SOS Aiuta Di Battista a firmare ICE New Deal for Europe – #dibbaciao

Perché uno che è parlamentare da un anno e dovrebbe essere l’archetipo della Nuova Politica, pulita, senza scheletri negli armadi, senza ombre, che parla una lingua diretta e schietta, afferma in diretta tv di aver visto la “mafia” in Giuseppe Civati? Questa incapacità di raccontare una realtà diversa dall’abisso della corruzione che dovrebbe investire ogni dove, ogni singolo anfratto del sistema politico italiano, è il limite palese su cui ci infrangeremo quando persone come Alessandro Di Battista avranno raccolto un numero di voti sufficiente a governare.

E’ un problema di visione, di pensiero. Mentre Civati racconta di un mondo che oggi non è e che potrebbe essere se solo prendessimo armi contro il mare di guai nostrano, Di Battista deve giocoforza caricare ogni sua singola frase per alimentare quella diversità ontologica che presume di avere. Tutto è marcio, e ogni speranza va lasciata a sé stessa: la politica è compromesso e il compromesso è mafia. Ma dal momento che la politica è la sfera delle decisioni collettive comuni ed ha a che fare con la vita associata di noi cittadini nella polis, questa totale identità della criminalità con la politica implica che non vi sia alcun modo di correggere l’albero storto. L’abisso è sempre evocato, è sempre dietro l’angolo: lo sfascio sociale è sia uno spettro da agitare, sia la finalità dell’azione politica. Poiché lo sfascio è la fine dello Stato, e con la fine arriverà la Rivoluzione (della Rete) che – per antonomasia – tutto cambia (qualcosa che ha un sapore marxiano, poiché proprio in Marx la finalità dell’azione politica è la fine dello Stato borghese).

Immaginare la speranza è più difficile. “La politica è oggi sequestrata da un continuo stato di eccezione”, scriveva Pippo nel documento congressuale. Pretendere un paese diverso passa anche da questa consapevolezza: urlare, solo per un attimo, quindi mettere da parte la disperazione e fare lo sforzo di pensare concretamente alle cose da cambiare e modificare e rivedere. Il conflitto – immaginifico – fra Casta e Popolo è fuorviante dal momento che spinge a concentrare lo sforzo non già sul paese ideale che si intende raggiungere – bensì sulla querelle del giorno, in un dibattito chiuso in sé stesso e completamente fuori dal proprio tempo.

Per questo Di Battista andrebbe aiutato. Aiutato a uscire dal circuito vizioso della conflittualità politica, della bagarre, della frase ad effetto in televisione. Potrebbe essere ancora in tempo. Potrebbe addirittura salvarsi.

Domenica si voterà per le Europee. Vorremmo si parlasse di ICE per un New Deal d’Europa. ICE, che sta per Iniziativa dei Cittadini Europei. Una petizione, sì, uno strumento di democrazia diretta che Di Battista dovrebbe conoscere e promuovere, essendo il Movimento 5 Stelle campione della democrazia diretta. In Italia gli ICE sono ignoti, eppure ci sono altre sette iniziative aperte con la finalità di influenzare dal basso (!) la politica dell’Unione Europea.

Se siete d’accordo, allora, invitate l’amico Dibba a firmare e sostenere e propagandare le ICE come forma di democrazia diretta. Nonché a sostenere queste iniziative:

 Grazie @ale_dibattista!

La rivoluzione piccola del #416ter

Facciamo piazza pulita di tutti i retroscenismi. Per una volta. E focalizziamoci, se possibile, sul testo della norma, pura, per come è stata votata oggi alla Camera.

Parlo del reato dello scambio politico-mafioso, previsto dall’articolo 416-ter del Codice Penale e oggetto di una riforma storicamente necessaria e storicamente inevasa dal sistema politico. Il testo è giunto alla quarta lettura, approvato oggi dalla Camera sotto gli strali dei 5s, che paventavano l’accordo Pd-Forza Italia e la collusione con la mafia; con il voto di oggi sono state cancellate quasi del tutto le modifiche operate dal Senato, che rischiavano di vanificare l’efficacia della riforma.

Quindi, dicevo, questo è il testo:

 1. L’articolo 416-ter del codice penale è sostituito dal seguente:
«Art. 416-ter. – (Scambio elettorale politico-mafioso). – Chiunque accetta consapevolmente il procacciamento di voti con le modalità previste dal terzo comma dell’articolo 416-bis in cambio dell’erogazione di denaro o di altra utilità è punito con la reclusione da quattro a dieci anni.
La stessa pena si applica a chi procaccia voti con le modalità indicate al primo comma».

A questo link, invece, il confronto fra il testo approvato in prima lettura alla Camera e le modifiche votate al Senato il 28 Gennaio 2014: http://www.camera.it/leg17/995?sezione=documenti&tipoDoc=lavori_testo_pdl&idLegislatura=17&codice=17PDL0015990&back_to=http://www.camera.it/leg17/126?tab=2-e-leg=17-e-idDocumento=204-B-e-sede=-e-tipo=

Il relatore della Commissione II Giustizia, Davide Mattiello, nel suo breve discorso di oggi, ha ricordato la portata storica della modifica apportata dalla riforma: nello scambio politico-mafioso, “abbiamo finalmente reso irrilevante il denaro”. Già, poiché nella formulazione attualmente in vigore, il reato è correlato ad una promessa (di difficile dimostrazione) nonché allo scambio di denaro:

Art. 416-ter.
Scambio elettorale politico-mafioso.

La pena stabilita dal primo comma dell’articolo 416-bis si applica anche a chi ottiene la promessa di voti prevista dal terzo comma del medesimo articolo 416-bis in cambio della erogazione di denaro.

Per tale ragione, oggi lo scambio ‘voti per appalti’ non è una fattispecie punibile secondo il 416-ter. La riforma ammette questa possibilità ed è, nel suo piccolo, una rivoluzione. Spiega Mattiello sul suo blog: “il presupposto dell’accordo tra le due parti per il procacciamento di voti [è] fondato sulla sua consapevolezza; si intende, in tal modo, sottolineare più chiaramente il carattere doloso (ovvero, ex art. 43 c.p., secondo l’intenzione)”. Non è più centrale la promessa dello scambio: il reato inizia con l’accordo. E sussiste anche non in presenza di denaro (concetto di altra utilità).

La norma, al Senato, era stata modificata e resa meno netta nella sua proposizione. Il testo riproponeva il termine della ‘promessa’, alzava nuovamente le pene edittali equiparandole a quanto previsto dal 416-bis (associazione mafiosa). Ma l’accettazione dello scambio da parte dell’uomo politico non necessariamente e non immediatamente significa appartenenza all’organizzazione criminale: è stato questo concetto ad ispirare una diversa trattazione per il reato dello scambio politico-mafioso che, pur essendo una gravissima condotta, da solo non basta a dimostrare l’affiliazione. Lo scambio è un accordo, consapevole, che produce utilità per i contraenti, utilità non necessariamente coincidente con il denaro. Franco Roberti, procuratore nazionale Antimafia, si è così espresso: “dopo le correzioni della Camera al testo del 416-ter sul voto di scambio, abbiamo una norma perfetta e veramente utile a contrastare lo scambio tra politica e mafia”.

I 5 Stelle, tramite il blog di Grillo, scrivono invece che la norma è stata ‘svuotata’: “un politico può essere a disposizione della mafia: non è reato. Renzi e Verdini hanno ammazzato il 416 ter”. Nel testo del commento non è chiaro perché questa norma sia stata svuotata, né come. Quale è la natura della contestazione? Il mancato riferimento alla promessa? Quanto successo è esattamente il contrario di ciò che è stato votato in aula. Continuano i parlamentari 5s:

Dopo una lunga e dura battaglia il governo delle larghe intese sulla mafia, previo incontro tra capi, ha deciso che lo scambio politico mafioso non deve essere punito (blog Grillo).

I due capi sono Napolitano e Berlusconi, naturalmente. Peccato che la norma sia rivolta invece a colpire lo scambio anche in assenza di denaro, quindi è estensiva rispetto a quella attualmente in vigore. Perché il reato di scambio politico-mafioso è già reato, è già punibile. Ma la formulazione non copre tutte le fattispecie di scambio, per così dire. Non so se è chiaro. E non so se è chiara la disinformazione che i 5s stanno facendo in materia.

Semmai si dovrebbe operare al fine di approvare la norma immediatamente, già domani o dopo, al Senato. Non c’è più nulla da correggere, se la norma è perfetta. Citando nuovamente i 5s: “Non ci sono giri di parole da fare. Bisogna essere duri e determinati nella lotta contro la corruzione politica e mafiosa”. Sono d’accordo. Si adoperino per far votare subito la norma nello stesso testo approvato oggi. Grazie.

