni rapporti con il Raiss. Questo scenario di blocco potrebbe essere risolto in un batter d’ali se domani i mercati dovessero aprire con il barile sopra i 105 dollari:


A fine Febbraio, infatti, all’apice della crisi libica, quando sembrava che Gheddafi dovesse abbandonare il paese da un momento all’altro, il greggio è volato sopra i 100 dollari. In un solo giorno era aumentato di dodici dollari. E allora la catastrofe giapponese potrebbe far rivedere i piani degli americani: il greggio dell’Arabia Saudita potrebbe non essere sufficiente. Le truppe mercenarie di Gheddafi stanno marciando su Bengasi senza trovare resistenza. Sta a vedere che ora andrà bene anche una No Fly Zone, fatta anche male.

Israele e Gheddafi, relazioni pericolose o fantasiose?

Bufale? O no? Nei giorni scorsi il web ha fatto circolare la notizia secondo la quale il governo di Israele starebbe fornendo assistenza militare a Gheddafi. Una notizia divulgata in primis da media tradizionali dell’area del Medio-Oriente, in particolare da un quotidiano arabo, Al Akhbar, divulgato in vari paesi fra cui il Libano e l’Egitto, infine recuperata da Al-Jazeera. Cosa c’è di vero?

Secondo Nizar Abboud, corrispondente di Al Akhbar dalle Nazioni Unite, ritenuto molto “serio ed affidabile”, il figlio di Gheddafi Saif al-Islam si è recato in visita in Israele proprio due giorni fa al fine di chiedere “assistenza militare, in termini di munizioni, sorveglianza notturna e la sorveglianza satellitare, impegnandosi a sviluppare le relazioni politiche ed economiche tra i due paesi”. Saif al-Islam avrebbe anche chiesto agli israeliani di impiegare il proprio credito presso Washington per “salvaguardare i fondi depositati e investiti dalla sua famiglia” (www.ism-france.org).

L’articolo ricorda che “fin dall’inizio della rivoluzione libica, la Libia ricorre ai servizi di una nota azienda di “sicurezza” sionista (Global CST), che fornisce i mercenari provenienti dal Ciad e altrove, con profitto da capogiro (Gheddafi è pronto a pagare stipendi di 1.000 e 2.000 dollari al giorno)”.

Proprio questa informazione è stata contestata da The Jeruzalem Post (di seguito JP) con un editoriale senza firma, ieri sera. “Il nemico assiomatico”, titolano. Come dire, è sempre colpa di Israele. Crolla Ben Alì? E’ colpa del Mossad, il servizio segreto israeliano. Rivolta a Il Cairo? Gli israeliani tramano per mantenere in piedi il regime di Mubarak. Crollano le Torri Gemelle? E’ un complotto sionista. E via discorrendo.

Secondo alcuni, da entrambi i lati della grande turbolenza che recentemente ha spazzato tutto il mondo arabo, la causa di tutti lo scempio è – come sempre – Israele […]

Dal lato dei governanti assediati, il presidente dello Yemen Ali Abdullah Saleh la scorsa settimana evocava immagini di un centro di comando occulto a Tel Aviv che orchestrava i vari disordini arabi. I manifestanti, secondo quanto sostenuto da Saleh al momento di affrontare studenti e accademici alla Sanaa University, sono lacchè di Israele, “che fanno i  e che perseguono finalità di sionista”[…]

“C’è un quartier generale delle operazioni di Tel Aviv che sovrintende alla fine di destabilizzare il mondo arabo. La sala operativa è a Tel Aviv, ed è gestito dalla Casa Bianca” [disse Saleh davanti alle telecamere] – http://www.jpost.com/Opinion/Editorials/Article.aspx?id=210907

Poi le “rivelazioni” di Al-Jazeera che disegnano Israele intenta ad aiutare Gheddafi. Scrivono sul JP: “la questione del perché Israele non avrebbe neanche lontanamente contemplato di aiutare un nemico giurato come Gheddafi non viene mai affrontata […] Questa premessa di Israele come spauracchio onnipresente è l’aspetto più preoccupante di questi racconti, ed è divertente come anche noi possiamo essere tentati di prenderle in considerazione. Le menzogne crescono innescare dinamiche e assumere vita propria” (ibidem).

Insomma, delle due l’una: o Israele aiuta i rivoltosi oppure sta dalla parte di Gheddafi, che pure era ed è un suo nemico giurato. Ma la Global Cst, la società chiamata in causa dal giornale arabo, esiste davvero e – checché ne dica The JP – opera in innumerevoli settori, dal più generico «lobbying», alla «pianificazione delle politiche pubbliche», al «rafforzamento delle strutture statali», «infrastrutture», «sistemi d’intelligence (dalla creazione all’installazione)», compreso l’ «addestramento del personale militare e dei servizi segreti», la «creazione di unità speciali d’intervento e di sicurezza interna e internazionale per Stati e imprese private» (Falafel Café).

La Global Cst di Petah Tikva, fondata nel 2007 dall’ex generale di brigata dell’esercito israeliano, Israel Ziv, e dall’ex brigadiere Yosef (detto “Yossi”) Kuperwasser:

Si sa che è stata creata dopo l’uscita – burrascosa – di Israel Ziv dall’esercito israeliano. Correva l’anno 2006 e Ziv era stato spinto a mettersi da parte dopo la campagna militare fallimentare contro Hezbollah in territorio libanese. Ziv – raccontano i bene informati – guidava la schiera dei capi che optavano per la linea dura nei confronti dei miliziani di Nasrallah. Poteva farlo: era lui il vertice della sezione preposta alle operazioni militari sul campo. E nei primi giorni dello scontro, le opinioni di Ziv sono state le più considerate. Ma poi, visti i risultati deludenti e la condanna del mondo, il militare è stato messo da parte (Leonard Berberi, Falafel Café, cit.).

Global Cst avrebbe operato in Georgia, in Ossezia, in America Latina; avrebbe collaborato per la liberazione di Ingrid Betancourt; oggi è al centro di questo nuovo presunto scandalo. Global Cst non è parte del governo israeliano, ma secondo le fonti ha ricevuto l’avvallo a fornire la propria assistenza ai libici. Semplice businness?