Impeachment Cossiga, Napolitano si oppose

Da qualche giorno, Beppe Grillo e con lui il movimento 5 Stelle, annuncia l’iniziativa – fine a sé stessa – di chiedere l’impeachment per Giorgio Napolitano. A suffragio di questa volontà, tutta partorita del Vertice del Movimento, motivata in qualche piazza a suon di slogan, Grillo ha citato il testo del documento con il quale il Pds di Achille Occhetto chiese la messa in stato d’accusa per Francesco Cossiga, il presidente picconatore. Era il 1991 e da pochi mesi era stata scoperta la formazione paramilitare segreta e clandestina, Gladio, di cui Cossiga era a conoscenza della sua esistenza sin da quando era ministro dell’Interno (1976).

La citazione è stata portata per insinuare nell’ascoltatore meno attento il dubbio sulla coerenza della figura dell’attuale presidente della Repubblica: se nel 1991 il Pds, quindi Napolitano, accusavano Cossiga di attentato alla costituzione per aver tentato di interferire “illegalmente nelle attività del legislativo, dell’esecutivo e del giudiziario”, e di aver avviato “l’esercizio di una propria funzione governante”: che è “inammissibile”e “autoritaria”, allora quelle stesse parole dovrebbero valere oggi contro il medesimo Napolitano, esso stesso fautore di indicibili intromissioni verso gli altri poteri dello Stato, specie quello giudiziario (caso trattativa Stato-mafia e telefonate con Nicola Mancino). Strillava il Comico: Napolitano lo chiese per Cossiga, l’impeachment: e noi per lui.

Peccato ci sia un errore storico grande come una casa. A parte il fatto che la richiesta della messa in stato d’accusa del Pds non giunse nemmeno al voto, Napolitano non era affatto d’accordo con la linea politica di Achille Occhetto. Napolitano espresse il suo dissenso nei confronti dell’allora segretario del partito telefonando a Bettino Craxi. Il contenuto di quella telefonata fu parzialmente divulgato dallo staff del segretario socialista. Secondo tale ricostruzione, Napolitano addirittura diede del pazzo ad Occhetto.

La Stampa, 23/11/1991

La Stampa, 23/11/1991

Napolitano, esponente dell’area dei riformisti, si opponeva alla linea politica più intransigente che da Ingrao passava per Occhetto. L’impeachment faceva parte di una strategia politica che prevedeva anche la sfiducia nei confronti del governo Andreotti . In questa seconda intervista, datata 27/11/1991, il dissenso di Napolitano divenne così palese da non poter più essere ignorato. Ed era la sua una tattica così sopraffina che alla fine vinse poiché Cossiga non fu mai messo sotto accusa ma si dimise, come effettivamente prospettato da Napolitano:

La Stampa, 27/11/1991

La Stampa, 27/11/1991

 

Trattativa / Berlusconi: io dalla parte di Napolitano.

Excusatio non petita, accusatio manifesta, si direbbe. Perché Berlusconi si è sentito in dovere di spiegare ai lettori de Il Foglio, in edicola domani, che lui è dalla parte del Quirinale, che sono stati messi in atto brutali tentativi di condizionare il presidente Napolitano dai quali è assolutamente estraneo.

In questi mesi tormentati il Quirinale è stato oggetto di attenzioni speciali e tentativi di condizionamento impropri ai quali sono completamente estraneo, dei quali sono un avversario deciso» «La frittata non è rovesciabile» – Berlusconi al Foglio di Ferrara secondo il Corsera.

E’ estraneo quindi ai tentativi di condizionamento effettuati da chi? A chi si riferisce? A Ingroia? Berlusconi vuol cavalcare il falso scoop di Panorama. Il quale, più che un tentativo di condizionamento, è sembrato un tentativo di vendere qualche copia in più in quanto delle intercettazioni, nelle paginette patinate del settimanale di casa Mondadori, non vi era nessuna traccia nonostante le anticipazioni del giorno prima dicessero l’esatto contrario, fatto che aveva indotto a pensare a un nuovo colpo del Caimano, come quella volta del caso Unipol e dell’esclamazione di Fassino – abbiamo una banca! – finita registrata su un nastro e consegnatagli nottetempo, come una testa mozzata in un cesto.

In realtà Berlusconi non ha alcun timore di metter becco in questa vicenda, anzi, il progetto era proprio questo. L’articolo bluff di Fasanella è un cavallo di Troia tramite il quale Berlusconi incanala il dibattito sulla “brutalità” delle intercettazioni avendo egli il fine unico di smantellare la legislazione in materia. Era tutto pianificato: il falso scoop e Silvio che si dissocia dalle colonne di un altro giornale apparendo come “amico” del Napolitano intercettato e contro i giudici bruti e violentatori. Un vecchio refrain.

Cosa non è funzionato di questa strategia? Diciamolo chiaramente: Berlusconi è un vecchio arnese. E’ lontano dalla scena politica da almeno settanta giorni e il suo partito è in uno stato comatoso. In secondo luogo, la minaccia della rivelazione del colloquio Mancino-Napolitano è come un grosso nuvolone nero, come una piaga, una maledizione, una miseria. Sapere quel che si son detti è di chiaro interesse storico-politico (fors’anche giudiziario). Ma ai fini della salvezza dello Stato e dei conti pubblici, è certamente deleterio. Mettere Napolitano sull’orlo delle dimissioni in un momento in cui già si deve decidere quando andare a nuove elezioni, se a fine legislatura o in anticipo di qualche mese, senza un leader politico degno di questo nome, senza una coalizione di governo presentabile anche all’estero, senza una legge elettorale che garantisca governabilità e rappresentanza e libertà di scelta, è un colpo mortale per questo paese.

In generale l’operazione ‘ricatto’ è stata un fiasco. Il paese non è pronto a sapere la verità sulla trattativa, sul rischio della secessione dello Stato Bordello, della guerra tutta interna al Sisde e quindi al Viminale, e in un certo qual senso sta rigettando questa politica che si guarda alle spalle, su quel passato torbido ancor tutto da decifrare. Vedere che Berlusconi si è riportato con un guizzo sulla scena solo e soltanto per questioni legate alla giustizia e all’uso delle intercettazioni da parte della stampa, mentre è rimasto ben nascosto quando si è trattato di parlare ai minatori del Sulcis o ai lavoratori dell’Alcoa, o ai terremotati dell’Emilia, è un ennesimo indizio della sua proverbiale inaffidabilità (unfit to lead) nel governo del paese.

Ci avviamo verso l’autunno con un tasso di disoccupazione giovanile di circa il 36% con un trend di crescita che in sette mesi potrebbe portarlo sopra i 40 punti percentuali. Una ipotesi drammatica. Non siamo più nel 1992.

