Il 27 Maggio 1993 avvenne l’attentato di Via Dei Georgofili. Cinque furono i morti. Il giorno dopo sui giornali compaiono le dichiarazioni dei politici, del Presidente del Consiglio, Ciampi, del Presidente della Repubblica Scalfaro, del Ministro degli Interni Mancino. Il quale, in una maniera un po’ enigmatica, giunge a ipotizzare la mano della mafia dietro alla strage. Perché, incalzano i giornalisti. E lui, sibillino: “chi capisce quello che è successo qui, capisce l’Italia”.

La Stampa, 28.05.1993, prima pagina
Senza indugi, Mancino dice chiaramente, qualche ora dopo l’attentato, che si tratta dell’opera della mafia. La mafia vorrebbe sviare l’attenzione da “quanto sta accadendo a Palermo e ovunque operi la criminalità organizzata, perché la mafia è dappertutto”. Mentre invece Piero Luigi Vigna dubita di questa ricostruzione: parla di “strategia terrorizzante” più che di mafia. La strage verrà poi rivendicata dal sedicente gruppo chiamato Falange Armata. Lo stesso giorno, l’inchiesta sulla strage di Via D’Amelio fa un grosso passo in avanti: viene arrestato Pietro Scotto, il telefonista di Via D’Amelio secondo la ricostruzione fasulla della prima inchiesta dei giudici di Caltanissetta, quella realizzata con la regia occulta di Arnaldo La Barbera e forse di Giovanni Tinebra. Una coincidenza che solo oggi possiamo considerare “strana”.
Accanto alle dichiarazioni di Mancino, la Stampa pubblicò una intervista all’esponente della DC siciliana Calogero Mannino, ai tempi un pezzo forte della politica italiana, avversario della corrente andreottiana che fu di Salvo Lima. La sua e quella di Vigna erano le uniche voci discordanti rispetto alla ricostruzione ufficiale fatta dal Ministro Mancino. Il giorno dopo, Mancino già sapeva che si trattava di mafia. Oggi sappiamo della trattativa Stato-Mafia, sappiamo dell’esistenza di mandati occulti, dell’esistenza di un livello militare stragista e di un livello politico e finanziario che finora non è stato svelato. Mannino, a sua volta accusato di mafia dai pentiti e assolto solo dopo una travagliatissima battaglia giudiziaria, a quel tempo indicò prima di altri l’evidenza di una sproporzione fra le capacità di Riina e la devastazione provocata dall’esplosione in Via Dei Georgofili. Le sue parole, raccolte da un allora promettente abile cronista di nome Augusto Minzolini, acquistano oggi una valenza diversa, quasi profetica:
Mannino: ma quali boss
«Il complotto viene dall’Est Riina non ne avrebbe le capacità»
ROMA. «E adesso non mi vengano a dire che questa bomba l’ha messa la mafia di Toto Riina. Anzi, a questo punto dubito anche sulla matrice mafiosa degli omicidi di Lima, Falcone e Borsellino». Seduto su una poltrona di Montecitorio, Calogero Mannino, ex-ministro dell’Agricoltura e primo attore della DC siciliana, si lascia andare ad un serie di congetture sulla bomba di Firenze. Sarà l’emozione per quello che è avvenuto, o, il fatto, di aver tenuto in corpo per tanti mesi questo sfogo, ma Mannino parla senza pausa e dalla sua bocca, come da un fiume in piena, esce di tutto.
Lei ha davvero dubbi sul fatto che non c’entri la mafia?
«Io dietro alla bomba di Firenze vedo ben altro. E, se non sbaglio, tra le minacce ricevute all’epoca da Falcone c’era anche quella della falange armata. La verità è che gli assassinii che ci sono stati in Sicilia hanno messo in ginocchio la DC o il sistema di potere andreottiano. E non è cosa da poco conto: in Italia quello che è avvenuto può essere paragonato alla caduta del muro nei Paesi comunisti. Quindi chi l’ha fatto deve avere degli obiettivi ben più grandi di quelli della mafia. Solo che dopo aver fatto fuori i partiti di governo, nessuno si è fatto avanti per prenderne il posto».
E allora?
«Proprio per questo si possono fare solo delle ipotesi su chi muove i fili dell’intera vicenda. Può esserci in atto, ad esempio, un’utilizzazione di servizi segretti deviati, ad opera di altri Paesi. O, ancora, bisogna vedere chi si muove dietro alla Serbia. Ed ancora, si dice che in Russia i comunisti si stanno riorganizzando e la stessa cosa sta facendo l’esercito. Infine bisogna fare un discorso un po’ più complesso sulla mafia…».
Si spieghi.
«Ma lei crede davvero che un personaggio come Toto Riina possa stare dietro a tutto questo? Suvvia, al massimo quello può fare ridere o, come succede a me, può far girare le scatole. La verità, secondo me, è che esiste un apparato militare molto efficiente e, poi, una mente politico-finanziaria, che non si trova certo in Italia. E questi due livelli si incontrano raramente: o meglio, nei momenti importanti la mente finanziaria ordina all’apparato militare quello che deve fare».
Ma lei crede davvero a queste sue ipotesi, non le paiono un po’ azzardate?
«Senta, le faccio una domanda: perché Giuliano i carabinieri lo hanno trovato morto, mentre Riina è stato trovato vivo? La verità è che Riina si è sganciato. Fatto il lavoro che gli era stato commissionato si è sganciato».
Ma quale interesse potrebbe avere quell’«entità» che, secondo lei, starebbe dietro a tutto questo?
«Non vogliono avere a che fare con un governo degno di questo nome. Quello attuale è come se non ci fosse. Sono passate due settimane e vedete, non esiste. E non avere a che fare con un governo significa tante cose: ad esempio da la possibilità di comprare i beni dello Stato a pochi soldi. E se, poi, si arrivasse a provocare una divisione dell’Italia in due, qualcuno potrebbe ricavarne altri vantaggi. Potrebbe, ad esempio, disporre senza problemi, di basi militari dell’Italia meridionale di grande importanza strategica, come Fontanarossa e Comiso. Sì, potrebbe usarle come vuole, a proprio piacimento, senza rischiare incidenti diplomatici con il governo italiano come è avvenuto a Sigonella. Le mie, comunque, sono solo ipotesi che partono, però, da una convinzione».
Quale?
«Tutto quello che sta avvenendo pone una questione: qualcuno insidia la nostra sovranità nazionale».
Secondo lei siamo a questo punto?
«Ci siamo e nessuno se ne rende conto. Ad esempio, i giudici hanno fatto il loro lavoro, diciamo che la loro è stata un’operazione chirurgica, ma adesso dovrebbero lasciare di nuovo il posto alla politica. E lo stesso problema dovrebbero porsi anche i pidiessini, insieme a noi devono porsi il problema di salvare il Paese. Fatto questo potrebbero governare loro».
Ma senta non è che le sue supposizioni nascono solo dalla voglia di far dimenticare quello che è avvenuto in questi mesi? Insomma, un tentativo di azzerare il tutto nel nome dell’emergenza?
«Non scherziamo. Io la politica la lascio. Guardi io ho già fatto un patto con mia moglie: io lascio, ma lei deve accettare di lasciare la Sicilia. Io non posso rimanere lì, perché so quello che ho fatto contro la mafia. Voglio andarmene, non all’estero, magari a Roma».
[Augusto Minzolini]
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