L’italia peggiore. Ancora ‘ndrine al Nord

Operazione “Maglio” in Piemonte. Il gip: “Il consigliere comunale Giuseppe Caridi è un pericolo per la democrazia”, Newz.it

‘Ndrangheta, Caselli: “Caridi vero affiliato” Videopiemonte – 5 ore fa

‘Ndrangheta: arrestato il consigliere comunale di Alessandria Caridi, Radiogold (Comunicati Stampa) – 10 ore fa

Blitz contro la ‘ndrangheta in Piemonte, arrestato esponente Pdl‎ – TM News
‘Ndrangheta a Alessandria: arrestato un consigliere comunale del Pdl‎ – La Repubblica
‘Ndrangheta: Pd Piemonte, Pdl prenda posizione netta‎ – La Repubblica Torino.it

Sebbene fosse affiliato come semplice picciotto, il gip del Tribunale di Torino, Giuseppe Salerno, che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare per Caridi e altre 18 persone, ha detto che Caridi, il consigliere comunale di Alessandria, iscritto al PdL, è “un vero pericolo per la democrazia”. La mafia è dentro al partito con cui sono alleati da quindici anni e di cui non possono fare a meno. Ergo, la Lega è alleata con la mafia.

Le ‘ndrine sono al Nord. Lo ha detto anche Bossi, a Pontida, con smacco per il ministro dell’Interno Maroni: la mafia è in Brianza, al Nord. Siamo pieni di mafia. Lui, Maroni, sedicente presidente del consiglio in pectore, invece si vanta dei passi in avanti nella politica di repressione. Progressi che vede solo lui.

Ciancimino, lo scenario inquietante

Nessuno spende più una parola per Massimo Ciancimino. Nessuno dei padri dell’antimafia. Nessuno. Il fatto, la falsificazione del documento che recava il nome di De Gennaro come uno dei super poliziotti mafiosi, è dato per certo. La perizia pare non lasci spazio a dubbi. I magistrati che ne hanno disposto l’arresto sono anche coloro i quali hanno assegnato alle parole di Ciancimino un certo grado di credibilità. Hanno, su di esse, costruito teoremi accusatori. Hanno formulato – anche grazie ad esse – una teoria che è detta della ‘trattativa Stato-Mafia’. Si dice oggi che il falso e la calunnia non minano più di tanto l’impianto del teorema, che poggia invece su dichiarazioni di altri pentiti, su fatti ricostruiti seppur con difficoltà, su qualche pizzino passato dallo stesso Ciancimino e ritenuto autentico.

Li Gotti (IDV) si è così espresso: “‘La calunnia di Massimo Ciancimino in danno del prefetto Gianni De Gennaro, documentalmente costruita su un chiaro falso, apre uno scenario inquietante”. Si sospetta, e sono gli stessi magistrati a dirlo, che alcune dichiarazioni del pentito Ciancimino, e quindi anche questo documento esibito come opera del padre, siano stati ispirati da qualcuno che ha interesse a usare Ciancimino medesimo come un’arma. Lui, che si è guadagnato credibilità per le sue rivelazioni, potrebbe esser stato messo nelle condizioni di dover truccare quel foglietto. Potrebbe.

“Il prefetto De Gennaro, da direttore della DIA, nel 1993 manifestò contrarietà alla revoca dei 41 bis e nelle valutazioni sulle ragioni dello stragismo ipotizzo’ la sinergia dello stragismo con la ricerca di nuova interlocuzione con il soggetto politico emergente, dopo la dissoluzione dei partiti della prima repubblica”, ci ricorda Li Gotti. Se qualcuno ha pensato di costringere Ciancimino – con la minaccia – alla calunnia, perseguiva un obiettivo fondamentale, quello di screditare l’accusa. Minare la validità delle dichiarazioni di Ciancimino, colpendo un prefetto sostanzialmente integerrimo, se si escludono i fatti di Genova del 2001, per abbattere tutto il teorema della trattativa.

E’ notizia di qualche ora fa che è stato ritrovato dell’esplosivo nell’abitazione di Ciancimino. Ciancimino potrebbe essere stato messo così alle corde per mezzo del ricatto, da non dargli alcuna scelta: mentire per salvare i figli.

Ciancimino ha svelato di avere ricevuto nei giorni scorsi un pacco bomba. “L’ho sotterrato nel giardino della mia casa di Palermo – ha detto – avevo timore che questa ennesima minaccia mi si rivoltasse contro e si dicesse che l’avevo costruita io” (La Repubblica.it).

Sembra tutto studiato a tavolino. Solo qualche mese fa erano uscite intercettazioni su Ciancimino intento a riciclare denaro da un malavitoso in Veneto. Perché avrebbe dovuto farlo? Ciancimino ha già sulla testa una condanna per il medesimo reato. Aveva un così disperato bisogno di denaro? Per ultimo, ma comunque come un orologio svizzero, il tritacarne del PdL si è messo in moto:

MAFIA: GASPARRI, DOPO CIANCIMINO INIZIATIVA PDL SU USO PENTITI

MAFIA: CICCHITTO (PDL), CIANCIMINO FA GLI AFFARI SUOI

Quanto contenuto in questo post è un’ipotesi. Come ipotesi sono le ricostruzioni de Il Giornale e di Libero. Qualcuno invece pensa che l’arresto sia stato un’iniziativa personale di Ingroia al fine di sottrarre Ciancimino alla procura di Caltanissetta, che lo indaga per il medesimo reato. Ingroia conterebbe poi di riabilitare Ciancimino in un secondo momento.
Dove la verità? Lui, Massimo Ciancimino, passa alla storia con il soprannome di sfinge. In lui bene e male si confondono fino a perdere di senso. Figlio partecipe delle pratiche mafiose del padre sindaco del Sacco di Palermo, sembra guadagnare le stigmate dell’atimafia in virtù della sua collaborazione con i giudici. Ma che stillicidio di dichiarazioni e mezze dichiarazioni prima di arrivare al famoso papello. In tutta questa storia, Ciancimino sembra vittima di sé stesso, vittima del nome e del sospetto che sempre si porterà dietro.

Massimo Ciancimino è stato arrestato

Ciancimino arrestato. Questo il lancio di agenzia ripreso su La Repubblica:

Agenti del centro operativo Dia di Palermo hanno arrestato a Bologna Massimo Ciancimino sulla base di un fermo disposto dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dei sostituti Nino Di Matteo e Paolo Guido. Ciancimino è accusato di truffa pluriaggravata, secondo la ricostruzione della scientifica avrebbe falsificato un documento, poi consegnato alla magistratura, in cui si faceva il nome dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro.

Non sarebbe vero quindi il coinvolgimento di De Gennaro nella questione della trattativa Stato-Mafia. O per meglio dire, le prove addotte da Ciancimino sono un falso.

In questo post https://yespolitical.wordpress.com/2010/10/30/il-sisde-parallelo-super-poliziotti-antimafia-o-spie/ si ipotizzava, con una ricostruzione storica attraverso articoli di giornale, il ruolo dei super poliziotti antimafia nella Palermo degli anni ottanta, quando personaggi come Arnaldo La Barbera e Bruno Contrada si muovevano indisturbati nella zona grigia che congiunge Mafia e Stato. De Gennaro era collega di La Barbera, parte di quel pool di investigatori che venne chiamato a ricostruire la Squadra Mobile di Palermo. Come gli altri, è poi transitato al Sisde. Le accuse di Ciancimino parevano fin dall’inizio piuttosto fumose, indimostrabili. Perché attaccare De Gennaro?

Per la Corte d’Appello, Dell’Utri tramite fra la Mafia e Berlusconi

Quella che segue è la notizia battuta dall’ANSA qualche minuto fa relativa alle motivazioni della Sentenza della Corte d’Appello di Palermo su Marcello Dell’Utri, condannato a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa:

Il senatore Marcello Dell’Utri (Pdl) avrebbe svolto una attivita’ di ”mediazione” e si sarebbe posto quindi come ”specifico canale di collegamento” tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi. Lo scrivono i giudici della Corte d’Appello di Palermo nelle motivazioni, depositate oggi e in possesso dell’ANSA, della sentenza con la quale Dell’Utri e’ stato condannato il 29 giugno scorso a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Per i giudici, Dell’Utri ”ha apportato un consapevole contributo al consolidamento e al rafforzamento del sodalizio mafioso” (ANSA.it).