Trattativa, l’articolo di Panorama su Mancino-Napolitano è un bluff

panorama – articolo su mancino-napolitano download

“Baggianate!”, scriverebbe Louis Ferdinand Céline. L’articolo di Panorama a firma di Fasanella è un autentico bluff. Le sbandierate “incredibili rivelazioni” sul caso delle intercettazioni delle telefonate intercorse fra Mancino e Napolitano finite nel fascicolo dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia della procura di Palermo sono un temino banalotto che potrebbe esser scritto da “un bambino di quinta elementare” (cfr. Michele Fusco, direttore de Linkiesta, Rassegna Stampa Radiotre). Non sprecate tempo a cercare il presunto scoop: semplicemente non esiste. Non c’è traccia del contenuto delle intercettazioni, si tratta soltanto di interpretazioni del giornalista che trovano conferma – dice lui – negli editoriali dei vari Ezio Mauro e co.

E in un certo senso ciò è un bene: perché se davvero queste trascrizioni possono – nonostante il segreto – esser lette e trascritte da qualsivoglia giornalista, allora si sarebbe aperto un caso politico-giudiziario – l’ennesimo – senza fine. Una manovra simile avrebbe certamente creato il presupposto per una legge bavaglio, proprio ciò che vogliono dalle parti di Arcore.

Imperdibile però il fondo di Vittorio Feltri su il Giornale. Da collezione…

Trattativa, Panorama pubblica intercettazioni e Berlusconi si vendica di Napolitano

Il settimanale Panorama domani pubblicherà una “ricostruzione” delle telefonate tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino intercettate nell’inchiesta della Procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. Sì, esatto, Panorama, giornale di casa Mondadori, quindi di proprietà di Berlusconi.

“Ricatto al presidente”, questo il titolo sparato in copertina. Si tratterà comunque di una trascrizione, non delle intercettazioni vere e proprie. Molto probabilmente si tratterà soltanto di alcune brevi frasi, condite di molta dietrologia, relative a quanto interessa al direttore di Panorama, quindi a Mondadori, quindi a Berlusconi, rivelare del dialogo fra l’ex ministro degli Interni e il presidente della Repubblica. Secondo Giuliano Ferrara, si tratterebbe di una ricostruzione “molto ben fatta”. Sui giornali, in queste ore, si vocifera di giudizi imbarazzanti su Berlusconi, su Di Pietro, sui giudici di Palermo. Ma il titolo “Ricatto al presidente” indica che c’è dell’altro. I tipi di Panorama pensano che quelle intercettazioni, non rilevanti ai fini dell’inchiesta, siano state usate per ricattare Napolitano. E naturalmente la procura è colei che esercita la pressione indebita sul capo dello Stato.

L’obiettivo di Panorama, quindi di Mondadori, quindi di Berlusconi, è molteplice:

  1. pubblicare il contenuto delle intercettazioni per stimolare nel capo dello Stato e di conseguenza nel Partito Democratico l’intenzione di limitare l’uso di questo strumento di indagine se non di escogitare sistemi di censura della stampa, stile legge bavaglio;
  2. assestare un colpo secco contro la procura di Palermo che pure indaga sulle transazioni avvenute fra Dell’Utri e Berlusconi per il passaggio di proprietà di una villa il cui valore non collima con le somme scambiate, passaggi di denaro ritenuti invece frutto di una estorsione; di fatto si tratta della medesima procura che indaga sulla trattativa e sui fatti del 1993, anno di nascita del partito Forza Italia, ritenuto da una certa vulgata giornalistica, uno degli esiti del patto di scambio fra la corrente mafiosa non stragista di Provenzano, i carabinieri del Ros e le istituzioni della Repubblica allora guidate da Scalfaro/Mancino/Conso;
  3. e infine, vendicarsi di Giorgio Napolitano, l’uomo che, di nascosto, tramando con i capi di governo di Francia e di Germania, ha deposto Berlusconi.

Vincenzo Scotti, l’informativa che annunciava le Stragi di Mafia

Vincenzo Scotti, ex ministro dell’Interno nel 1992, defenestrato da Andreotti nel giro di una notte – si ritrovò senza saperlo, in seguito a un rimpasto di governo “lampo”, ministro degli Esteri – intervistato oggi dal Corriere della Sera, ritorna sulla questione dell’informativa che annunciava le Stragi di Mafia, quel memoriale messo in mano ad un noto depistatore, Elio Ciolini, di cui spesso si è parlato nel corso di questi anni ma che l’indagine giornalistica ha, per così dire, dimenticato.

Su Yes, political! se ne è parlato in questi post:

La destabilizzazione, il progetto politico all’origine della trattativa.

Join the dots. Unisci i puntini. La leggenda del capitano Ultimo, la fiction come antistoria.

Nel 1992-93 l’Italia ha rischiato la secessione dello Stato Bordello

Nel 1992, prima delle stragi e prima delle elezioni, venne pure dato l’annuncio: si preparava una stagione col botto, una stagione in cui le istituzioni sarebbero state messe duramente alla prova in un tentativo di rivoltarle. L’allora ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti, diffuse l’allarme alle prefetture e alle questure. Le voci di una imminente destabilizzazione furono messe in giro da tale Elio Ciolini, depistatore professionista. Ciolini compare nell’inchiesta di Antonino Ingroia, “Sistemi Criminali”, poi archiviata, nella quale si fa riferimento a un piano eversivo “finalizzato alla divisione dello Stato condotto dai vertici di Cosa Nostra con la complicità di un Sistema Criminale, composto da massoneria deviata – P2 – da elementi dell’eversione nera e da spezzoni deviati dei servizi segreti”.

La figura di Vincenzo Scotti è centrale in questa vicenda. Scotti è una vittima. E’ un uomo di Stato che cercava di far bene il proprio mestiere. Doveva essere messo da parte, “per il bene supremo dello Stato”. Un concetto di bene che ancor oggi il Quirinale non vuole specificare, che racchiude in sé un segreto che nessuno può riferire, che qualcuno si è portato nella tomba (Scalfaro), che ha ereditato più o meno inconsapevolmente (Ciampi), che infesta ancora gli incubi più reconditi (Mancino e altri).

Stragi del 1993: quando il Viminale preparava la guerra contro lo Stato Bordello

La cartina d’Europa che vedete era stata pubblicata un po’ provocatoriamente qualche mese fa da The Economist. Era posta a corredo di un articolo in cui si prefigurava la futura divisione dell’Europa. Spicca la divisione dell’Italia in due paesi, uno a Nord con capitale Venezia; l’altro a sud con capitale Roma. A dividerli, i due neo-stati, addirittura un canale, non si sa se soltanto politico o addirittura geografico. Da notare che lo stato del Nord conserva il nome Italia. Significa che a Nord rimarrebbe l’autorità legittima, quella che si è creata con il referendum del 1946 e la costituzione del 1948. Per intenderci, gli espertoni dell’Economist non prevedono la secessione della Padania, bensì di quella del Meridione, nella cartina chiamato Bordello. Qualcosa di simile girava su un volantino negli anni ottanta. Qualcosa di simile era stato ipotizzato nel 1993 dalle Forze Armate. Era il 9 o l’11 di Novembre 1993, giorni di scandali, di tensione politica con la Lega Nord, di terremoti istituzionali che rischiavano di far decapitare la Repubblica con le dimissioni sfiorate di Scalfaro, bersagliato dalle rivelazioni sconvolgenti dei funzionari corrotti del Sisde, come l’ex Malpica:

in questo scenario di Italia divisa “Il Corriere della Sera” pubblica la notizia dell’esercitazione che tenne impegnati tra il 9 e l’ 11 novembre scorso prefetture e questure di Lombardia, Piemonte e Liguria e il comando della Regione militare di Nord Ovest. Poco più di un mese fa, in un clima politico arroventato, nei giorni in cui la Lega predicava ipotesi di secessione, qualcuno fra il Viminale e via XX Settembre pensò di mettere alla prova, non sul campo, ma a tavolino, una ipotesi di guerra civile. Col Nord regione ricca e stabile, attaccata dal Sud, coacervo di forze instabili e povere. Il Nord resiste all’attacco, i cattivi sono respinti oltre “confine” (Il Viminale e la Guerra Civile – Archivio Repubblica.it).

