Dopo il Porcellum la tentazione perversa del proporzionale puro

Le motivazione della sentenza della Corte Costituzionale hanno posto definitivamente la parola fine alla vita della legge elettorale Calderoli, nota al mondo come Porcellum. Ma se pensate che sia tutto risolto, vi sbagliate di grosso. La sentenza è giocoforza emendativa essendo la legge elettorale “costituzionalmente necessaria”, come ribadito in diverse sentenze e in ultimo nella suddetta n. 1/2014. Il Consultum, come è stato ribattezzato il rottame di legge elettorale rimasto, è un proporzionale corretto con soglia di sbarramento al 4% per le liste, al 10% per le coalizioni e voto di preferenza. Un ritorno al futuro della prima Repubblica e della preminenza della rappresentatività sulla governabilità con gli effetti che sappiamo in termini di potere dei partiti. Se le urne non sono in grado di esprimere un vincitore in grado di governare, allora il sistema parlamentare corregge il voto con la mediazione in aula. Saranno i capi partito a cercare un accordo politico fra forze diverse e finanche in opposizione fra di loro al fine di governare. Tutto ciò ha effetto altrettanto distorsivo di un premio di maggioranza, che sarà deprecabile, ma almeno favorisce la coalizione uscita maggioritaria dal voto popolare.

Con questo non si intende difendere i meccanismi premiali del Porcellum. Essi sono stati dichiarati incostituzionali dalla Consulta sulla base di due ordini di ragioni: 1) lo strumento del premio di maggioranza alla Camera era sproporzionato e comprimeva oltre il limite il principio costituzionale della eguaglianza del voto (art. 48 Cost., secondo comma) nonché della rappresentanza (art. 67 Cost.) il premio di maggioranza al Senato era ancorché irrazionale, ovvero contro la ratio stessa della norma poiché in grado di creare maggioranze differenti rispetto all’altra Camera e quindi di vanificare la governabilità dell’istituzione. Ma una legge elettorale che non fosse in grado, stante alla frammentazione del quadro partitico italiano, di operare una sintesi e quindi di favorire una chiara governabilità frutto della rappresentanza, non sarebbe certo migliore del Porcellum. Per tale ragione, chi in queste ore sta sostenendo la possibilità di andare alle urne con il Consultum, è da ritenersi al limite della follia. Poiché non ha in vista il bene del paese, a cui antepone evidentemente un mero calcolo di convenienza per sé o per il proprio gruppo.

Non è vero quindi che la Consulta, bocciando il premio di maggioranza del Porcellum, abbia altresì invalidato qualsiasi altro accorgimento correttivo nel senso della governabilità. Tuttavia, anche questi strumenti devono essere limitati per non comprimere altri principi costituzionali. Qualsiasi strumento di correzione e di sintesi non è in grado di produrre un sistema partitico diverso dall’attuale. In alcune ricostruzioni, per esempio in quella di Aldo Giannulli sul blog di Grillo, si fa passare l’idea che sia la legge elettorale a produrre il sistema partitico, per cui il maggioritario tenderebbe a favorire il bipartitismo mentre il proporzionale sarebbe più flessibile e “aperto alla società civile”. Nella realtà non è così: in Italia, la legge Mattarella – maggioritaria con correzione proporzionale alla Camera, maggioritaria al Senato – non è mai effettivamente stata in grado di semplificare il quadro partitico. Ha prodotto un indebolimento dei partiti a favore di personalità politiche, ma ha anche reso evidenti le relative responsabilità di governo e l’elettore ha avuto possibilità di capire chi fosse il parlamentare che lo ha rappresentato. Però i partiti sono sopravvissuti alla Mattarella. Si sono uniti in coalizioni politiche deboli che, alla prova del governo, hanno segnato il passo, specie dinanzi alla radicalità delle posizioni nel periodo duro del berlusconismo. D’altro canto, non è vero che il sistema proporzionale è più flessibile del maggioritario: la flessibilità del quadro partitico è determinata storicamente, non per via elettorale. Per i lunghi anni della prima Repubblica, il proporzionale non è mai stato in grado di bucare lo schema di governo della Democrazia Cristiana. La ragione è nota ed era legata anche a fattori esogeni (la contrapposizione fra i blocchi, la guerra fredda). Se un sistema politico è bloccato, la legge elettorale può fare ben poco. Le due grandi cesure elettorali, in Italia, sono avvenute con le politiche del 1992 e del… 2013. Nel ’92 si rompe lo schema del pentapartito; nel 2013 il bipolarismo debole orientato sull’asse berlusconismo – antiberlusconismo. In questi due cambiamenti, la legge elettorale ha operato in senso conservativo, limitando l’erosione di voti dai partiti prevalenti.