E ora Fini potrà ancora chiedere a Berlusconi senso di responsabilità per la fase della crisi di governo che verrà presumibilmente dopo il 14 dicembre? Può Berlusconi, con un macigno simile, continuare a fare il Presidente del Consiglio? Possono i deputati radicali, eletti nelle liste del PD, compiere la trasmigrazione degli scranni e votare con il PdL la fiducia a Berlusconi come ha ventilato Marco Pannella oggi:

Premier a caccia di nove deputati Pannella tratta: da noi sei voti

Il Sole 24 Ore – ‎17/nov/2010‎

Forse si tratta di una provocazione. Certamente ogni deputato ha un prezzo e pare che questi non abbiano alcun ribrezzo a trovarsi dal giorno alla notte a votare per un signore connesso alla mafia per tramite del suo socio in affari. Pensate all’onorevole per fortuna, al secolo Maurizio Grassano: diventato deputato dopo l’elezione a governatore del Piemonte di Roberto Cota, l’ex leghista, ex presidente del consiglio comunale di Alessandria, inquisito per truffa al suo stesso comune, oggi ha manifestato l’intenzione di votare per B. Grassano è stato arruolato. Leggete la sua storia. Pare essere pienamente in sintonia con il governo che andrà a sostenere:

Stragi del 1993, quando Mannino ipotizzava la mano dei Servizi Segreti

Il 27 Maggio 1993 avvenne l’attentato di Via Dei Georgofili. Cinque furono i morti. Il giorno dopo sui giornali compaiono le dichiarazioni dei politici, del Presidente del Consiglio, Ciampi, del Presidente della Repubblica Scalfaro, del Ministro degli Interni Mancino. Il quale, in una maniera un po’ enigmatica, giunge a ipotizzare la mano della mafia dietro alla strage. Perché, incalzano i giornalisti. E lui, sibillino: “chi capisce quello che è successo qui, capisce l’Italia”.

La Stampa, 28.05.1993, prima pagina

Senza indugi, Mancino dice chiaramente, qualche ora dopo l’attentato, che si tratta dell’opera della mafia. La mafia vorrebbe sviare l’attenzione da “quanto sta accadendo a Palermo e ovunque operi la criminalità organizzata, perché la mafia è dappertutto”. Mentre invece Piero Luigi Vigna dubita di questa ricostruzione: parla di “strategia terrorizzante” più che di mafia. La strage verrà poi rivendicata dal sedicente gruppo chiamato Falange Armata. Lo stesso giorno, l’inchiesta sulla strage di Via D’Amelio fa un grosso passo in avanti: viene arrestato Pietro Scotto, il telefonista di Via D’Amelio secondo la ricostruzione fasulla della prima inchiesta dei giudici di Caltanissetta, quella realizzata con la regia occulta di Arnaldo La Barbera e forse di Giovanni Tinebra. Una coincidenza che solo oggi possiamo considerare “strana”.

Accanto alle dichiarazioni di Mancino, la Stampa pubblicò una intervista all’esponente della DC siciliana Calogero Mannino, ai tempi un pezzo forte della politica italiana, avversario della corrente andreottiana che fu di Salvo Lima. La sua e quella di Vigna erano le uniche voci discordanti rispetto alla ricostruzione ufficiale fatta dal Ministro Mancino. Il giorno dopo, Mancino già sapeva che si trattava di mafia. Oggi sappiamo della trattativa Stato-Mafia, sappiamo dell’esistenza di mandati occulti, dell’esistenza di un livello militare stragista e di un livello politico e finanziario che finora non è stato svelato. Mannino, a sua volta accusato di mafia dai pentiti e assolto solo dopo una travagliatissima battaglia giudiziaria, a quel tempo indicò prima di altri l’evidenza di una sproporzione fra le capacità di Riina e la devastazione provocata dall’esplosione in Via Dei Georgofili. Le sue parole, raccolte da un allora promettente abile cronista di nome Augusto Minzolini, acquistano oggi una valenza diversa, quasi profetica:

Mannino: ma quali boss

«Il complotto viene dall’Est Riina non ne avrebbe le capacità»

ROMA. «E adesso non mi vengano a dire che questa bomba l’ha messa la mafia di Toto Riina. Anzi, a questo punto dubito anche sulla matrice mafiosa degli omicidi di Lima, Falcone e Borsellino». Seduto su una poltrona di Montecitorio, Calogero Mannino, ex-ministro dell’Agricoltura e primo attore della DC siciliana, si lascia andare ad un serie di congetture sulla bomba di Firenze. Sarà l’emozione per quello che è avvenuto, o, il fatto, di aver tenuto in corpo per tanti mesi questo sfogo, ma Mannino parla senza pausa e dalla sua bocca, come da un fiume in piena, esce di tutto.

Lei ha davvero dubbi sul fatto che non c’entri la mafia?

«Io dietro alla bomba di Firenze vedo ben altro. E, se non sbaglio, tra le minacce ricevute all’epoca da Falcone c’era anche quella della falange armata. La verità è che gli assassinii che ci sono stati in Sicilia hanno messo in ginocchio la DC o il sistema di potere andreottiano. E non è cosa da poco conto: in Italia quello che è avvenuto può essere paragonato alla caduta del muro nei Paesi comunisti. Quindi chi l’ha fatto deve avere degli obiettivi ben più grandi di quelli della mafia. Solo che dopo aver fatto fuori i partiti di governo, nessuno si è fatto avanti per prenderne il posto».

E allora?

«Proprio per questo si possono fare solo delle ipotesi su chi muove i fili dell’intera vicenda. Può esserci in atto, ad esempio, un’utilizzazione di servizi segretti deviati, ad opera di altri Paesi. O, ancora, bisogna vedere chi si muove dietro alla Serbia. Ed ancora, si dice che in Russia i comunisti si stanno riorganizzando e la stessa cosa sta facendo l’esercito. Infine bisogna fare un discorso un po’ più complesso sulla mafia…».

Si spieghi.

«Ma lei crede davvero che un personaggio come Toto Riina possa stare dietro a tutto questo? Suvvia, al massimo quello può fare ridere o, come succede a me, può far girare le scatole. La verità, secondo me, è che esiste un apparato militare molto efficiente e, poi, una mente politico-finanziaria, che non si trova certo in Italia. E questi due livelli si incontrano raramente: o meglio, nei momenti importanti la mente finanziaria ordina all’apparato militare quello che deve fare».

Ma lei crede davvero a queste sue ipotesi, non le paiono un po’ azzardate?

«Senta, le faccio una domanda: perché Giuliano i carabinieri lo hanno trovato morto, mentre Riina è stato trovato vivo? La verità è che Riina si è sganciato. Fatto il lavoro che gli era stato commissionato si è sganciato».

Ma quale interesse potrebbe avere quell’«entità» che, secondo lei, starebbe dietro a tutto questo?

«Non vogliono avere a che fare con un governo degno di questo nome. Quello attuale è come se non ci fosse. Sono passate due settimane e vedete, non esiste. E non avere a che fare con un governo significa tante cose: ad esempio da la possibilità di comprare i beni dello Stato a pochi soldi. E se, poi, si arrivasse a provocare una divisione dell’Italia in due, qualcuno potrebbe ricavarne altri vantaggi. Potrebbe, ad esempio, disporre senza problemi, di basi militari dell’Italia meridionale di grande importanza strategica, come Fontanarossa e Comiso. Sì, potrebbe usarle come vuole, a proprio piacimento, senza rischiare incidenti diplomatici con il governo italiano come è avvenuto a Sigonella. Le mie, comunque, sono solo ipotesi che partono, però, da una convinzione».

Quale?

«Tutto quello che sta avvenendo pone una questione: qualcuno insidia la nostra sovranità nazionale».

Secondo lei siamo a questo punto?

«Ci siamo e nessuno se ne rende conto. Ad esempio, i giudici hanno fatto il loro lavoro, diciamo che la loro è stata un’operazione chirurgica, ma adesso dovrebbero lasciare di nuovo il posto alla politica. E lo stesso problema dovrebbero porsi anche i pidiessini, insieme a noi devono porsi il problema di salvare il Paese. Fatto questo potrebbero governare loro».

Ma senta non è che le sue supposizioni nascono solo dalla voglia di far dimenticare quello che è avvenuto in questi mesi? Insomma, un tentativo di azzerare il tutto nel nome dell’emergenza?

«Non scherziamo. Io la politica la lascio. Guardi io ho già fatto un patto con mia moglie: io lascio, ma lei deve accettare di lasciare la Sicilia. Io non posso rimanere lì, perché so quello che ho fatto contro la mafia. Voglio andarmene, non all’estero, magari a Roma».