Era la prima volta che l’Esercito simulò uno scenario di guerra civile. L’evento diventò pietra d’appoggio nel teorema contenuto in un’inchiesta della Procura di Palermo, condotta dai pm Antonino Ingroia e Roberto Scarpinato, intitolata “Sistemi Criminali”. E’ l’analisi alla base dei procedimenti contro il generale Mori e il capitano De Donno dell’Arma dei Carabinieri, accusati di aver trattato con Cosa Nostra. L’ipotesi di fondo del dossier «Sistemi Criminali» è che “negli anni ’91, ’92 e ’93 sia stato messo in atto un tentativo di destabilizzare l’Italia, una sorta di «golpe» proveniente dal Sud senza carri armati, attraverso la strategia stragista di Cosa Nostra che sarebbe andata a «perfezionare» lo squasso istituzionale provocato dalle inchieste sulla corruzione del pool di Milano” (La Licata – Archivio La Stampa.it). Questo blog ha già trattato l’argomento qualche tempo fa riflettendo sulle parole dello stesso Scarpinato rilasciate a Luglio a Il Fatto Quotidiano. Successivamente in un altro post si prendeva in esame la devianza del Sisde e si definiva il quadro politico-istituzionale di quegli anni. Si accennava, in coda al post, allo scandalo dei Fondi Neri del Sisde. Sul web si trova una riduzione di un documento opera di Carlo Bonini, giornalista di La Repubblica, il quale, attaverso le parole di  Francesco Misiani, magistrato e fondatore di Magistratura Democratica, morto nel 2009 a 73 anni, mette in chiaro il ruolo dei magistrati “rossi” nel salvataggio di Scalfaro e Mancino, secondo l’interpretazione che prevalse, al centro di un attacco istituzionale volto a decapitare l’ordine democratico. Ecco il documento:

Fondi Neri del Sisde, perché non si è mai fatta davvero chiarezza

Si opponeva il fronte che aveva alla sua testa Magistratura democratica e i suoi esponenti di spicco all’interno del Palazzo, come Giovanni Salvi e Pietro Saviotti. Non saprei dire se numericamente maggioritario, ma certo dal forte peso specifico ai fini della decisione. La convinzione “pregiuridica” era che i cinque del Sisde fossero iscritti a un’operazione diretta a pilotare gli esiti dell’inchiesta verso un approdo politico che avrebbe trascinato le istituzioni e il paese nel marasma e nel discredito. E che pertanto l’operazione andava soffocata sul nascere.

Pensate cosa sarebbe accaduto se nella procura fosse prevalso l’orientamento deciso a voler andare a fondo nell’inchiesta: Scalfaro si sarebbe dovuto dimettere, con lui Mancino; il governo Ciampi e la sua maggioranza precaria, avrebbe dovuto gestire la campagna elettorale senza un presidente della Repubblica e fra Novembre 1993 e Gennaio 1994, Cosa Nostra (così afferma Spatuzza) era in procinto di far esplodere una bomba allo stadio Olimpico di Roma, per “ammazzare un po’ di carabinieri”. A quel punto, per la mafia che era in trattativa con lo Stato, non ci sarebbe stata più alcuna controparte con cui mettersi d’accordo: di fatto, avrebbe avuto lo Stato ai suoi piedi.

Più tardi, nel 1997, Angelo Siino, conosciuto come il Ministro dei Lavori Pubblici di Cosa Nostra, viene arrestato e così comincia il suo rapporto di collaborazione con la giustizia. Le sue dichiarazioni aprono uno squarcio sull’operato del Ros del generale Mori. Il teorema che emerge dalle sue dichiarazioni può essere così riassunto:

  • I Mandanti Esterni: l’avversione di cosa nostra nei confronti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino era condivisa da politici e imprenditori che erano in contatto o avevano interessi comuni con l’associazione criminale
  • Rapporti con la Politica: alla fine degli anni ’80 il gruppo Ferruzzi-Gardini aveva rilevato tutte le imprese di cosa nostra in Sicilia che avevano difficoltà economiche o che rischiavano il sequestro giudiziale. Nel 1987 cosa nostra avrebbe deciso di convogliare i propri voti verso il PSI in ragione dell’avvicinamento con quel gruppo imprenditoriale
  • Martelli, il traditore: Claudio Martelli era considerato da cosa nostra come un traditore per il suo appoggio a Giovanni Falcone. Il trasferimento di Falcone agli uffici ministeriali era visto dai vertici di cosa nostra, come potenzialmente assai nocivo per gli interessi mafiosi
  • Cosa Nostra Secessionista: Siino riferisce inoltre di suoi colloqui con Antonino Gioè, sui nuovi assetti di cosa nostra. Gli disse che Leoluca Bagarella avrebbe dovuto incontrare Massimo Berruti, ex ufficiale della Guardia di Finanza che sarebbe stato in contatto con Totò Di Ganci (rappresentante della famiglia di Sciacca), per avviare dei contatti con Craxi […] Gioè avrebbe detto che Bagarella, che stava salendo nella gerarchia di cosa nostra dopo la cattura di Riina creando preoccupazioni anche a Bernardo Provenzano, pensava ad azioni dimostrative eclatanti, come danneggiare la Torre di Pisa. Il Bagarella si sarebbe mosso in accordo con i fratelli Graviano e mantenendo contatti e coperture con i servizi segreti. Berruti avrebbe indicato i possibili obiettivi dinamitardi al Bagarella, lo scopo sarebbe stato quello di favorire il movimento indipendentista siculo “Sicilia Libera” e indirizzare l’opinione pubblica verso la richiesta di un governo forte retto, direttamente o indirettamente, da Craxi.
  • Il cambio di politica della mafia: secondo Siino, Giovanni Brusca nel 1994 avrebbe dato inizialmente direttiva di sostenere elettoralmente “Sicilia Libera”, per poi passare ad indicare “Forza Italia”.

Stragi del 1993, quando Mannino ipotizzava la mano dei Servizi Segreti

Il 27 Maggio 1993 avvenne l’attentato di Via Dei Georgofili. Cinque furono i morti. Il giorno dopo sui giornali compaiono le dichiarazioni dei politici, del Presidente del Consiglio, Ciampi, del Presidente della Repubblica Scalfaro, del Ministro degli Interni Mancino. Il quale, in una maniera un po’ enigmatica, giunge a ipotizzare la mano della mafia dietro alla strage. Perché, incalzano i giornalisti. E lui, sibillino: “chi capisce quello che è successo qui, capisce l’Italia”.

