Civati il parresiastes, o della rivincita sul Konduttore

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Durante la #direttacivati, ieri sera, molti di noi, molti di quelli che agivano su twitter per raccontare in 140 caratteri la partecipazione di Giuseppe Civati a Ballarò, fatto più unico che raro, hanno scritto che guardare un talk-show tutto intero per sole tre domande fosse una fregatura, o una seccatura almeno. Cose così, buttate giù di pancia.

Devo ammettere di esser stato fra quelli che hanno istintivamente pensato che Civati fosse un pesce fuor d’acqua in quella circostanza, come spesso gli capita quando si trova in trasmissioni tv in cui la regola è non far capire nulla a chi sta a casa. La critica, ovvia e automatica, è stata più o meno questa: un leader deve sapere impiegare questi mezzi di comunicazione. Deve saper parlare in tv, come parlare alla radio, come stare sui social network, e via discorrendo. Un leader politico è oggi soprattutto un personaggio televisivo; ha cioè un suo carattere, una sua figura televisiva. Parla la lingua della televisione. E’, di fatto, un campione della mimesis del piccolo schermo. Non necessariamente il suo personaggio è autentico. Nella televisione questo non importa: si è finché si rimane in onda, fuori dallo schermo si è qualcos’altro.

Dal post moderno in poi, con la nascita della società dello spettacolo, è tornato in auge il personalismo. Il personalismo è quel fenomeno che fa sì che non sia tanto un’idea o un concetto o una visione di vita ad emozionare il pubblico e gli elettori, quanto il personaggio che veicola tali contenuti (Barbara Collevecchio, il Fatto Q).

Ora per chi pretende di cambiare il paese iniziando da un partito, cosa che qualifica Civati come ‘folle’ bastian contrario (i partiti sono m..da, dice il Capo Comico, facendosi interprete del comune sentire in virtù del suo carisma), si impone la necessità di rompere il campo dell’avanspettacolo politico portando la scomodità della verità addosso. Chi fa ciò non è meno leader di chi si pavoneggia bene davanti al Konduttore, abile maître della retorica da talk show. Il konduttore non sa che farsene di un parresiastes. La banalità del reale in tv non funziona. Il parresiastes ha il coraggio di dire la verità a discapito di sé stesso: non va incontro all’opinione pubblica, ma la conduce verso il vero (l’esatto opposto del leader populista, che invece guida la propria mimesis in virtù dell’opinione generale). Se in una discussione politica, un oratore rischia di perdere la sua popolarità perché la sua opinione è contraria a quella della maggioranza, egli sta usando la parresia. Il leader televisivo, invece, cerca di accrescere la propria popolarità, cavalca l’onda del sentimento, fa vivere al telespettatore l’esperienza della condivisione d’intenti che è effimera poiché dipendente dallo schermo.

Dopo venti anni di berlusconismo, non abbiamo bisogno di palcoscenici, né di teatri di posa, né di studi televisivi. Il leader è tale poiché si fa carico del cambiamento, perché mette sé stesso, la propria carne, la propria voce al servizio di un movimento fatto di persone oramai disilluse. L’incantesimo è finito. E allora, restare in silenzio aspettando che il konduttore ti dia la parola, non è sinonimo di sconfitta bensì di alterità. Perché se anche Landini alza la voce per togliere la battuta all’avversario politico, allora dobbiamo renderci conto che qualcosa non funziona più in noi. Se riteniamo che questo sia il modo giusto, se lo riteniamo vincente, scopriamo inorriditi di essere definitivamente cambiati, in questi venti anni.

Ecco, il leader è timido poiché timida è la verità. Aiutarla a tornare protagonista della nostra vita politica non è solo un’opportunità, è un dovere civile. Per poi alzarsi da quelle poltrone e dire al konduttore, quasi con un piede fuori: no, non è con me che stai parlando.

Tartaglia, furia iconoclasta contro l’inganno della mimesis.