Certamente il maggioritario puro ha effetti distorsivi nei confronti della rappresentanza. Ma è possibile operare correzioni con il doppio turno di collegio. Il doppio turno consente l’accesso dei partiti di minoranza (non tutti, quelli più rilevanti e omogenei geograficamente) nell’istituzione. Esiste inoltre il cosiddetto ‘diritto di tribuna’ (nella proposta di Matteo Renzi è pari addirittura al 10%) per disporre comunque un certo numero di seggi alla necessità di rendere l’istituzione effettivamente rappresentativa del voto. In ogni caso, la nuova legge elettorale non dovrà sacrificare la governabilità per garantire una rappresentanza pura ma sterile. Né essere frutto del calcolo o dell’opportunismo di taluni, o piuttosto di volontà punitive nei confronti del partitismo. Dovrà – questo sì – garantire un giusto bilancio fra i diversi principi costituzionali.

Il caso della mozione Giachetti

Intempestiva. Così Anna Finocchiaro ha etichettato la mozione Giachetti (potete leggerla qui, è un mero atto di indirizzo che vincola la Camera, non il governo) che pure era nota da settimane, oggi è diventata dirimente per la prosecuzione dell’esperienza di governo con il Pdl. Sarà l’effetto incoraggiante della “rivincita” di Bersani avvenuta nelle urne domenica e lunedì? Ai posteri l’ardua sentenza. A me, mero osservatore, è parso che le cariatidi del PD, categoria che a sua volta quasi certamente comprende i misteriosi 101, intendono spostare in là nel tempo, e con la soluzione blindatissima delle primarie fra soli iscritti, il congresso e la risoluzione del grande equivoco che ci perseguita dal 24-25 Febbraio. Per resistere, indomiti, e condizionare le dinamiche parlamentari al fine di prolungare la vita amara del governo Letta.

E’ bene ribadire che non vi è stata alcuna rivincita, che il PD è stato salvato localmente solo dalla bontà dei suoi candidati sindaco, che l’astensionismo ha falcidiato maggiormente i partiti liquidi e i movimenti liquidissimi. Detto ciò, l’accordo di ieri sul cronoprogramma delle riforme istituzionali ha palesato ancor di più la dipendenza di Letta dai desiderata di Berlusconi, Brunetta e soci, i quali hanno nuovamente operato per posticipare nel tempo, e forse stralciare, la riforma della legge elettorale. Qualcosa che abbiamo già sperimentato un anno fa, durante il governo dei tecnici. Sappiamo tutti come è andata. Lo sa anche Roberto Giachetti, il quale è andato ostinatamente per la sua strada, perdendo alcuni sostenitori, fra cui Civati (che dapprima ha appoggiato una risoluzione dubitativa sull’accordo di ieri circa la costituzione della Commissione dei 40, poi, consapevole dalla presa di posizione di Letta – ritirate la mozione! – ha votato conformemente alle indicazioni del gruppo). Ma bisogna sottolineare che il voto di oggi era abbastanza insignificante. Un atto di indirizzo verso l’aula, che il PD ha deciso di osteggiare. E senza il voto dei democratici, alla Camera non passa nulla.

Va da sè che stupiscono le impennate della Finocchiaro e l’inconsapevolezza di Epifani. Oramai si rasenta l’ipocrisia. Il vertice del Partito è ancor più indisponente e quella piccola vittoria di domenica, vittoria che si sono frettolosamente intestati (ricordate che Ignazio Marino aveva contro il partito, che lo voleva persino sostituire, tre settimane prima del voto), li ha ancor più ringalluzziti.