La Stampa, 28.05.1993, prima pagina

Senza indugi, Mancino dice chiaramente, qualche ora dopo l’attentato, che si tratta dell’opera della mafia. La mafia vorrebbe sviare l’attenzione da “quanto sta accadendo a Palermo e ovunque operi la criminalità organizzata, perché la mafia è dappertutto”. Mentre invece Piero Luigi Vigna dubita di questa ricostruzione: parla di “strategia terrorizzante” più che di mafia. La strage verrà poi rivendicata dal sedicente gruppo chiamato Falange Armata. Lo stesso giorno, l’inchiesta sulla strage di Via D’Amelio fa un grosso passo in avanti: viene arrestato Pietro Scotto, il telefonista di Via D’Amelio secondo la ricostruzione fasulla della prima inchiesta dei giudici di Caltanissetta, quella realizzata con la regia occulta di Arnaldo La Barbera e forse di Giovanni Tinebra. Una coincidenza che solo oggi possiamo considerare “strana”.

Accanto alle dichiarazioni di Mancino, la Stampa pubblicò una intervista all’esponente della DC siciliana Calogero Mannino, ai tempi un pezzo forte della politica italiana, avversario della corrente andreottiana che fu di Salvo Lima. La sua e quella di Vigna erano le uniche voci discordanti rispetto alla ricostruzione ufficiale fatta dal Ministro Mancino. Il giorno dopo, Mancino già sapeva che si trattava di mafia. Oggi sappiamo della trattativa Stato-Mafia, sappiamo dell’esistenza di mandati occulti, dell’esistenza di un livello militare stragista e di un livello politico e finanziario che finora non è stato svelato. Mannino, a sua volta accusato di mafia dai pentiti e assolto solo dopo una travagliatissima battaglia giudiziaria, a quel tempo indicò prima di altri l’evidenza di una sproporzione fra le capacità di Riina e la devastazione provocata dall’esplosione in Via Dei Georgofili. Le sue parole, raccolte da un allora promettente abile cronista di nome Augusto Minzolini, acquistano oggi una valenza diversa, quasi profetica:

Mannino: ma quali boss

«Il complotto viene dall’Est Riina non ne avrebbe le capacità»

ROMA. «E adesso non mi vengano a dire che questa bomba l’ha messa la mafia di Toto Riina. Anzi, a questo punto dubito anche sulla matrice mafiosa degli omicidi di Lima, Falcone e Borsellino». Seduto su una poltrona di Montecitorio, Calogero Mannino, ex-ministro dell’Agricoltura e primo attore della DC siciliana, si lascia andare ad un serie di congetture sulla bomba di Firenze. Sarà l’emozione per quello che è avvenuto, o, il fatto, di aver tenuto in corpo per tanti mesi questo sfogo, ma Mannino parla senza pausa e dalla sua bocca, come da un fiume in piena, esce di tutto.

Lei ha davvero dubbi sul fatto che non c’entri la mafia?

«Io dietro alla bomba di Firenze vedo ben altro. E, se non sbaglio, tra le minacce ricevute all’epoca da Falcone c’era anche quella della falange armata. La verità è che gli assassinii che ci sono stati in Sicilia hanno messo in ginocchio la DC o il sistema di potere andreottiano. E non è cosa da poco conto: in Italia quello che è avvenuto può essere paragonato alla caduta del muro nei Paesi comunisti. Quindi chi l’ha fatto deve avere degli obiettivi ben più grandi di quelli della mafia. Solo che dopo aver fatto fuori i partiti di governo, nessuno si è fatto avanti per prenderne il posto».

E allora?

«Proprio per questo si possono fare solo delle ipotesi su chi muove i fili dell’intera vicenda. Può esserci in atto, ad esempio, un’utilizzazione di servizi segretti deviati, ad opera di altri Paesi. O, ancora, bisogna vedere chi si muove dietro alla Serbia. Ed ancora, si dice che in Russia i comunisti si stanno riorganizzando e la stessa cosa sta facendo l’esercito. Infine bisogna fare un discorso un po’ più complesso sulla mafia…».

Si spieghi.

«Ma lei crede davvero che un personaggio come Toto Riina possa stare dietro a tutto questo? Suvvia, al massimo quello può fare ridere o, come succede a me, può far girare le scatole. La verità, secondo me, è che esiste un apparato militare molto efficiente e, poi, una mente politico-finanziaria, che non si trova certo in Italia. E questi due livelli si incontrano raramente: o meglio, nei momenti importanti la mente finanziaria ordina all’apparato militare quello che deve fare».

Ma lei crede davvero a queste sue ipotesi, non le paiono un po’ azzardate?

«Senta, le faccio una domanda: perché Giuliano i carabinieri lo hanno trovato morto, mentre Riina è stato trovato vivo? La verità è che Riina si è sganciato. Fatto il lavoro che gli era stato commissionato si è sganciato».

Ma quale interesse potrebbe avere quell’«entità» che, secondo lei, starebbe dietro a tutto questo?

«Non vogliono avere a che fare con un governo degno di questo nome. Quello attuale è come se non ci fosse. Sono passate due settimane e vedete, non esiste. E non avere a che fare con un governo significa tante cose: ad esempio da la possibilità di comprare i beni dello Stato a pochi soldi. E se, poi, si arrivasse a provocare una divisione dell’Italia in due, qualcuno potrebbe ricavarne altri vantaggi. Potrebbe, ad esempio, disporre senza problemi, di basi militari dell’Italia meridionale di grande importanza strategica, come Fontanarossa e Comiso. Sì, potrebbe usarle come vuole, a proprio piacimento, senza rischiare incidenti diplomatici con il governo italiano come è avvenuto a Sigonella. Le mie, comunque, sono solo ipotesi che partono, però, da una convinzione».

Quale?

«Tutto quello che sta avvenendo pone una questione: qualcuno insidia la nostra sovranità nazionale».

Secondo lei siamo a questo punto?

«Ci siamo e nessuno se ne rende conto. Ad esempio, i giudici hanno fatto il loro lavoro, diciamo che la loro è stata un’operazione chirurgica, ma adesso dovrebbero lasciare di nuovo il posto alla politica. E lo stesso problema dovrebbero porsi anche i pidiessini, insieme a noi devono porsi il problema di salvare il Paese. Fatto questo potrebbero governare loro».

Ma senta non è che le sue supposizioni nascono solo dalla voglia di far dimenticare quello che è avvenuto in questi mesi? Insomma, un tentativo di azzerare il tutto nel nome dell’emergenza?

«Non scherziamo. Io la politica la lascio. Guardi io ho già fatto un patto con mia moglie: io lascio, ma lei deve accettare di lasciare la Sicilia. Io non posso rimanere lì, perché so quello che ho fatto contro la mafia. Voglio andarmene, non all’estero, magari a Roma».

