Rossella Urru, chi è Mujao che l’ha rapita

Hanno chiesto un riscatto di 30 milioni per liberare Rossella Urru e Ainhoa Fernández, rapite in Algeria diversi mesi or sono. Si chiamano Mujao, Movimento per l’unicità e la jihad in Africa Occidentale (Tawhid Wal Jihad fi Jamat Garbi) e una certa vulgata giornalistica li definisce come dissidenti di Al Qaeda. In realtà si tratta di un gruppo estremista che è legato a AQMI, Al Qaeda nel Maghreb Islamico; hanno partecipato alla recente presa della città di Gao, durante l’insurrezione Tuareg.

Hanno un portavoce che si chiama Adnan Abu Walid Sahraoui. E’ lui ad esser stato contattato dalla agenzie France Presse (AFP) per il rilascio di queste dichiarazioni. In realtà Mujao cerca di far pervenire la propria voce già da un mese a questa parte. Lo scorso 9 Aprile arrivò una richiesta simile, ma ora Mujao può muoversi con maggior destrezza nel ricatto, avendo catturato il console algerino a Gao. Pensano anche di realizzare attacchi contro l’Algeria, come a Tamanrasset, un colpo eseguito da due giovani. I negoziati con Algeri sono falliti la settimana scorsa. Mujao chiedeva 15 milioni e i rappresentanti del governo hanno risposto con il rifiuto.

Le autorità algerine contano sull’appoggio di Iyad Ag Ghaly, il leader di Ansar Edine, altra formazione salafita jihadista che opera però in Timbuctu. “Abbiamo un accordo con i nostri fratelli in Ansar Edine”, aveva detto un membro del Mujao solo qualche giorno fa, quando si parlava della liberazione degli ostaggi algerini. Ciò conferma che il gruppo ribelle islamico Ansar Edine ha assunto in sé la questione della liberazione dei diplomatici algerini. In Bamako, una fonte della sicurezza del Mali ha confermato l’esistenza di trattative tra il gruppo di Iyad Ag Ghaly e Mujao. Iyad Ag Ghaly è considerato un moderato. E’ un uomo di guerra, ma con lui si può trattare, si può fare la pace.

Intanto la Mauritania chiude la frontiera con il Mali secessionista, l’Azawad. Lo spettro di una crisi umanitaria si fa sempre più pesante.

Timbuctu divisa fra Qaedisti e Tuareg aspetta le bombe francesi

Così la caduta di Timbuctu nelle mani dei ribelli Tuareg ha determinato una fuga dalla città. L’esercito ufficiale maliano è in rotta, ha lasciato l’area senza combattere, appena qualche sparo, qualche elicottero in volo, nulla di più. Il golpe militare che ha agitato la capitale Bamako la scorsa settimana non ha inciso in alcun modo nel confronto bellico con i Tuareg del MNLA. Bamako è in preda ad uno stato confusionale. Reclama aiuto internazionale, ma nessun paese risponde.

Così la città è stata divisa. Il centro è occupato dal gruppo salafista di Ansar Edine. Voci parlano anche di membri del AQMI, Al Qaeda del Maghreb Islamico, i rapitori di Rossella Urru, insediatesi in alcuni quartieri della città. La parte esterna sarebbe controllata dai Tuareg. Oggi dovrebbe verificarsi l’incontro fra Mohamed Ag, Capo di Stato Maggiore nel Movimento Nazionale per la Liberazione della Azawad,e Iyad Ghali, il leader di Ansar Edine. Dovrebbero discutere delle modalità con cui dichiarare l’indipendenza dell’Azawad dal Mali.

Timbuctu si estende in forma di ferro di cavallo; è adiacente al fiume Niger e piega verso nord, nel Sahara. I suoi centri vitali sono distribuiti tra la regione meridionale e il centro della città, i quartieri con alta densità di popolazione si concentrano nel nord della città. Il MNLA è di stanza nella regione meridionale della città, oltre che nei valichi Cabara, e controlla il fiume, l’aeroporto e la zona che porta verso Bamako. Ansar Edine occupa come detto la zona centrale della città, e quindi i suoi punti vitali. La città aspetta ma è chiaro che i due gruppi si scrutano e si osservano. Non è escluso che, se l’incontro di oggi avrà un esito negativo, inizino a bombardarsi a vicenda.