E stupisce pure il ritardo con cui il Movimento 5 Stelle si è allineato alla mozione Giachetti. Non sono riusciti a incidere in un dibattito parlamentare che per un giorno si è trasferito tutto all’interno di uno stesso partito.

Referendum elettorale, le colossali sviste nell’editoriale di Panebianco

Ho letto l’editoriale di stamane di Panebianco sul Corriere, intitolato ‘Un Referendum, due tesi errate’. Pensavo di trovarci una analisi lucida di quanto si rischia mercoledì sui quesiti del referendum contro il Porcellum. Invece è un articolo deludente. Se non fosse che è realmente pubblicato sul Corsera a firma Panebianco, l’avrei creduto un fake, un tarocco. Invece.

Coloro che temono il referendum, e pertanto si augurano che la Corte dichiari la non ammissibilità del quesito, hanno messo in circolazione due argomenti di cui è facile constatare la fragilità.

Il primo è quello secondo cui, se la Corte si pronunciasse per l’ammissibilità e gli italiani votassero l’abrogazione della legge elettorale in vigore, ne verrebbe fuori un vuoto legislativo, ci troveremmo senza legge elettorale. È falso. Sarebbe come dire che se nel 1974 gli avversari del divorzio avessero vinto il referendum abrogativo, non avremmo più avuto un matrimonio regolato per legge, ci saremmo ritrovati nella Repubblica del libero amore. Naturalmente no (per fortuna o per sfortuna). Se fosse stata cancellata la legge istitutiva del divorzio ne sarebbe automaticamente seguito il ripristino della legge precedente. Punto e basta. E così accadrebbe anche se gli italiani scegliessero di abrogare l’attuale legge elettorale (G. Panebianco, Corriere della Sera del 08.01.12, prima pagina).

Analizziamo il teorema argomentativo di Panebianco:

  • ci sono dei nemici del referendum (è vero, lo sono praticamente tutti i partiti politici);
  • questi signori avrebbero messo in circolazione due argomenti che propendono per l’inammissibilità dei quesiti.

Il primo argomento: la vacatio legis. Dice Panebianco che questo è un argomento falso. La spiegazione? Cita l’esempio del referendum sul divorzio. Dice il celebre editorialista, se nel ’74 avesse vinto il sì ci saremmo ritrovati senzauna legge che regolasse il matrimonio. A me sembra che Panebianco non abbia studiato. Avesse letto almeno Wikipedia:

Il Referendum abrogativo del 1974, meglio conosciuto come Referendum sul divorzio, si svolse nei giorni 12 e 13 maggio 1974, quando gli italiani furono chiamati a decidere se abrogare o meno la legge 1 dicembre 1970, n. 898 – “Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio” (la cosiddetta legge Fortuna-Baslini, dal nome dei due promotori Loris Fortuna e Antonio Baslini), con la quale era stato introdotto in Italia l’istituto del divorzio (Wikpedia alla voce Referendum abrogativo sul divorzio).

Il referendum del ’74 abrogava la legge sul divorzio, quindi se avesse avuto effetto, avrebbe abrogato quella legge e non la parte di normativa che regola il matrimonio. Questa è una grossa svista. Grossissima. Poi c’è un altro aspetto. Panebianco vi dice che queste voci – voci! – sono state messe in giro dai nemici del referendum. In realtà il divieto di vacatio legis in materia elettorale è stato definito dalla medesima Corte Costituzionale, come più volte detto, nella sentenza n. 29 del 1987: un “organo, a composizione elettiva formalmente richiesta dalla Costituzione, non può essere privato, neppure temporaneamente, del complesso delle norme elettorali contenute nella propria legge di attuazione” (cit.).