[Augusto Minzolini]

Il Codice di Cosa Nostra: dalla strage di Via Palestro alla revoca del 41-bis

Il Codice di Cosa Nostra è un’inchiesta del giornalista Maurizio Torrealta di RaiNews: parla delle stragi sul continente ordite dalla Mafia nel 1993, e delle coincidenze di date, fatte rilevare anche dal Presidente della commissione Bicamerale Antimafia, Beppe Pisanu, nella sua relazione dello scorso Giugno (qui il testo integrale). Dopo gli attentati di Milano, Roma e Firenze, l’inquietante black-out di Palazzo Chigi del 28 Luglio 1993, il fallito agguato ai carabinieri del Ottobre-Novembre 1993 durante un derby Roma-Lazio, inizia il cedimento dello Stato. Il primo fu Giovanni Conso, allora Ministro della Giustizia, che decise a fine 1993 la revoca del 41-bis, il regime di carcere duro, per decine di mafiosi di piccolo-medio calibro. Uomini della mafia, manovali di Cosa Nostra, capi cosca di grado inferiore. Era un effetto della trattativa? Perché fu revocato solo per piccoli mafiosi e non per i boss? Si dice che la mafia è un’impresa e spiegatemi che cosa fa un’impresa senza i suoi operai. Era il 4 Novembre 1993, e Conso ha detto che tale decisione fu presa “per evitare altre stragi”.

La strategia terroristico-mafiosa inizia con l’omicidio Lima. E’ un atto di guerra, si dirà. Una guerra che si rese conclamata, evidente, chiara a tutti, con Capaci. Poi la fase della cosiddetta “accelerazione” che condusse dritti a Via D’Amelio. Conso successe a Martelli come Ministro della Giustizia quando questi era ormai sotto il tiro dei magistrati milanesi dell’inchiesta Mani Pulite. Giovanni Conso aveva avuto sino ad allora una carriera istituzionale di altissimo profilo (fu anche presidente della Corte Costituzionale). Passerà alla storia come l’uomo del colpo di spugna su Tangentopoli. Esordì così:

 

fonte Archivio Storico La Stampa

Era il 25 Febbraio 1993: il suo messaggio, “certe misure accrescono la tensione”, si intendeva rivolto all’uso della carcerazione preventiva e all’esibizione delle manette fatte nel corso dell’inchiesta Mani Pulite. Era solo questo il suo significato? Conso è stato ascoltato in Commissione Antimafia lo scorso 11 Novembre. Nessun media nazionale ne ha dato riscontro, a parte La Repubblica. Il giorno prima è stata la volta di Nicola Mancino, nel 1993 Ministro dell’Interno. Il suo nome è contenuto in un documento messo a disposizione da Massimo Ciancimino e attribuito a Provenzano. Mancino ha negato di esser stato messo a conoscenza della trattativa condotta dal Gen. Mario Mori con Provenzano. Mario Mori lo ha freddato con un “ne prendo atto”.

Audizione di Nicola Mancino in Commissione Antimafia, 8 Novembre 2010

Audizione di Giovanni Conso in Commissione Antimafia, 11 novembre 2010

Eppure il voler spiegare la strategia terroristico-mafiosa messa in atto fra il 1992-1993 solo con la volontà di costringere la politica a ritornare sui suoi passi e a togliere l’ergastolo e il carcere duro non è sufficiente. Non si spiega la presenza di uomini dello Stato sulla scena di Via D’Amelio, per esempio. Non spiega tutto il fiorire dell’indipendentismo siciliano di inizio anni ’90. Anche De Gennaro, nel 1993, allora capo della DIA, ammise in una intervista a La Stampa – nella quale pur ci tenne a precisare che non vi erano uomini dello Stato in Via D’Amelio – che Cosa Nostra aveva già avuto intenti separatisti:

Ma un’organizzazione che, come lei dice, ha capacità di elaborazione strategica e anche, per così dire, di iniziativa politica, non potrebbe scegliere una politica diversa dal terrorismo? In fondo, la mafia siciliana ha una tradizione di convivenza con le aspirazioni separatiste. E ora che dal Nord arriva il vento leghista, la mafia potrebbe cercare di trame vantaggi?

«Non so dire se in termini politici Cosa Nostra possa arrivare ad avere questo tipo di strategie. Io credo, però, che Cosa Nostra abbia la possibilità di mterloquire, di interferire, contrattare e contattare componenti crimmali o politiche che possano tramare piani destabilizzanti per la nostra democrazia. E’ avvenuto in passato: basta andare con la memoria a fatti processualmente acquisiti come il tentativo di golpe Borghese. A Cosa Nostra fu chiesto l’intervento dei suoi uomini a fianco dei golpisti, in cambio dell’impunità giudiziaria».Quindi se in Italia nascesse una forza golpista, o comunque una forza che cercasse di minare l’unità nazionale, avrebbe nella mafia un naturale alleato?

«Non ho elementi per affermare che Cosa Nostra potrebbe essere un referente naturale, dico che Cosa Nostra ha già avuto l’occasione di esserlo».

E se invece si facesse più forte la spinta per la secessione – del resto teorizzata apertamente sia da parte leghista sia da nuovi movimenti che si preparano al Sud – alla prossima campagna elettorale?

«Ecco, mi viene in mente, ancora, il tentativo separatista di Michele Sindona. Gli esempi non mancano. Ripeto, non ho elementi ben precisi, ma posso solo ribadire che la mafia, e ripeto che mi riferisco a Cosa Nostra siciliana, non è solo un’organizzazione criminale. Cosa Nostra è una forza capace di intervenire per modificare anche le realtà sociali e politiche» (fonte La Stampa, Archivio Storico, 08/01/1993).

Pertanto si può dire che la questione della revoca del 41-bis spiega solo in parte le stragi. O per meglio dire, è solo uno dei successi ottenuti dalla mafia nella guerra contro la politica. Poiché il 41-bis si può dire sia rimasto lettera morta. Oggetto di continue discussioni, di revisioni. Come quella del 2001 (durante il governo Berlusconi II):

Carcere duro addio. Quattro colloqui al mese, il fornello a gas per scaldarsi i cibi. Piccole cose nel mondo dei normali, ma non tra i dannati del 41 bis. Conquiste in sordina che sembrano dei bonus concessi da pezzi delle istituzioni che confermano un atteggiamento più morbido e vanificano il regime duro previsto dall’ ordinamento penitenziario per chi si è macchiato di crimini orrendi: torture, sequestri di persona, stragi, omicidi di bambini (Addio al 41 bis così è partita la trattativa con la mafia, la Repubblica, 27 dicembre 2001, pagina 1, sezione: PALERMO).