Il volto del Leader tumefatto, la fissità dello sguardo, la paresi della bocca, ieri a Milano: immagini di uno sfregio fatto all’icona dell’ambiguità. Lui, l’uomo che si è fatto da sé, o forse no, l’uomo che è portatore del nuovo, o forse no, l’uomo che rivoluziona la politica e fa di sé e del suo corpo l’essere stesso, l’incarnazione del potere, eccolo, immobile come può essere solo un monarca improvvisamente nudo davanti al popolo.

La molteplicità degli sguardi e degli atteggiamenti che egli porta con sé da anni allontanano il semplice ossevatore dalla verità storica dell’uomo e del politico. Il Berlusconi capo di famiglia, il Berlusconi donnaiolo, il Berlusconi tradizionalista, il Berlusconi rivoluzionario, il Berlusconi attentatore stragista, il Berlusconi pacifista, il Berlusconi filorusso e quello filoamericano, tutto questo disordine e questa sovrapposizione di voci ha finito per ispirare la mano di uno qualunque, uno che ha vissuto nell’anomia fino al giorno scorso, ma che conosceva bene i mille volti del suo antagonista. Tartaglia o Signor Nessuno, poco importa.

Ciò che ha fatto più danno al volto del (finto) premier è la sua stessa parola e la profondissima distanza dai fatti.

Perché se la parola vera, è franca, libera, allora colui che dice il vero disvela sé stesso. Non nasconde ciò che pensa. Attraverso la parola, l’uomo rende conto al mondo di sé stesso. E’ il socratico rapporto armonico fra logos e bios, l’armonia fra logos e praxis. La connessione fra parlare e vivere implica l’accordo fra le parole e i  fatti, poiché le parole senza il sostegno dei fatti sarebbero prive di senso. La parola libera non è solo opinione. E’ corrispondenza fra ciò che è detto e ciò che è fatto.

All’opposto, la minaccia della mimesis, ovvero della maschera, della riproduzione del vero, investe il logos, il contenuto, e la parola non è più disvelazione di se stessi. Essa è tradita, poiché è tradita l’unicità del parlante. Verità è disvelarsi con la parola senza voler essere qualcun altro. Colui che pratica la parola libera rende conto al mondo della verità su se stesso, di essere unico al mondo. E’ questo status ontologico dell’essere uno che interessa. La minaccia del bios come verità unica del parlante. La rottura operata dalla mimesis – l’imitazione, la pantomima – nell’unicità del parlante comporta il problema di doversi confrontare con una persona radicalmente frammentata, disorganizzata. Colui che esercita la mimesis non lascia dietro sé un’unica traccia. Il disegno che le sue azioni e le sue parole fanno di esso è confuso, non è una traccia, non è un disegno, bensì una molteplicità di segni di molteplici personalità non disvelabili pienamente.


– Io sono Oz; il Grande e Terribile Oz. Perché mi cercate? Si guardarono ancora intorno nella sala e, non vedendo nessuno, Dorothy domandò: – Dove sei? […] Tutti guardarono da quella parte e rimasero semplicemente allibiti. Perché proprio nell’angolo che il paravento aveva tenuto nascosto, stava un ometto piccolo, calvo e rugoso, dall’espressione attonita non men che la loro. […] – Credevo che Oz fosse una enorme testa, – mormorò Dorothy (L. Frank Baum, Il mago di Oz).
Il Mago di Oz non è una enorme testa, non è un Mago, non è un Mostro di cui aver timore: quando il Mago di Oz disvela di non essere ciò che dice di essere, allora il Leone e il Boscaiolo di Latta si scagliano su di lui. Questo ispira la mimesis, questo ispira l’infinita ipocrisia del parlante che non è vero poiché non è unico ma duplice e perciò minaccioso. La violenza come ultimo atto di verità nella torbida miscela di rappresentazione e imitazione che infesta la sfera pubblica.