E la Francia che fa? Può permettere che il Mali, sua ex colonia, venga diviso e spartito fra Tuareg e gruppi assimilabili ad Al Qaeda? Chi vive a Timbuctu pensa di no e si aspetta le bombe di Sarkozy (o di Hollande?). Il MNLA nega qualunque correlazione con Ansar Edine. Lo fa con un comunicato sul proprio sito nel quale stigmatizza gli organi di informazione del Mali e internazionale, in particolar modo France Presse, colpevole di essere l’autrice di un’opera di disinformazione globale volta a rappresentare il MNLA come un movimento di ex mercenari di Gheddafi e ora di fondamentalisti qaedisti.

Dei rapiti italiani e spagnoli nessuna notizia.

 

Berlusconi alla guerra totale contro i giudici: il rischio Egitto è più vicino

Fate bene a pensare che allo squallore della politica di questi giorni non ci sia fine. Perché è vero. E lo squallore prima o poi porterà questo paese a situazioni estreme che ora quasi tutti deprechiamo. La rivoluzione dei Gelsomini dal Maghreb si sta facendo sentire fino in Cina. Dovunque, nel mondo, i popoli scontenti dei propri governi scendono in piazza, disposti a tutto affiché le cose cambino. C’è una domanda di democrazia e partecipazione repressa che torna come un rigurgito di violenza. Giovani, nelle strade, vanno incontro alla morte lasciandosi sparare da agenti di polizia e gendarmi fedeli ai regimi. Di fronte al dispotismo è giusto resistere. E’ la rivoluzione, e la rivoluzione spara. Cosa succederebbe in Egitto se El Baradei scaricasse sui manifestanti tutti le colpe degli inevitabili gesti violenti della piazza? Cosa acccadrebbe all’opposizione iraniana se Karroubi o Mussavi si dissociassero dalla piazza come l’opposizione italiana ha fatto il giorno dopo il 14 dicembre 2010?

Il Financial Times, in un articolo dello scorso 13 febbraio, ha accostato l’Italia ai paesi del Maghreb. Un’equazione molto semplice cheè stata evocata da più parti: Silvio come Mubarak, Silvio come Ben alì; come Gheddafi. I rapporti di interesse che legano Berlusconi ai tre matusalemme del Mediterraneo sono soltanto un aspetto di questa similitudine. In Italia, scrive il Ft, le elezioni promettono sempre di cambiare la politica, poi lasciano tutto così com’è. Esiste, in misura del tutto analoga all’Egitto, alla Libia, alla Tunisia e all’Algeria, una mancanza di rinnovamento della classe dirigente. La classe politica si è trasformata in casta. E’ stato detto ripetutamente, in questi anni.

There is a European country that has many characteristics of the Arab world: a sclerotic economy, a culture worn down by corruption and organised crime, and a growing clash of generations. It is controlled by a gerontocratic ruling class entrenched in politics and business to the exclusion of its youth. Its best and brightest young people roam Europe as economic migrants.

That country is Italy. It is a democracy, so the ageing consistory that runs the country should be replaceable. Yet it never is: the more elections Italy has, the less seems to change. No wonder even the Borghese are taking to the streets. A million women marched last Sunday to protest the antics of Silvio Berlusconi, the increasingly ridiculous prime minister. He was indicted this week on charges of paying for sex with an underage girl and abuse of office. He denies wrongdoing (Financial Times).