Nell’inchiesta di Torrealta avrete ascoltato la lunga intervista a Nicolò Amato. Fu lui ad insistere con Giovanni Conso affinché il ministro revocasse il 41-bis ai mafiosi, poiché si trattava di “decreti emergenziali” chiaramente lesivi della dignità della persona. Amato era direttore generale del DPA, il dipartimento di amministrazione penitenziaria. Dopo Amato, si verificarono altre revoche del carcere duro. Nel 2003 le revoche furono 73, 14 nel 2004. Presidente del DPA era Giovanni Tinebra, ex procuratore generale di Caltanissetta. Tinebra è il magistrato che condusse in tutta fretta le indagini su Via D’Amelio. E’ colui che prende le rivelazioni di Scarantino per buone; è colui che attribuisce a Profeta, mafioso coinvolto nell’uccisione di Libero Grassi, un ruolo nell’attentato a Borsellino:

fonte Archivio Storico La Stampa - 2004

fonte Archivio Storico La Stampa, 10 Ottobre 1993

Ma Tinebra è anche colui il quale delegittima il pm Luca Tescaroli nell’indagine sui mandanti occulti a Via D’Amelio, indagine che venne archiviata da Tinebra con una formula che negava alcun coinvolgimento di Berlusconi e Dell’Utri nella vicenda, allora chiamati in causa da alcuni pentiti (oggi anche da Spatuzza).

Alle 10,30 di ieri mattina (…) il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta, Giovambattista Tona, ha depositato in cancelleria il decreto di archiviazione che segna la definitiva uscita del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’ Utri dall’inchiesta sui “mandanti occulti” delle stragi di Capaci e di via D’ Amelio. (…) Il giudice analizza le accuse dei numerosi collaboratori di giustizia che avevano chiamato in causa i due leader di Forza Italia sostenendo che «erano nelle mani del capo di Cosa nostra, Totò Riina» e che le stragi dell’ estate del ’92, in cui furono uccisi il giudice Falcone, la moglie, il giudice Paolo Borsellino e gli agenti delle loro scorte, furono “accelerate” per dare un colpo ai vecchi referenti politici della mafia e dare una mano al nascente partito di Forza Italia. Altri collaboratori parlarono di incontri tra i boss ed i due esponenti politici che avrebbero assicurato provvedimenti legislativi favorevoli a Cosa nostra. Ma il gip, pur non bollando i pentiti come inattendibili, ha ritenuto che gli elementi raccolti in due anni di indagini sono «insufficienti» a sostenere l’ accusa in un eventuale giudizio. Insomma niente prove. Il giudice Tona ha quindi condiviso la richiesta di archiviazione della Procura presentata il 19 febbraio dello scorso anno e firmata dall’allora procuratore Gianni Tinebra (…) e dall’aggiunto, Francesco Paolo Giordano (Stragi mafiose,il gip archivia, la Repubblica, 4 maggio 2002, pagina 20).

E’ amareggiato e incredulo Luca Tescaroli, il pm della strage di Capaci e di via D’ Amelio che fino a pochi mesi fa aveva coordinato l’ inchiesta sui mandanti occulti delle stragi dov’ erano indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’ Utri. Un inchiesta che ha provocato divergenze di vedute tra il giovane magistrato ed i suoi superiori, il capo della Procura, Giovanni Tinebra e l’aggiunto, Paolo Giordano. Tescaroli aveva preparato una richiesta di archiviazione che è stata cestinata dai suoi superiori perché il magistrato avrebbe sostenuto che l’ ipotesi del coinvolgimento di Berlusconi e Dell’ Utri nel progetto stragista di Cosa nostra, pur plausibile, non aveva trovato nei due anni di indagini previsti dalla legge una decisiva conferma. Una tesi che è stata completamente ribaltata dalla richiesta di archiviazione presentata nel marzo scorso da Tinebra, Giordano e dal sostituto Leopardi (Io magistrato delegittimato nell’inchiesta sulle stragi, la Repubblica, 27 marzo 2001, pagina 25).

Tinebra è diventato direttore del DAP su nomina del governo Berlusconi II (anni 2001-2004).

Papello di Riina, Mancino e Rognoni in cima alla lista.

Ora dovranno fare un grande sforzo per ricordare. Poiché verrà chiesto loro perché i loro nomi campeggiano in cima alla lista di richieste che la Mafia fece pervenire a Ciancimino e che questi poi allungò al Ros. Mori e de donno non lavoravano per conto proprio, il loro responsabile era al corrente di queste informazioni. Il suo nome compare stamane per la prima volta in un articolo del Corriere: Mori e De Donno rispondevano al generale dei Carabinieri Subranni. Subranni era il loro responsabile e come tale doveva conoscere le loro operazioni e i loro tentativi di abboccamento con Don Vito Ciancimino.
Stasera è stato pubblicato il Papello. E’ un vero e proprio programma politico, con tanto di riforma della giustizia, l’abolizione del 41bis, un diverso sistema elettivo. E soprattutto quei due nomi.
Di Mancino sappiamo già molto. Ora sarà interessante sapere chi è Virginio Rognoni. DC della corrente anderottiana, Rognoni nel 90-92 è stato Ministro della Difesa. Ma fu anche Ministro dell’Interno dal 1978 al 1983, durante gli anni di piombo. Ai tempi fu oggetto di critiche pesanti da parte del PCI per non aver protetto a sufficienza il gen. Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia.

Subranni è il comandante dei ROS

“Esatto. Poi questo suo quesito lo fa al signor Franco. Il signor Franco lo conosco allo stesso modo di Bernardo Provenzano (…)”.

Il signor Franco è dei servizi segreti?

“Sì. E il signor Franco risponde a mio padre che il carabinieri non sono cosi’ ingenui e sprovveduti, ma che c’erano due soggetti informati e… costantemente tenuti al corrente di quelle che erano le fasi della trattativa, e nel caso in grado di poter attuare le richieste. Il ministro dell’interno Mancino e un altro soggetto politico”

Rognoni?

“Sì”’.

Quindi suo padre sa questo dal signor Franco?

“…che sono informati, cosa che non entusiasma mio padre per niente”

E si fida del signor Franco?

“Ne parla anche con i Carabinieri e loro stessi gli confermano la stessa cosa”.

Il colonnello Mori?

“Sì, il colonnello Mori. Ma la cosa importante è che mio padre di questo diciamo rapporto a monte non è per niente soddisfatto”.

Quindi non gli bastano Mancino-Rognoni?

“Esatto, non gli bastano… secondo lui, l’unica persona che ha lo spessore morale per garantire la trattativa, e che era quasi un incubo di mio padre, perché era convinto che Violante comandasse…”

Comandasse che cosa?

“Era convinto che Luciano Violante comandasse la magistratura (…)”

E Mori ne parla con Violante?

“Questo io… l’ho appreso leggendo i giornali”.

E lei che apprende invece da suo padre?

“Che Mori gli dice che non si poteva coinvolgere l’onorevole Violante (…)”. Però suo padre chiede di essere ricevuto dal Presidente della Commissione Antimafia (..) “Quando Violante divenne Presidente della Commissione”.