[Augusto Minzolini]

Dietro gli scandali, la mafia. Parola di Berlusconi

Opera Buffa, "Una commedia che dura da troppo tempo", The Economist, oggi 04.11.2010

Il caso Ruby? Le rivelazioni di Nadia Macrì? Sono opera della mafia che si vendica di Berlusconi e della sua politica irreprensibile in fatto di lotta alla criminalità. In verità la frase pronunciata dal Presidente del Consiglio dinanzi alla platea della Direzione Nazionale del partito è diversa:

Per la prima volta si profila la possibilità di sconfiggere per sempre la piaga della mafia e della criminalità organizzata. I colpi che infliggiamo ci fanno dire che nessuno oggi può eslcudere che alcune cose che accadono siano vendette della malavita (Il Fatto Quotidiano).

Stasera, Fabrizio Cicchitto, portavoce del PdL, durante Otto e Mezzo la trasmissione di La7, avverte: certe dichiarazioni di alcuni presunti pentiti, di Ciancimino, di Spatuzza, lasciano presagire uno scenario allarmante. Si farebbe un uso criminoso del pentitismo a fini politici. Non mi sento di specificare oltre, fa presente Cicchitto. All’insistenza della Gruber, che lo incalzava in maniera molto morbida sia chiaro, chiedendogli se il caso Ruby e Macrì fossero da mettersi in correlazione con una possibile probabile vendette mafiosa, Cicchitto ha sin quasi balbettato. Ha preferito riparare dietro il discorso anti-Ciancimino. Una frase, quella del premier, che imbarazza persino i suoi. Ma che c’entrano le escort con la mafia? Quale salto quantico si può compiere per mettere in congiunzione due ambiti apparentemente distinti? Come si arriva da Ciancimino e dal caso del Generale Mori alla vicenda tristissima di puttanopoli?

Una frase tanto grave dovrebbe mettere in agitazione tutto lo staff dedicato alla sicurezza del (finto) premier. Ma ancora una volta si compie lo scempio della parola al solo fine di riparare al danno politico creato dallo scandalo escort. Basta spararla grossa, poi tutto si aggiusta. Magicamente.

Don Vito, un libro all’Indice

Don Vito. Le relazioni segrete tra Stato e mafia nel racconto di un testimone d’eccezione

Un viaggio senza ritorno nei gironi infernali della storia italiana più recente. Quarant’anni di relazioni segrete e inconfessabili, tra politica e criminalità mafiosa, tra Stato e Cosa nostra. Perno della narrazione è la vicenda di Vito Ciancimino, “don Vito da Corleone”, uno dei protagonisti della vita pubblica siciliana e nazionale del secondo dopoguerra, personaggio discutibile e discusso, amico personale di Bernardo Provenzano, potentissimo assessore ai Lavori pubblici di Palermo, per una breve stagione sindaco della città, per decenni snodo cruciale di tutte le trame nascoste a cavallo tra mafia, istituzioni, affari e servizi segreti. A squarciare il velo sui misteri di “don Vito” è oggi un testimone d’eccezione: Massimo, il penultimo dei suoi cinque figli, che per anni gli è stato più vicino e lo ha accompagnato attraverso innumerevoli traversie e situazioni pericolose. Il suo racconto riscrive pagine fondamentali della nostra storia: il “sacco di Palermo”, la nascita di Milano 2, Calvi e lo Ior, Salvo Lima e la corrente andreottiana in Sicilia, le stragi del ’92, la “Trattativa” tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, la cattura di Totò Riina, le protezioni godute da Provenzano, la fondazione di Forza Italia e il ruolo di Marcello Dell’Utri.

Questo è uno di quei libri che procura la dannazione eterna per chi l’ha scritto, in special modo per uno dei due indicati come autori, ovvero il testimone oculare, Massimo Ciancimino. Con la lettera di minacce al figlio di 5 anni, Ciancimino ha chiesto a Feltrinelli di ritirare il libro dal commercio. Feltrinelli ha deciso per ora di annullare tutte le presentazioni al pubblico che sarebbero state fatte nei prossimi mesi. Niente promozione. C’è da giurarci che ‘Don Vito’ diventi una rarità, uno di queli libri che per trovarlo servono giorni interi a scartabellare negli archivi delle biblioteche. Sarà così? Vincerà ancora una volta la parola di minaccia sulla parola di verità (ammesso che Massimo Ciancimino l’abbia detta e scritta)? La lunga storia degli interrogatori di Ciancimino jr. nelle procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze è una storia di parziali ammissioni e reticenze, di documenti tenuti segreti e di pizzini che recano nomi improbabili di misteriosi oo7 deviati. Dove risiede la verità? Un libro come questo può aiutare a comprenderla? Don Vito è messo all’Indice dei libri proibiti poiché si fanno nomi e cognomi, perché si sconfina paurosamente nel ‘non detto’. Perché osa fare i nomi degli innominabili, che persino la procura di Firenze, nell’indagine poi archiviata sui mandati occulti dell’attentato di Via Dei Georgofili, chiama con lo pseudonimo di ‘Autore Uno’ e ‘Autore Due’, come se anche solo ipotizzare la loro reale identità, anche solo pensarlo,  possa in qualche modo compromettere la propria esistenza per sempre.

Eeppure è vero, insieme a quelle identità misteriose, che avallarono l’escalation stragista del 1993 delle “bombe sul continente”, trattando con esse, si è costruito un quadro politico che è passato alla storia con il nome di “Seconda Repubblica”. Nata con il sangue di giudici e di innocenti.

Don Vito. Le relazioni segrete tra Stato e mafia nel racconto di un testimone d’eccezione – Informazioni sul prodotto

Un viaggio senza ritorno nei gironi infernali della storia italiana più recente. Quarant’anni di relazioni segrete e inconfessabili, tra politica e criminalità mafiosa, tra Stato e Cosa nostra. Perno della narrazione è la vicenda di Vito Ciancimino, “don Vito da Corleone”, uno dei protagonisti della vita pubblica siciliana e nazionale del secondo dopoguerra, personaggio discutibile e discusso, amico personale di Bernardo Provenzano, potentissimo assessore ai Lavori pubblici di Palermo, per una breve stagione sindaco della città, per decenni snodo cruciale di tutte le trame nascoste a cavallo tra mafia, istituzioni, affari e servizi segreti. A squarciare il velo sui misteri di “don Vito” è oggi un testimone d’eccezione: Massimo, il penultimo dei suoi cinque figli, che per anni gli è stato più vicino e lo ha accompagnato attraverso innumerevoli traversie e situazioni pericolose. Il suo racconto riscrive pagine fondamentali della nostra storia: il “sacco di Palermo”, la nascita di Milano 2, Calvi e lo Ior, Salvo Lima e la corrente andreottiana in Sicilia, le stragi del ’92, la “Trattativa” tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, la cattura di Totò Riina, le protezioni godute da Provenzano, la fondazione di Forza Italia e il ruolo di Marcello Dell’Utri. Attualmente la testimonianza di Massimo Ciancimino è vagliata con la massima attenzione da cinque Procure italiane e non è possibile anticipare sentenze. Una vera e propria epopea politico-criminale per troppo tempo tenuta nascosta.
Editore: Feltrinelli
Autore: Ciancimino Massimo, La Licata Francesco
Argomento: Problemi e servizi sociali
Anno: 2010
Collana: Serie bianca
Informazioni: pg. 311
Codice EAN: 9788807171925

La legge del bastone anche per Ciancimino

Il proiettile indirizzato al figlioletto di 5 anni non è che una macabra notifica. Il ‘bastone’ arriverà. Per gli infami traditori, i figli e la famiglia tutta di Massimo Ciancimino. E’ una legge di mafia. Se pensate a tutto ciò trasponendolo alla vicenda di Fini e Il Giornale con la sua campagna diffamatoria, pare invero una terribile coincidenza. Ricordate il Corvo di Parlemo? Prima che con le bombe, la mafia agisce con il discredito. Con Ciancimino si è passati dalle parole ai fatti.

Ci si sarebbe aspettati, poi, una levata di scudi in difesa del testimone Ciancimino, e del suo figlioletto, il quale porta solo un cognome e colpe non ne ha. Il mondo politico, invece, si è girato dall’altra parte. Ciancimino è un infame e non merita rispetto nemmeno dai non-affiliati. Gli eroi sono ben altri: gli stallieri che muoiono senza aver fatti i “nomi”, per esempio. Una delle poche voci nel silenzio collettivo, è quella del sen. Lumia (PD):

La lettera minatoria al figlio di Masimo Ciancimino è un fatto grave, si sta superando ogni limite […] Adesso lo Stato deve dimostrare che fa sul serio: bloccare ogni tentativo di intimidazione e mettere nelle condizioni Ciancimino di andare fino in fondo. La ricerca della verità non può essere ostacolata. Bisogna avere il coraggio di scoprire le collusioni tra mafia ed esponenti della politica, delle istituzioni e degli apparati […] In questo momento così delicato occorrono messaggi chiari e inequivocabili. Invece, il governo non fa altro che screditare giudici, collaboratori di giustizia ed approvare provvedimenti che indeboliscono la lotta alla mafia, come il ddl sulle intercettazioni e il taglio di fondi alla magistratura e alle forze dell’ordine (IrisPress).