I recenti scandali sessuali sembrano aver messo a dura prova la resistenza di B. Eppure il tempo gioca a suo favore. E la strategia di B. non è mai stata così chiara. La soluzione finale si articola in tre mosse:

  1. la riforma della giustizia: Alfano ha il compito di riprendere in mano il destino della legge sulle intercettazioni nonché il Processo Breve; le eventuali altre riforme di natura costituzionale saranno affrontate successivamente; ciò che serve ora è una clava da agitare contro i magistrati, magari anche presenziando a qualche udienza;
  2. il fronte mediatico: è di oggi l’affondo dei giornali e dei telegiornali di marca berlusconiana contro la Procura di Milano, rea di non aver aperto fascicoli contro Cristiano Ronaldo, uno dei presunti clienti di Ruby, ergo di essersi accanita contro Berlusconi non essendo egli il solo utilizzatore finale della minorenne; inoltre, fedeli al motto che “scandalo scaccia scandalo”, Libero e Il Giornale si sono fiondati sul caso affittopoli del Pio Albergo Trivulzio, la Baggina, enfatizzando non poco il caso Pisapia, la cui compagna vive in una casa del Pat dal 1989, ben prima di conoscere lo stesso Pisapia; Libero e Il Giornale hanno mostrato una ferocia senza eguali nella pressante richiesta della lista coi nomi degli affittuari privilegiati del Pat, per poi sbattere in prima pagina persone rispettabilissime come Carla Fracci;
  3. il regolamento di conti con Fini: qualora la maggioranza decidesse sul caso Ruby per il conflitto di attribuzione da  sollevarsi dinanzi alla Corte Costituzionale, è prassi che l’ufficio di presidenza della Camera possa esprimersi sulla decisione medesima con un voto. Non c’è nessuna norma del regolamento della Camera che lo preveda, ma così sempre si è fatto. L’obiettivo di B. è lasciare Fini senza truppe nel Parlamento. Una volta solo, avrà meno forza per poter votare contro l’aula. In questo senso è da intendersi l’attacco sferrato dagli ex An contro Il Secolo d’Italia. Martedì il cda del giornale, oramai conquistato dai berluscones, potrebbe decidere la sorte di Claudia Perina, o piuttosto di ridurre il budget mettendo a pregiudizio la stessa realizzazione del quotidiano. E’ chiaro che il principale ostacolo alle leggi ad personam richieste da B. ad Alfano in settimana, ovvero FLI, naviga in brutte acque. Proprio i finiani sono stati l’argine contro la Legge Bavaglio e il Processo Breve; tolti di mezzo una volta per tutte i vari Bocchino e Granata, Briguglio e Bongiorno, B. avrà carta bianca: una maggioranza genuflessa, di pavidi . Anche il più intransigente degli esuli (Guzzanti) è tornato alla casa del Padre: e quota 325 è sempre più vicina.

Dinanzi a questo quadro desolante, in cui le opposizioni sono messe all’angolo, in cui emerge sempre più chiara una stategia che da difensiva si è fatta eversiva, il “rischio Egitto” paventato dal Financial Times si fa concreto. Se nei prossimi mesi Berlusconi riuscirà ancora a sottrarsi al giudizio, se il suo progetto di annichilimento del potere giudiziario andrà in porto, quale piazza manifesterà ancora pacificamente?

Maghreb, in crisi il potere dei vecchi

Catena Umana degli Studenti davanti ai musei egizi

A cercare delle analogie fra le rivolte di Algeria, Tunisia ed Egitto ci si imbatte invece in una marea di differenze. E se volessimo estendere il campo d’analisi all’altra sponda del Mediterraneo, a Grecia, Albania, Spagna, Portogallo e Italia, dovremmo intensificare il nostro sforzo di immaginazione.

Cominciamo dall’Algeria: il paese non è certo nel gorgo della crisi del debito, tanto più che negli scorsi anni il governo, capeggiato dall’anziano Bouteflika, ha risanato i conti grazie all’aumento dei prezzi degli idrocarburi – l’Algeria è ottava nel mondo come produttrice di petrolio ed esporta gas verso l’Europa, soprattutto verso l’Italia. Eppure, ad inizio anno i prezzi degli alimentari sono cresciuti del 20%. Ed è esplosa la rivolta. Fra l’altro l’algeria è reduce da una sanguinosissima guerra civile, svoltasi nell’indifferenza europea durante gli anni novanta, per la quale Bouteflika si è sempre presentato come pacificatore e “salvatore della Patria”. I disordini dei giorni scorsi non sono attribuibili all’opposizione interna: il FIS, il Fronte Nazionale di Salute, formazione islamica, è stato messo al bando. La rivolta è dovuta alla fame, alla disperazione dei giovani, i più senza lavoro e senza alcuna prospettiva di averlo. L’emigrazione non funziona più come valvola di sfogo, i disperati sono diventati massa ed è difficile che un popolo intero emigri.