Panebianco nemmeno ci prova a prendere in esame la questione della reviviscenza. Il bello di questo referendum è che abroga una legge (Porcellum) che abroga un’altra legge (Mattarellum). E’ possibile quindi che la precedente legge abrogata torni a rivivere, o a ‘ri-espandersi’? Panebianco gira a largo da un quesito così complesso che forse metterà in crisi la Consulta. Infatti neanche lo menziona. Ma in realtà un referendum abrogativo non ha la stessa portata di una norma di legge che abroga una legge vigente. Tutto ciò per una serie di ragioni, che sicuramente la Consulta prenderà in esame, fra cui:

  • Non è possibile nel referendum abrogativo individuare alcuna altra volontà se non quella di delimitare l’efficacia di una norma (il Porcellum);
  • Un quesito che voglia al tempo stesso abrogare il Porcellum e ripristinare il Mattarellum è a rischio di eterogeneità – ovvero l’elettore si troverebbe a esprimere, con un solo voto, due volontà, e già solo questo aspetto dovrebbe esasere considerato dalla Corte come invalidante;
  • Il Mattarellum non è ‘normativa di risulta’ (quel che resta dopo le abrogazioni referendarie) bensì è normativa abrogata;
  • E’ necessario un atto esplicito per la riqualificazione della normativa abrogata – per esempio, non è sufficiente per il legislatore ridare effettività ad una norma abrogando la successiva norma che la abroga, deve scrivere un articolo in cui specifica la propria volontà di rivalidare quanto precedentemente abrogato, facoltà negata in caso di referendum.

Non vi ho parlato del secondo argomento degli anti-referendari: la destabilizzazione del quadro politico. Concordo con Panebianco sul fatto che la Corte non invaliderà i due quesiti per una questione di opportunità politica. Lui la mette in termini economici – la durata di Monti la detta il mercato. Io vi dico che invece ciò che guiderà la Corte in questo giudizio è solo la volontà di mantenere l’armonia del quadro normativo costituzionale.

Detto ciò, come si fa a scrivere un articolo del genere?

Tutti i dubbi sull’ammissibilità dei referendum elettorali.

Il referendum abrogativo del Porcellum è inammissibile. A che servono le firme?

La teoria bersaniana del referendum abrogativo del Porcellum come di “una pistola sul tavolo” rischia di essere la bufala del secolo. Fallito il tentativo di Passigli, che tendeva ad abrogare le norme del Porcellum contenenti il cosiddetto abnorme ‘premio di maggioranza’ e quindi a ripristinare un proporzionale puro con le indicazioni di preferenza, il PD ha sposato non senza tentennamenti i quesiti abrogativi – in toto e parziali – di Arturo Parisi. Peccato che la giurisprudenza costituzionale in merito implichi l’inammissibilità di quei quesiti referendari sulle leggi elettorali poiché è inammissibile la vacatio legis in materia elettorale. Lo spiega bene Cesare Salvi su Il Riformista di qualche giorno fa. Articolo che vi ripropongo qui di seguito. Una domanda, però, vorrei rivolgere a Bersani e ai “nostalgici” del Mattarellum: a che servono le firme?

Per qualche approfondimento: Sentenza corte costituzionale n. 47/1991

Il Riformista 09-09-2011

 L’inammissibilità dei referendum elettorali

di Cesare Salvi

La serietà nell’iniziativa politica, in un momento nel quale purtroppo cresce la sfiducia dei cittadini nei confronti dei partiti, è più che mai necessaria. Vorrei quindi sottoporre ai sostenitori del referendum, che dicono di voler abrogare l’attuale legge elettorale per sostituirla con la precedente legge Mattarella, se hanno riflettuto sulle conseguenze che si determineranno tra i cittadini, chiamati in questi giorni a firmare, quando la Corte Costituzionale dichiarerà inammissibili i quesiti.

Allo stato attuale della giurisprudenza della Consulta, questo esito negativo sarà infatti inevitabile.

Fin dalla sua prima sentenza (29/1987), che riguardava la legge elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura, la Corte Costituzionale affermò che «l’organo, a composizione elettiva formalmente richiesta dalla Costituzione, non può essere privato, neppure temporaneamente, del complesso delle norme elettorali contenute nella propria legge di attuazione. Tali norme elettorali potranno essere abrogate nel loro insieme esclusivamente per sostituzione con una nuova disciplina, compito che solo il legislatore rappresentativo è in grado di svolgere».

Questo principio è ribadito da tutta la giurisprudenza successiva.