Per Il Giornale, la notizia non merita spazio né nella prima pagina di oggi – interamente dedicata al Fini-Tulliani Gate – né sulla home del sito web. Cercate su tutto il loro sito: per la notizia della lettera di minacce neanche un trafiletto, neanche la riproposizione del lancio di agenzia.

Ciancimino, certamente, ha avuto i suoi difetti: le dichiarazioni a orologeria di certo non aiutano a comprendere la sua buona fede. Ma c’è una parte dello Stato, una parte consistente e maggioritaria, che non vuole le verità di Ciancimino. Le rifiuta e le stigmatizza. Ciancimino non è un pentito. E’ considerato, tutt’al più, un diffamatore. Non gli è stata data nemmeno una protezione seria. Ciancimino è un uomo morto che cammina. Il libro “Don Vito. Le relazioni segrete tra Stato e Mafia”, scritto con Francesco La Licata ed edito da Feltrinelli, verrà forse ritirato dal commercio su sua richiesta. La verità, indimostrabile per i magistrati, che reca al suo interno, sparirà dalla circolazione, come è accaduto a tanti libri ‘scomodi’. Ma forse non si può perdere così velocemente il coraggio della parola.

Il mistero dell’Addaura fra servizi deviati e eversione

A inoltrarsi nei misteri del fallito attentato a Giovanni Falcone, all’Addaura, nel Giugno 1989, non bastano le mappe della memoria né gli archivi storici. Forse quel che verrà scoperto dopo vent’anni non sarà sufficiente a poter riscrivere la storia di questa pagina di lotta alla Mafia. Forse la rivelazione del nome dell’agente segreto, chiamato Franco, legato all’ex sindaco di Palermo, don Vito Ciancimino, promessa dal figlio Massimo grazie al ritrovamento in famiglia di un vecchio telefonino del padre, aiuterà a leggere anche questo episodio diversamente dalle sentenze passate in giudicato, esclusivamente orientate ad attribuire la paternità dell’attentato ai padrini di Cosa Nostra. Ma se si provano a unire tutti i ‘puntini’, come in un rebus enigmistico, anticipando i tempi della conclusione di indagini quantomeno tardive, il quadro appare inquietante.

  1. Le indagini iniziali: il mistero della data, gli identik e l’esplosivo.

    • il tentativo di attentato fu posto in essere il 20 Giugno 1989 e non il 21, giorno della effettiva divulgazione della notizia; ragion per cui, tutto l’armamentario argomentativo che collegava il fallimento dell’attentato alla casualità della scelta di Falcone di ‘non fare il bagno’ è priva di fondamento: l’attentato fallisce, lo sappiamo oggi, perché due poliziotti, in forza al Sismi, si accorgono dei movimenti intorno alla costa prospiciente la villa di Falcone;
    • vengono realizzati due identikit di due uomini visti armeggiare dai bagnanti intorno alla costa su un gommone giallo: oggi sappiamo che i due uomini erano in realtà i due poliziotti, Agostino e Piazza, che hanno sventato l’attacco; i due identikit non vengono mai pienamente divulgati, né incrociati con le altre testimonianze;
    • dell’esplosivo inizialmente si sa tutto, soprattutto da dove proviene (“I poliziotti della Mobile hanno ricostruito la storia dell’ esplosivo dall’ azienda produttrice di Domusnovas in provincia di Cagliari alla ditta che lo commercializza, la Sei di Ghedi, in provincia di Brescia”, NELL’ AGGUATO A FALCONE STESSO ESPLOSIVO DELLA STRAGE SUL TRENO NAPOLI – Repubblica.it » Ricerca); si tratterebbe del medesimo esplosivo impiegato per la cosiddetta ‘Strage di Natale’, l’attentato di matrice terroristico-mafiosa al treno Napoli-Milano, che saltò in aria nella gallerie degli appennini, dopo Firenze, causando 16 morti; la strage fu affibiata all’estermismo nero collegato a ambienti camorristici – fu coinvolto persino un parlamentare del MSI, tale Massimo Abbatangelo: “Carmine Esposito, “‘ o professore”, un bizzarro e chiacchierone informatore della polizia […] aveva preannunciato la strage. “Scoppierà un treno d’ argento”, anticipò. Nessuno gli credette ma, quando il treno saltò, il suo nome ritornò a galla e di Carmine Esposito anche il pio sprovveduto poliziotto di Napoli conosce amicizie e legami, sa dei suoi stretti rapporti con quei “neri” che, usciti dalla sezione missina “Berta”, confluirono negli anni Settanta nel drappello estremista di “Avanguardia nazionale” di Stefano Delle Chiaie, i collegamenti con i camorristi della Sanità, Misso e Galeota”, LA VERITA’ SU QUEL NATALE DI SANGUE – Repubblica.it » Ricerca;
    • sulla provenienza dell’esplosivo viene imbastito il primo tentativo di depistaggio evocando la tesi della pista dell’eversione nera: ‘neri’ gli attentatori del 904, ‘neri’ quelli dell’Addaura giacché Falcone stava indagando sull’omicidio del Presidente della Regione Sicialia, Piersanti Mattarella, ucciso forse per mano di Giusva Fioravanti, che venne appunto indagato;
    • l’esplosivo, verrà poi scritto, è il medesimo impiegato a Capaci e in Via D’Amelio; oggi sappiamo che è arrivato sulla scogliera non per via mare ma dalla ‘terraferma’; chi ha visto tutto, come Francesco Paolo Gaeta, è morto: “Gaeta faceva il bagno e riconobbe sugli scogli Angelo Galatolo che si dava alla fuga perché individuato dagli uomini della scorta di Falcone. Gaeta, tossicomane, era ritenuto un personaggio inaffidabile. Per questo motivo Vito Galatolo, padre di Angelo, appariva preoccupato: se a questo lo pigliano, diceva, ci consuma a tutti”, Vide l’attentato all’Addaura, ucciso – Repubblica.it); la rivelazione la fa Angelo Fontana, pentito, nipote del boss Angelo Galatolo, dell’Acquasanta, nel 2007. E’ ovvio e naturale che se Gaeta faceva il bagno, vede Galatolo sulla costa e non sul gommone. Nessuno ha chiesto a Gaeta se vi erano altri uomini intorno agli scogli quel giorno. A parlare oggi è sempre il Fontana, che rivela, “Nicola Di Trapani e Salvuccio Madonia trasportarono l’esplosivo in un borsone da sub, che venne posizionato sugli scogli, sul lato destro della villa guardando il mare, in una sorta di piattaforma, dove stavano anche altri bagnanti; gli stessi rimasero nei pressi per circa due ore” (Il tuffo con il telecomando – Ecco perché fallì l’attentato all’Addaura – Corriere.it). Angelo Galatolo era l’uomo con il telecomando, ma venne scoperto e si tuffò in mare insieme all’aggeggio che poi perse in acqua (qualcuno lo ha cercato?).
  2. Nino Agostino, morto perché sapeva.