Quindi Violante ha detto no alla trattativa perché non ha voluto essere il garante dell’operazione. E dice no anche semplicemente ad ascoltare Ciancimino…

“Strano come l’unico politico condannato per mafia non sia stato mai ascoltato nonostante le sue continue richieste…”

La Ferraro della cir­costanza parlò già nel 2002 col pubblico ministero fiorentino Gabriele Chelazzi che indagava sulle stragi del ’93. Quando De Donno andò a trovarla — ha ricordato ieri la Ferraro — era sconvolto per la morte di Falcone avvenuta cir­ca un mese prima, era in cerca di nuovi riferimenti giudiziari per le indagini, e lei lo invitò ad affidarsi a Borsellino, al­l’epoca procuratore aggiunto di Palermo.

Pochi giorni dopo, a Fiumicino, la stessa Ferraro ri­ferì a Borsellino il colloquio con l’ufficiale dell’Arma, avve­nuto su richiesta del magistra­to che aveva annotato il nome «Ferraro» sulla sua agenda

Con lui c’era la moglie Agnese, la quale già nel 1995 aveva parlato dell’incontro da­vanti alla Corte d’assise

ha aggiunto un particolare che potrebbe legar­si alle ultime novità emerse. Agnese Borsellino ha rivelato che pochi giorni prima di mori­re nella strage di via D’Amelio (19 luglio ’92), suo marito le confidò di aver maturato dei dubbi sul generale dei carabi­nieri Antonio Subranni, all’epo­ca comandante del Ros, il rag­gruppamento speciale di cui fa­cevano parte De Donno e l’allo­ra colonnello Mori, cioè i due carabinieri che avevano aggan­ciato Ciancimino

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    • È stato sentito per circa tre ore, dai pm di Palermo e Caltanissetta, l’ex ministro socialista della Giustizia Claudio Martelli
    • Martelli, ascoltato a Roma, ha ribadito i concetti espressi nel corso della puntata dell’8 ottobre di Annozero: «Intuii che Borsellino sapesse della trattativa fra Stato e boss per fare cessare la stagione delle stragi -ha detto- e di recente me lo ha confermato Liliana Ferraro», l’ex direttore degli Affari penali del ministero della Giustizia
    • Pure la Ferraro è stata ascoltata dai magistrati siciliani, ieri a Roma. Martelli ha negato di avere ricordato soltanto ora fatti risalenti al 1992: «Avevo parlato in numerose interviste dei miei dubbi sulla formazione del governo Amato, nel 1992, delle pressioni che subii per lasciare la Giustizia e andare alla Difesa, e della situazione di Vincenzo Scotti, che dovette lasciare gli Interni a Nicola Mancino»
    • La Ferraro, oggi stretta collaboratrice dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, direttore del Cesis (il coordinamento tra Servizi segreti), ieri ha parzialmente confermato questa versione, sostenendo di non averla rivelata prima perchè essa era nota anche ad altri soggetti istituzionali, in particolare investigatori.
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    • il ‘papello’, cioè l’elenco delle richieste scritte su un foglio formato A4
    • accanto a questo elenco spunta a sorpresa un altro ‘papello’ con le proposte e le modifiche ai 12 punti pretesi dai corleonesi che don Vito Ciancimino avrebbe scritto di proprio pugno e consegnato all’allora colonnello del Ros, Mario Mori
    • Il fatto, inedito, è documentato dal L’espresso con alcune foto dei fogli in cui si leggono al primo punto i nomi di Mancino e Rognoni; poi segue l’abolizione del 416 bis (il reato di associazione mafiosa); “Strasburgo maxi processo” (l’idea di Ciancimino era quella di far intervenire la corte dei diritti europei per dare diverso esito al più grande procedimento contro i vertici di Cosa nostra); “Sud partito”; e infine “riforma della giustizia all’americana, sistema elettivo…”.
    • Su questo “papello” scritto da Vito Ciancimino era incollato un post-it di colore giallo sul quale il vecchio ex sindaco mafioso di Palermo aveva scritto: “consegnato al colonnello dei carabinieri Mori dei Ros”. Per gli inquirenti il messaggio è esplicito e confermerebbe il fatto che ci sarebbe stato una trattativa fra i mafiosi e gli uomini delle istituzioni.

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Borsellino non fu avvisato dell’imminente pericolo. Storia di una trattativa che nessuno ricorda.

Il giallo sulla strage di Via D’amelio, se possibile, si è complicato ancora di più. Altri personaggi sulla scena – Claudio Martelli, Liliana Ferraro, dopo la puntata di Annozero, e oggi Antonino Ingroia e il "tenente" dei Carabinieri Canale.
In sostanza, i Carabinieri sapevano dell’imminente attentato. La Mafia doveva colpire anche Di Pietro, che però fu mandato in America Latina, al fine di proteggerlo. Si dice che Borsellino avesse rifiutato la protezione – oggi, su La Stampa. Ieri, Peter Gomez ha però scritto che proprio se lo dimenticarono di avvisare Borsellino, che ci fu un inconveniente. Borsellino però sapeva dell’esistenza del dossier del Ros, "Mafia e appalti" – lo conferma oggi Ingroia, su La Stampa; sapeva dell’inchiesta di Palermo su Dell’Utri – lo disse nella famosa "ultima intervista" a una tv francese. Sapeva forse anche della trattativa fra i Carabinieri del Ros e Don Vito Ciancimino. Lo dirà in settimana la ex collaboratrice di Falcone, Liliana Ferraro alla procura di Caltanissetta. Martelli, pure, lo dirà alla procura. Nell’intervista a Annozero si è miracolosamente ricordato dell’incontro con la Ferraro e delle confidenze fatte. Fu lui a parlare alla Ferraro della trattativa e del suo rifiuto, e forse poi la Ferraro lo disse a Borsellino. Che a sua volta fu ricevuto al Ministero dell’Interno, forse dal ministro stesso e da tale Bruno Contrada. Ma chi dovrebbe sapere, non sa, non ricorda.
Anche Di Pietro interrogò Ciancimino, e persino lui non lo ricorda. Non ricorda nulla e pure non ne parla sul suo blog. Forse da quell’interrogatorio non fu cavato un ragno da un buco. Ciancimino si rifiutò di fornire informazioni poiché non si sentiva "politicamente protetto". È questo il nocciolo del problema. Chissà se questa copertura gliel’hanno data. Chissà in cambio di cosa.

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    • C’è un piccolo giallo nella storia dei mille misteri della stagione stragista di Cosa nostra del ‘92 e del ‘93. Di per sé è un episodio insignificante, ma che è importante perché è la dimostrazione che dopo 17 anni dalle stragi di Capaci e di via D’Amelio i ricordi poi non sono così nitidi

    • Paolo Borsellino sapeva che era in corso una trattativa tra Cosa nostra e ufficiali del Ros dei carabinieri

    • Il piccolo giallo a cui facciamo riferimento è un interrogatorio di Vito Ciancimino da parte dell’allora pm Antonio Di Pietro.