Il primo dei due quesiti sottoposto in questi giorni alle firme dei cittadini, che prevede l’abrogazione in toto della legge Calderoli, dunque palesemente inammissibile. Né si può sostenere, come pure ho avuto purtroppo occasione di leggere, che l’abrogazione dell’attuale legge fa rivivere quella precedente. Come dovrebbe essere noto, «la natura del referendum abrogativo nel nostro sistema costituzionale è quello di atto-fonte dell’ ordinamento dello stesso rango della legge ordinaria». E, come si insegna al primo anno di giurisprudenza, «l’abrogazione di una norma, che a sua volta aveva abrogato una norma precedente, non fa rivivere quest’ultima» (cito dal noto manuale che adotto per i miei studenti, il Torrente-Schlesinger).

Naturalmente, se uno studente rispondesse all’esame sostenendo il contrario, sarebbe subito bocciato.

Probabilmente non ignari di ciò, i promotori hanno proposto anche un secondo quesito, che abroga solo parzialmente la Legge Calderoli. La Corte costituzionale ha affermato, infatti, che il referendum in materia elettorale è ammissibile se dal “ritaglio” della legge vigente emerge una normativa immediatamente applicabile: se cioè si può andare a votare senza bisogno di ulteriori interventi legislativi. In passato, proprio perché questo esito non era garantito dal quesito, la Corte costituzionale (sent. 47/1991) dichiarò inammissibile il referendum sulla legge elettorale del Senato; mentre, avendo i promotori riformulato il quesito, la Corte lo ritenne questa volta ammissibile (sent. 32/1993) appunto perché la normativa di risulta avrebbe consentito l’operatività del sistema elettorale, senza alcun ulteriore intervento del legislatore.

Per cercare di infilarsi in questo spiraglio, i promotori hanno provato a ritagliare la legge Calderoli, per far emergere una normativa direttamente applicabile.

Ma non ci sono riusciti. Diversi punti del quesito numero 2, infatti, contengono abrogazioni di legge abrogate (mi si scusi il bisticcio). Il quesito prevede in particolare l’abrogazione delle norme della legge vigente, che a loro volta avevano abrogato i decreti legislativi sulla determinazione dei collegi uninominali della Camera e del Senato. Ma, come si ricordava, l’abrogazione non può far rivivere norme abrogate, e quindi l’eventuale approvazione del quesito produrrebbe una legge priva della normativa che riguarda il suo punto centrale, cioè l’adozione dei collegi uninominali. Ne risulterebbe una legge non immediatamente operativa, in contrasto con quanto richiesto dalla Corte costituzionale.

Chiedo scusa per i tecnicismi. Sono anch’io contrario al “porcellum”, e comprendo le ragioni di un’iniziativa referendaria. Per esempio, quella promossa da Passigli (il quesito sull’abolizione del premio di maggioranza è sicuramente ammissibile). Ma, come dicevo all’inizio, il problema è un altro: quando nei talk show televisivi sento promettere che con i referendum si tornerà alla legge elettorale Mattarella, mi indigno, come si dice adesso. Da giurista e da politico di altri tempi.

 

Legge elettorale: per Bersani, il “referendum è come una pistola sul tavolo”

Un’altra delle similitudini azzardate di Bersani nasconde in verità il totale endorsment del PD per il referendum sulla Legge Elettorale. La spiegazione la fornisce D’Alema, principale oppositore di un ritorno del Mattarellum (l’uninominale a turno unico made in Italy), a sorpresa diventato favorevole alla consultazione elettorale. Cosa ha fatto cambiare idea al Lidér Massimo e al tentennante Bersani?

Corriere della Sera, 13/09/11, p. 19

Pensate che mente sopraffina ha potuto partorire un ragionamento simile. Non già l’interesse pubblico dinanzi alla strategia di sostenere i referendari e il bistrattato Parisi, bensì una machiavellica teorizzazione di un annichilimento della Lega Nord, obbligata a smarcarsi da B. per poter esistere ancora ‘sul territorio’ e quindi pronta a far saltare il governo davanti alla prospettiva di un referendum che ripristini l’uninominale. Mi pare puerile, ma anche diabolico.

Più esplicito Bersani, che oltre alla metafora, aggiunge: noi – la pistola – la teniamo lì, e vedrete che pur di non pronunciarsi su questi temi, la maggioranza farà terminare la legislatura.