    • I dei due poliziotti legati al Sismi in attività ‘antimafia’ non muoiono per motivi passionali; si mise in atto un vero e proprio depistaggio, forse volto a coprire il ruolo di ulteriori infiltrati all’interno delle cosche.  Per Piazza ci sono le dichiarazioni di Angelo Fontana, “Nulla so dell’omicidio Agostino —ha dichiarato il pentito Fontana ai magistrati —, mentre per quanto riguarda Piazza posso dire che lo stesso venne strangolato all’interno di un mobilificio di un mafioso di San Lorenzo” (Il tuffo con il telecomando – Ecco perché fallì l’attentato all’Addaura – Corriere.it); Vito Lo forte sostiene che Gaetano Scotto abbia avuto un ruolo nella morte di Agostino; e il pentito Oreste Pagano è praticamente l’unico che ha fornito alcune indicazioni: “Ero al matrimonio di Nicola Rizzuto, in Canada – riferì Pagano agli investigatori – c’era un rappresentante dei clan palermitani, Gaetano Scotto. Alfonso Caruana mi disse che aveva ucciso un poliziotto perché aveva scoperto i collegamenti fra le cosche ed alcuni componenti della questura. Anche la moglie sapeva, per questo morì” (http://www.antimafiaduemila.com/content/view/18494/78/). Perché il depistaggio? I due agenti ufficialmente non hanno mai collaborato con il Sismi.
    • Il depistaggio fu messo in opera da un altro poliziotto, Guido Paolilli, ‘amico’ della vittima: “La sua iscrizione nel registro degli indagati è scattata in seguito ad una conversazione intercettata a marzo nella sua casa di Montesilvano a Pescara. In quell’occasione il televisore di Paolilli era sintonizzato su Rai 1 e stava trasmettendo la testimonianza del padre di Agostino che ricordava l’esistenza di un biglietto trovato  nel portafogli di Nino: “Se mi succede qualcosa – era scritto in quel pezzo di carta – andate a cercare nell’armadio di casa”. Il figlio di Paolilli allora chiese al padre: Cosa c’era in quell’armadio? e il padre rispose: Una freca di carte che ho distrutto”, (Antimafia Duemila – Omicidio Agostino: scoperti nuovi documenti). Da chiarire i viaggi fatti da Agostino sino a Trapani: “Un parente ha raccontato ai magistrati di alcuni viaggi dell’agente a Trapani. Dove, esattamente, non si sa. In quegli anni, ricordano i pm agli atti dell’inchiesta, a Trapani operava l’ultima cellula del servizio segreto Gladio“, (Svolta sull’omicidio Agostino Indagato un poliziotto: “Depistò” – cronaca – Repubblica.it);
    • Il ‘doppio’ ruolo dei Servizi: se Paolilli “era persona di fiducia di Bruno Contrada“, dal momento che “ha testimoniato a sua difesa nel processo a suo carico” (Antimafia Duemila – Omicidio Agostino: scoperti nuovi documenti) e si ingegna per depistare le indagini su Agostino, quest’ultimo, che sventò l’attentato a Falcone, lavorava per il medesimo dipartimento? Chi o cosa Paolilli ha coperto con il depistaggio?
    • Servizi segreti incuriositi dalle attivitià dei giudici: solo lo scorso 5 Marzo 2010, la Procura di Caltanissetta ha aperto un fascicolo d’indagine “sull’intrusione di un funzionario dei Servizi Segreti, in passato assegnato alla Dia, nei locali della Direzione Investigativa Antimafia della citta’” (Antimafia Duemila – Uffici Dia nissena violati, si indaga su 007); oggi, La Repubblica, parla esplicitamente di guerra di spie, sulla linea di tensione fra apertura ai magistrati e continuo depistaggio e minaccia: “E l’intelligence (la parte investigata, sospettata) spia o cerca di spiare ogni mossa degli inquirenti. C’è una formale denuncia di “intrusione informatica” negli archivi della Dia: qualcuno, un paio di mesi fa, ha provato a introdursi nei file che contengono le indagini sulle stragi di Palermo” (Dopo 20 anni torna la guerra di spie gli 007 infedeli frenano le indagini – Repubblica.it).
    • Infine, l’uomo che costituisce il collegamento fra la mafia e i servizi: Gaetano Scotto: l’uomo che fornì il telecomando per l’Addaura, l’uomo che telefona al Castello Utveggio poco prima di via D’Amelio, l’uomo che sa della vera fine di Agostino.

Letture consigliate:

Il Mistero dell’Addaura… ma fu solo cosa Nostra? di Luca Tescaroli, editore Rubettino

Anteprima

luca tescaroli

L’arresto a orologeria di Nicchi e Fidanzati. Genchi: “i poliziotti si sono vergognati di questa montatura”.

Nel filmato che segue, pubblicato su Youtube, Gioacchino Genchi parla degli arresti di mafia avvenuti lo scorso 5 Dicembre:

Per Genchi gli arresti sarebbero parte di una messinscena: Nicchi dimorava in un appartamento vicino a Palazzo di Giustizia, un appartamento nomale, non di certo un covo come siamo abituati a pensare; Nicchi mandava i cosiddetti “pizzini” via sms, quindi se ne deduce avesse un’utenza telefonica cellulare da chissà quanto tempo, ergo era facilmente intercettabile; invece Fidanzati è un boss 73enne, certamente ancora attivo nello spaccio di droga e mandante di un pestaggio mortale contro il genero Giovanni Bucaro, reo di far soffrire la figlia del boss, ma oramai lontano da Palermo da anni. Genchi dice che i poliziotti che hanno fatto queste catture si sono “vergognati” per esser diventati parte di “uno schifo, perchè hanno organizzato una messinscena davanti alla questura, portando le persone loro, con i pullmann, per organizzare quell’apparente solidarietà alla polizia”. Genchi si riferisce alla claque che si era radunata davanti alla questura a beneficio delle telecamere (un signore portava in grembo persino un neonato).


In questo video, anche esso presente su youtube, si vede come l’assembramento di persone davanti alla questura era già in atto al momento dell’arrivo delle auto della polizia. Sembra quasi una sfilata:

si è rinnovata una consolidata tradizione della polizia di Palermo: ogni volta che un ricercato di spicco viene assicurato alla giustizia, viene aperta la finestra della stanza del dirigente della sezione ‘catturandi’ della Squadra mobile palermitana e uno scampanellio annuncia ufficialmente alla cittadinanza l’avvenuto arresto di un boss.
Altro rituale, durante il trasporto in questura le vetture con a bordo i mafiosi passano di proposito in via Notarbartolo passando per l’albero Falcone, “una forma di rispetto e omaggio nei confronti del magistrato assassinato in un agguato di stampo mafioso”. Il questore Marangoni a tal proposito ha ribadito,” passiamo da li di proposito perchè chinino la testa in segno di rispetto.

Naturalmente in questo post non si vogliono criticare le manifestazioni di giubilo (anzi, ben vengano), bensì si vuol dimostrare la falsità di alcune ricostruzioni (leggasi TG1) che hanno venduto come “spontanea” la folla che si era radunata sabato davanti alla questura di Palermo. In realtà, come si evince dal titolo stesso del video apparso su youtube, i cori erano opera di un gruppo di persone facente parte della associazione culturale Addiopizzo:

Addiopizzo è un movimento aperto, fluido, dinamico, che agisce dal basso e si fa portavoce di una “rivoluzione culturale” contro la mafia. È formato da tutte le donne e gli uomini, i ragazzi e le ragazze, i commercianti e i consumatori che si riconoscono nella frase “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità” (fonte: http://www.addiopizzo.org/chi_siamo.asp).

Ciò non toglie nulla al valore degli arresti, tuttavia alcuni dubbi permangono e debbono essere avanzati:

1) in primis, sulla presunta non rintracciabilità di questi due latitanti;

2) secondo, sulla genuinità della manifestazione di giubilo (ovvero: come funziona esattamente? chi avverte i volontari di Addiopizzo delle catture? oppure, se non vengono avvertiti, se ne stanno davanti alla questura ogni volta che arriva una volante? Sono le domande – scusate – di uno come me che non conosce questo sistema di cose).

Fidanzati fu condannato a sedici anni nell’ambito del maxiprocesso, ne ha scontati tre in Argentina, poi estradato in Italia, è rimasto in carcere fino al 2006, anno in cui è tornato libero. Insomma, è entrato nella hall of fame dei ricercati dopo esser uscito di galera. Aveva scontato tutta la pena, nel 2006. Il re del narcotraffico internazionale. Quando è uscito, l’Arenella, il suo mandamento, era di proprietà dei fratelli Lo Piccolo (poi catturati nel 2007). Ha dovuto emigrare al nord. Là ha ricominciato dove aveva lasciato. Ci sarebbe da farsi alcune domande sul fatto che questo pericoloso “latitante” non avesse nemmeno obbligo di firma.
Nicchi, invece, il boss emergente non era poi così ben visto all’interno di Cosa Nostra. Secondo un pentito, i fratelli Lo Piccolo lo volevano mettere “in orizzontale”. Era diventato in poco tempo il rappresentante unico del boss Nino Rotolo, capomandamento di Pagliarelli, la cui famiglia detta di Borgo Vecchio, era la più povera fra le famiglie mafiose del palermitano. In ogni modo, nonostante fossero stati tolti di mezzo i Lo Piccolo, Nicchi era inviso a molte famiglie mafiose. Quel che è certo è che nessuno lo ha coperto per una sua eventuale fuga prima della cattura.