Diverso il discorso per la Tunisia, laddove la crisi non ha sfiorato la pur debole economia legata al turismo, al commercio, all’industria chimica e di trasformazione delle materie petrolifere (importate dall’Algeria). Il regime di Ben alì, uno dei più longevi – durava infatti da 24 anni – ha garantito un sostanziale benessere a scapito delle libertà civili e politiche. Se ne deduce che la rivolta è in questo caso legata alla impermeabilità del sistema politico verso la società. Mentre in Algeria è l’incapacità di fornire risposte alla crisi la causa scatenante della rabbia popolare, in Tunisia è la censura e la repressione politica. Ma anche in questo caso è una rivolta di giovani contro un regime di vecchi: giovani senza futuro contro una gerontocrazia abbarbicata al potere. Ben Alì ha pensato bene di mettere in salvo sé stesso e la famiglia. Ha intuito che gli uomini dello Stato, polizia ed esercito in primis, non erano disposti a seguirlo sino in fondo nella difesa del privilegio di casta.

La stessa cosa la starà pensando Mubarak, in queste ore rifugiato a Sharm El Sheik consapevole che l’esercito non è con lui e il popolo vuole la sua testa. L’Egitto forse riassume in sé entrambe le peculiarità degli altri due paesi: la repressione politica e la fame. In più su di esso convergono le attenzioni degli USA e di Israele per questioni di equilibri geopolitici: fra l’altro in Egitto esiste un pulviscolo di formazioni islamiche dedite alla lotta armata che potrebbero far scivolare il paese veros una forma di stato di tipo confessionale, alla stregua dell’Iran. In queste ore appare sempre più evidente il lavoro degli USa per condizionare la transizione: l’oganizzazione islamica storica, i Fratelli Musulmani, fondata nel 1928, propende per un governo guidato dal El Baradei. Costituire un governo con i Fratelli Musulmani significa – per gli USA – sottrarre il paese all’estremismo alquaedista. Qualcuno sussurra che si tratti di una strategia studiata da tempo. Addirittura si sostiene che la rivolta sia stata suggerita da Washington al fine di agevolare la transizione di un leader oramai ottanduenne:

Un documento diplomatico segreto pubblicato da Wikileaks rivela che gli Stati Uniti, pur appoggiando in Egitto il governo  di Mubarak, da almeno tre anni sostengono segretamente alcuni dei dissidenti che sarebbero dietro la rivolta di piazza di questi giorni. Secondo il dispaccio, la decisione farebbe parte di un piano per favorire un “cambio di regime” in senso democratico al Cairo, nel 2011. Dal 2008, gli Usa lavorerebbero quindi in segreto alla deposizione del presidente egiziano (La Repubblica.it).

Che la rivolta in Egitto sia pilotata o meno, anche in questo caso si ripete il medesimo schema: giovani contro vecchi. Giovani senza futuro contro anziani presidenti inamovibili da decenni. non saprei dire se gli USA abbiamo preconizzato anche questo. Ma l’impegno politico dei giovani nei sovvertimenti di regime è un elemento costante che si ripropone sempre: così è accaduto anche nella Germania Est contro l’anziano Honecker; così in Serbia con Milosevic.

Di questo terzetto manca solo la Libia e il suo caudillo Gheddafi, classe 1942: qualcuno ha parlato di effetto domino. E del Mediterraneo come della cassa di risonanza dell’onda di rivolta del Maghreb. Un’onda anomala che potrebbe investire anche l’Italia, governata da tal Silvio Berlusconi, classe 1936.