    • Era caccia aperta a Giovanni Nicchi, il picciotto del Villaggio Santa Rosalia rimasto l’ ultimo baluardo dei Corleonesi di Nino Rotolo: c’ erano due persone incaricate di stanarlo e di attirarlo in trappola, perché i boss Salvatore e Sandro Lo Piccolo ne volevano la testa. A raccontarlo è il neo pentito Andrea Bonaccorso
    • Il collaboratore di giustizia, ex fidato della famiglia di Brancaccio, finito in manette il mese scorso, ha raccontato di essere stato in contatto con i Lo Piccolo sin dal 2005
    • Killer dalla mano veloce è invece Gianni Nicchi, 26 anni appena e un ruolo in Cosa nostra sancito dalle ore e ore di intercettazioni ambientali nel box di Nino Rotolo
    • a Gianni il capomandamento di Pagliarelli affidava la preparazione delle tante missioni di morte ordite nei mesi subito precedenti all’ operazione Gotha, molte delle quali mandate a monte dagli agenti della squadra mobile scesi fisicamente in strada con finti posti di blocco o altri escamotage per fermare omicidi dei quali avevano ascoltato in diretta la progettazione: come quello di Totò Di Maio, uno degli “scappati” del clan Inzerillo, rientrati in Italia con lo sta bene di Totuccio Lo Piccolo, anche lui nel mirino di Nicchi con il figlio Sandro
    • Al “figlioccio”, Nino Rotolo aveva insegnato personalmente a portare a termine una missione di morte senza correre troppi rischi: «Spara sempre due, tre colpi, non ti avvicinare assai, non c’ è bisogno di fare troppo scrusciu, un colpo per farlo cadere a terra, un altro alla testa, i guanti di lattice e il concime chimico per cancellare le tracce»
    • al giovanissimo Nicchi, con non pochi malumori, Rotolo ha affidato il ruolo di suo unico “rappresentante esterno”, autorizzato a mettere bocca nella nomina dei vertici delle altre famiglie e persino a combinare affari per loro, come ad esempio l’ imposizione del pizzo a tutte le aziende che lavorano all’ interno del porto per “risollevare” le casse della famiglia mafiosa del Borgo vecchio
    • E a Gianni, Rotolo aveva affidato anche il suo personale canale di collegamento diretto con Provenzano
  • Fu condannato a 12 anni al maxi processo alla mafia. Nel febbraio 1990, dopo tre anni di latitanza, era stato arrestato in Argentina dalla polizia locale. Venne condannato a 3 anni di reclusione per aver utilizzato documenti falsi per entrare nel Paese. Giovanni Falcone andò a interrogarlo, ma il boss si limito à sostenere di essere un perseguitato politico.

    Il capomafia fu estradato dall’Argentina il 18 aprile 1993. In Italia ha dovuto scontare 16 anni per associazione mafiosa. Dal 2006 è libero e dal 2008 è latitante, perché sfuggito all’Operazione Perseo.

    • GAETANO Fidanzati è tornato di recente ad essere ricercato per mafia. È sfuggito al blitz “Perseo” del dicembre scorso. Quella volta, ad accusarlo, non c’ erano pentiti, ma le sue stesse parole, intercettate dai carabinieri del nucleo investigativo. Dalle sue stesse parole, gli investigatori hanno appreso del rinnovato ruolo assunto dalla famiglia dell’ Arenella nel traffico di stupefacenti, soprattutto per quel che riguarda l’ importazione di cocaina da alcuni trafficanti di Milano e Genova. Le indagini hanno messo sott’ accusa anche il fratello di Gaetano, Stefano.
    • Arrestati i cinque autori del raid di martedì pomeriggio, in via don Orione, che ha portato all’ omicidio di Giovanni Bucaro. Avrebbero agito per difendere la figlia del boss dell’ Arenella, Gaetano Fidanzati, che aveva una travagliata relazione con Bucaro. Martedì l’ ultima lite. La giovane sarebbe stata picchiata. Secondo il pm Buzzolani, sarebbe stata organizzata una vera e propria spedizione punitiva contro Bucaro. Al vaglio degli inquirenti la posizione del boss.
    • LA LORO forza sono i rapporti con i trafficanti di stupefacenti. Rapporti di vecchia data ma sempre buoni ad assicurare alle casse di Cosa nostra denaro liquido necessario per il sostentamento delle famiglie dei detenuti
    • così Stefano e Gaetano Fidanzati, dalla loro cosca di appartenenza, quella di Bolognetta, erano ormai diventati pilastri del mandamento di Resuttana-San Lorenzo
    • Stefano è finito in manette, il vecchio boss Gaetano (che secondo gli inquirenti questa volta è ben lontano da Palermo) è rimasto latitante da quando, mesi fa, è stato colpito da un ordine di cattura per l’ omicidio di un uomo colpevole di aver molestato sua figlia e pestato a morte in strada sotto i suoi occhi
    • “Tanino” Fidanzati, intercettato dalle microspie dei carabinieri, a dare conferma agli inquirenti del ruolo suo e del fratello Stefano nel traffico di stupefacenti, soprattutto per quel che riguarda l’ importazione di cocaina

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Fra bombe atomiche inesplose e arresti a orologeria. Tranquilli, è fiction.

Lo sceneggiatore si è dato da fare: ha creato il pathos su una deposizione di un pentito in realtà solo co-protagonista di uno scenario in cui l’attore principale entrerà in scena, come si usa nei copioni di mafia, solo l’undici di dicembre – dichiarazioni dei fratelli Graviano al processo d’appello di Dell’Utri – di cui nessuno finora conosce la portata delle dichiarazioni, né le ragioni profonde che lo spingono a farle – mettere sotto scacco Mr b? avere indietro i soldi da Mr b?
Ha poi messo in mano al ministro dell’Interno due carte, il sapiente sceneggiatore, tenute nel cassetto per mesi, due boss, uno emergente, pericoloso e criminale, l’altro un boss sulla via del tramonto, ma dal nome altisonante. Sono Giovanni Nicchi, capomandamento di Pagliarelli, e Gaetano Fidanzati, uomo d’onore dai tempi di Buscetta, superlatitante, magari non più dentro alle trame e ai traffici di droga ma pur sempre un bel nome da sbattere in prima pagina. Eccolo confezionato, il colpo di scena. Il governo che "più ha fatto contro la mafia" vede il proprio (finto) premier accusato da un pentito che non è un infame, un delatore, e proprio nelle stesse ore il colpo della Polizia ne ingabbia altri due. E’ chiaro, il governo è minacciato dalla mafia, è un attacco che i malavitosi stanno conducendo da mesi, dai tempi dello scandalo D’Addario, ma certo, e ora ci provano con la complicità dei pm rossi e della Sinistra e dei poteri forti. Vedete che è necessaria la legge sul processo breve. Lui, Mr b, è sotto minaccia perché sta riducendo la mafia a un manipolo di sgherri. Lo ha detto il Tg1, stasera, che c’è la crisi delle cosche. Picciotti in declino, a quanto dicono.
Il copione è finito. Protagonisti Raoul Bova, Ricki Memphis, Michele Placido nei panni del boss. A Gennaio su questi teleschermi.

    • Quando la rappresentazione ha inizio, comincia anche l’attesa per il colpo di scena annunciato come «una bomba». Una bomba da disinnescare in ogni modo, tanto che il sen. Dell’Utri promette addirittura un proprio intervento diretto, dichiarazioni spontanee, nell’intento di rintuzzare Spatuzza e togliergli anche un pezzo di visibilità. Ma non risulterà necessaria, la contromossa di Dell’Utri. Non che Spatuzza si sia tirato indietro, questo no.

    • È accaduto, però, che quel nome – pronunciato anche con l’enfasi sottolineata del «signor Berlusconi» – si è quasi diluito nella genericità della trama raccontata dal pentito. Per questo, forse, uno dei legali della difesa ha avuto gioco facile nel declassare a «petardo» la deposizione di Spatuzza.

    • Dei suoi ricordi, però, oggi resta un solo punto fermo: il colloquio intrattenuto al Bar Doney, a Roma, con Giuseppe Graviano che sollecita l’ennesima strage, quella (fallita, per fortuna) dello stadio Olimpico «da fare a qualunque costo, così chi si deve muovere possa darsi una smossa»

    • «la smossa» doveva essere in direzione delle «necessità» di Cosa nostra. A muoversi dovevano essere «Berlusconi, quello del Canale 5 e il nostro paesano Dell’Utri»

    • Spatuzza non è stato molto aiutato, nello sforzo di offrire un racconto organico: troppe interruzioni, anche da un pubblico ministero esageratamente sensibile alla cura del particolare non sempre decisivo.

    • Uno come Spatuzza può raccontare nei particolari ogni fase della preparazione di un attentato, di un omicidio, ma può incontrare difficoltà nel riferire argomenti più complicati o spiegare credibilmente – come faceva Tommaso Buscetta – gli ingranaggi del pensare mafioso.

    • «Asparino», sembra aver voluto concedersi anche il ruolo di «portatore di altro», come quando si attarda a descrivere il suo «rapporto particolare» coi Graviano

    • anche i Graviano, per la verità, non sembrano nutrire sentimenti ostili contro Spatuzza. Certo non fino a far da riscontro alle sue rivelazioni, ma senza mai additarlo come bugiardo e infame

    • Proprio questo incomprensibile legame, più forte delle stesse leggi della mafia, continua ad offrire spunti di dubbi sulla natura del pentimento di Spatuzza. Se il pentito non è rinnegato dalla proprio «famiglia», vuol dire che può parlare tranquillamente, anche in nome del capofamiglia?

    • troverebbe conferma la suggestione che vuole i Graviano impegnati in una sorta di braccio di ferro col governo «inadempiente» rispetto alle aspettative di Cosa nostra

    • La Polizia ha arrestato a Palermo il superlatitante Giovanni Nicchi. Il capomafia è stato catturato in un appartamento in via dalla sezione Catturandi della Squadra Mobile. Il latitante, 28 anni, si trovava in una palazzina di tre piani in via Filippo Juvara 25

    • Il covo di Gianni Nicchi era a poche centinaia di metri dal palazzo di Giustizia di Palermo

    • Il giovane mafioso è considerato il pupillo del capomafia Nino Rotolo. Nato il 16 febbraio 1981 a Torino, Nicchi, era ricercato dal 2006 per associazione di tipo mafioso, estorsione ed altro

    • L’uomo é nell’elenco dei 30 latitanti di massima pericolosità

    • Nicchi é considerato uno degli elementi di spicco di cosa Nostra. È stato messo a capo del mandamento di Pagliarelli, su indicazione di Antonino Rotolo. Avrebbe avuto un background come killer di mafia e gestore del traffico di cocaina dall’America. Fuori da Palermo, si hanno notizie di suoi avvistamenti a Milano, città dove avrebbe interessi e appoggi, ma é praticamente scomparso dal maggio 2006

    • Nicchi farebbe parte dell’ala corleonese di Cosa Nostra incline ai metodi più efferati, e avrebbe subito l’ostilità di Salvatore Lo Piccolo che, dopo l’arresto di Bernardo Provenzano, era considerato tra i più influenti elementi di cosa nostra assieme a Matteo Messina Denaro e Domenico Mimmo Raccuglia

    • Un altro duro colpo a Cosa Nostra è stato messo a segno a Milano. Si tratta dell’arresto di Gaetano Fidanzati, uno dei boss mafiosi appartenenti alla lista dei 30 ricercati per mafia più pericolosi

    • Gaetano Fidanzati è uno dei capimafia storici palermitani. Per avere un’idea della sua posizione all’interno dell’organizzazione basta ricordare che nel ’70 un’auto venne fermata casualmente ad un posto di blocco. Dentro, con documenti falsi, c’erano, oltre a lui, Tommaso Buscetta, Salvatore Greco, Giuseppe Calderone, Gaetano Badalamenti e Gerlando Alberti, padrini che avevano e avrebbero fatto parlare a lungo di loro. Fidanzati è entrato a pieno titolo nel gotha dei trafficanti di droga mafiosi.

    • Fidanzati è ritenuto dagli investigatori uno dei più importanti boss del narcotraffico

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Spatuzza Day, le reazioni della stampa estera.

Ancora poca eco sui giornali e siti esteri: il Times titola su Amanda Knox, ma non su Spatuzza, così il NYT, mentre il The Washington Post non pare interessato alle vicende nostrane, a parte qualche cenno sull’Afghanistan e l’invio di 1000 soldati italiani.

Invece il The Guardian titola a grandi lettere, “Berlusconi colluso alla mafia in una corte di giustizia”, e parla vagamente delle dichiarazioni di oggi del pentito Spatuzza, senza un grande approfondimento, a onor del vero. Invece El Pais esce con un articolato commento sulla vicenda e titola: “Spatuzza coinvolge Berlusconi e Dell’Utri negli attentati mafiosi del 1993” e cita il passaggio chiave delle dichiarazioni del pentito, l’incontro con il boss Giuseppe Graviano al bar Doney a Roma:

Spatuzza ricorda un incontro nel 1994 con il suo capo diretto a Roma: “Ho incontrato Giuseppe al bar Doney di Via Veneto, era felice come se avesse vinto la lotteria. Ci siamo seduti e disse che dovevamo uccidere un po’ di poliziotti per dare il colpo di grazia. Quello che abbiamo ottenuto era tutto quello che volevamo. E questo grazie alla serietà di quelle persone (Berlusconi e Dell’Utri, citati poco dopo) che avevano portato avanti questa storia, e non come quei quattro socialisti cornuti che avevano preso i nostri voti nel 1988 e 1989 e poi ci hanno fatto la guerra “, ha detto.[…]

I giudici vogliono confrontare ora la credibilità della testimonianza. Il processo d’appello di Dell’Utri continua a Palermo il giorno 11 di dicembre con le dichiarazioni del teste Giuseppe e Filippo Graviano tramite video conferenza.

La Rai, invece, nonostante il clamore per la vicenda, non ha apprestato né edizioni straordinarie, né dirette dall’aula bunker. Il vero servizio pubblico oggi lo ha fatto SkyNews24. L’UsigRai, in una nota del segretario Carlo Verna, si domanda perché il CdA si ostini a tenere RaiNews24 senza risorse. Perché oggi non hanno nemmeno dedicato un pezzo di trasmissione di approfondimento. addirittura il Tg1 delle 20 mette la vicenda Spatuzza come secondo titolo, dopo l’Afghanistan e l’invio di nuove truppe (notizia di ieri).

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    • «Un evento di cronaca giudiziaria cruciale anche per la politica. La deposizione di Spatuzza, l’intervista a Dell’Utri, che lo smentisce, i commenti sulla vicenda abbiamo potuti seguirli in diretta e/o in tempo reale sui siti dei più importanti quotidiani e sulla tv a pagamento. Dove era il servizio pubblico? Ad aspettare l’ora dei tg?»
    • segretario Usigrai Carlo Verna. «Essendo l’interrogatorio dibattimentale del pentito di mafia atteso da giorni, come mai non si è pensato ad allestire uno studio con ospiti in contraddittorio e diretta sulle tre reti generaliste – chiede ancora Verna -? Perchè a Rainews24, non vengono forniti mezzi e budget adeguati per poter svolgere la propria funzione di canale all news ed essere volano per le altre testate? Può essere la rete dedicata alle notizie 24 ore su 24 solo una foglia di fico per dire che la Rai è presente su eventi come il No B day previsto domani a Roma e snobbato dalle principali reti? Da una seria risposta a queste domande dipende, con la legittimazione o meno del servizio pubblico, anche il suo stesso futuro»

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Spatuzza implica a Berlusconi y a Dell’Utri en los atentados mafiosos de 1993

Instant blogging: Spatuzza fa i nomi!

"Graviano mi disse che le persone con cui avevamo preso contatti erano persone serie e non erano come i "crasti" socialisti del 1988, che poi ci hanno fatto la guerra". Lo ha spiegato il pentito Gaspare Spatuzza riferendo dell’incontro avvenuto a Roma con il boss Graviano nel 1993. Spatuzza ha spiegato che i socialisti di cui si parlava erano 4 candidati alle politiche dell’epoca.
"Graviano mi disse che l’attentato ai carabinieri all’Olimpico doveva essere il colpo di grazia". Lo ha riferito il pentito Gaspare Spatuzza nella deposizione al processo che vede imputato Marcello Dell’Utri. "Capii che c’era un’anomalia – spiega Spatuzza – quando mi disse che la questione Contorno doveva essere messa da parte in quel momento perche’ c’erano altre priorita’"
Graviano mi fece il nome di Berlusconi, quello di canale 5, e di Dell’Utri e mi disse che grazie alla serieta’ di queste persone avevamo chiuso tutto e che avevamo il Paese nelle nostre mani". Lo ha detto Gaspare Spatuzza nella deposizione a Torino nel processo a Marcello Dell’Utri
"Giuseppe Graviano ci spiego’ che c’era in piedi qualcosa che se andava a buon fine avremmo avuto benefici tutti quanti". Lo ha detto il pentito Gaspare Spatuzza parlando al processo a Marcello dell’Utri dell’incontro con il boss Graviano che gli diede oridine a fine ’93 di uccidere un po’ di carabinieri per dare "una mossa a chi si deve muovere".
Quando avvennero la strage di Capaci e quella di via d’Amelio abbiamo gioito, ma Firenze e tutto il resto non ci appartiene". Lo ha detto il pentito Gaspare Spatuzza che ha spiegato che gli attentati del 1993 erano "un’anomalia" per Cosa Nostra.