    • Massimo Ciancimino, ha rivelato che il padre voleva essere interrogato dal pm di Mani pulite e che gli fu negato. Lo stesso Di Pietro, presente in trasmissione, è trasecolato. Stupito per questa richiesta mai comunicatagli

    • invece Di Pietro interrogò Ciancimino nel carcere romano di Rebibbia, nei primi mesi del ‘93. Lui stesso adesso precisa: «Non ricordo assolutamente la circostanza. Può essere accaduto. A quel tempo interrogavo decine di persone, ero impegnato nell’inchiesta Enimont»

    • Di Pietro non ricorda, dunque

    • il pm di Milano rimase deluso da quel colloquio: «Ciancimino non aggiunse nulla che il pm di Mani pulite non sapesse»

    • Massimo Ciancimino conferma quell’incontro avvenuto nel carcere di Rebibbia: «Erano presenti anche i magistrati di Palermo

    • l’interrogatorio di Ciancimino da parte di Di Pietro è un’ulteriore conferma che a cavallo delle stragi di Palermo e del Continente (Firenze, Roma e Milano) il rapporto del Ros di Mori e De Donno su «Mafia e Appalti» rappresentava uno spunto di indagine per arrivare a una qualche verità anche sulla scelta (apparentemente) suicida di Cosa nostra di abbracciare la strategia eversiva

    • Borsellino rimase colpito dagli appunti trovati sull’agenda elettronica di Giovanni Falcone. Ne parlò il 12 novembre del 1997 nel processo di Caltanissetta Antonio Ingroia (che oggi è uno dei pm che indagano sulla trattativa): «Borsellino si concentrò su quegli appunti. Tra questi, uno di quelli cui egli mi fece riferimento fu la vicenda relativa all’ormai famigerato rapporto del Ros su "Mafia e Appalti", rispetto al quale ebbe dei colloqui sia con ufficiali dei carabinieri sia con colleghi del mio ufficio, per cercare un po’ di ricostruire la sua storia»

    • Ingroia: «Ne parlò con il tenente Canale. Credo che vi sia stato anche un qualche colloquio con il capitano De Donno»

    • Ingroia, nel suo interrogatorio a Caltanissetta non fece riferimento a confidenze di Paolo Borsellino sul fatto che sapesse della trattativa intavolata da Mori e De Donno con Ciancimino

    • Nei prossimi giorni, Martelli e Ferraro saranno sentiti dai pm di Palermo e di Caltanissetta. L’ex capitano De Donno nega di aver incontrato Liliana Ferraro

    • «Il Secolo XIX» di ieri ha scritto che Paolo Borsellino fu informato dell’allarme lanciato dal Ros su un possibile doppio attentato: a Milano contro Antonio Di Pietro, a Palermo contro di lui. Ma se Di Pietro espatriò in America Latina, Borsellino non ne volle sapere.

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    • Ci sono dentro tutti. Gli uomini di Governo e di opposizione: quelli che tra il 1992 e il 1993, mentre per strada scoppiavano le bombe di mafia, erano al corrente della trattativa intavolata tra Cosa Nostra, i servizi servizi segreti e i carabinieri

    • il premier Silvio Berlusconi e il suo braccio destro Marcello Dell’Utri che, tra il ’93 e il ’94, proprio nei giorni in cui stava nascendo Forza Italia, furono informati, secondo il pentito Giovanni Brusca, di tutti i retroscena delle stragi

    • A Berlusconi

    • la mafia fece arrivare

    • messaggio preciso

    • i tuoi avversari politici non possono far finta di cadere dalle nuvole, non ti possono tenere sotto schiaffo, perché ci sono di mezzo anche loro; dacci invece una mano per risolvere i nostri problemi altrimenti noi continuiamo con le bombe e finiremo per renderti la vita impossibile

    • Claudio Martelli, ha svelato di essersi opposto al dialogo tra Stato e Antistato e di aver fatto arrivare la notizia della trattativa in corso a Paolo Borsellino (che si mise di traverso e forse anche per questo fu ucciso)

    • Un ricatto in cui affonda le sue radici la Seconda Repubblica

    • Borsellino, intorno al 23 giugno del 1992, viene avvertito da una collega del ministero dei colloqui che il colonnello Mario Mori e i capitano Giuseppe De Donno hanno avviato con l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino.

    • In quel momento parlare con i vertici dell’organizzazione vuol dire convincere Totò Riina che le stragi pagano perché lo Stato è disposto a scendere a patti

    • Dice di no da subito e per questo il 25 giugno, durante un dibattito pubblico, spiega di aver ormai i giorni contati. Poi incontra Mori e De Donno. E, il primo luglio, vede il nuovo ministro degli Interni, Nicola Mancino (che continua a negare di avergli parlato) e il numero due del Sisde, Bruno Contrada

    • Fatto sta che Riina cambia strategia

    • Evita di uccidere, come programmato, il leader della sinistra Dc siciliana, Lillo Mannino, (considerato un traditore) e fa invece saltare in aria il 19 luglio Borsellino

    • E da un’incredibile dimenticanza: Borsellino non viene informato dell’esistenza di una relazione dell’Arma che dà per imminente un’azione di Cosa Nostra contro di lui e contro l’allora pm, Antonio Di Pietro

    • Brusca e Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, assicurano che Cosa Nostra era al corrente di come il presunto referente governativo della trattativa fosse Mancino

    • pure l’ex comunista Luciano Violante, all’epoca presidente della commissione antimafia, sapeva che i carabineri parlavano con l’ex sindaco mafioso

    • a questo punto che, secondo Brusca, entrano in scena Berlusconi e Dell’Utri

    • intorno al 20 settembre del ‘93, Brusca legge un’articolo su L’Espresso in cui si parla del Cavaliere e di Vittorio Mangano

    • Riina, che non gli aveva mai parlato di questo legame con la Fininvest, è ormai in carcere

    • Brusca pensa di utilizzare Mangano per fare arrivare al Cavaliere il suo messaggio. Ne parla con Luchino Bagarella

    • Verso metà ottobre Mangano parte in missione. A novembre, come risulta da un’agenda sequestrata a Dell’Utri, l’ideatore di Forza Italia lo incontra

    • i colloqui, mediati secondo il pentito da degli imprenditori delle pulizie di Milano, proseguono almeno fino alle elezioni del marzo ‘94

    • Brusca ricorda: “Mangano mi disse che Berlusconi era rimasto contento”

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Violante, Martelli e le rimembranze. Le discordanze di Mancino. Storia di una trattativa che non si chiama trattativa.

Nicola Mancino, oggi vicepresidente del CSM, non sa, non ricorda. Ma quando Martelli, ex ministro della Giustizia dello stesso governo in cui Mancino era ministro dell’Interno, ha riferito dell’incontro fra De Donno e la collaboratrice di Falcone, Liliana Ferraro, Mancino non si è affrettato a smentire, a dire, quello che dice Martelli è destituito di ogni fondamento; no, questo non l’ha detto. Ha detto che quel che ha riferito De Donno alla Ferraro, e cioé che Ciancimino cercava coperture politiche per continuare a parlare con i Carabinieri, non si può definire "trattativa". Quindi, se parlate a Mancino di una trattativa fra Stato e Mafia, egli la negherà sdegnato. E certo, lui non la chiama trattativa. La chiama in un altro modo, che finora non ci ha voluto rivelare. Però De Donno dalla Ferraro ci è andato. Sennò avrebbe dovuto dire, non sapevo nulla di questo incontro. In sostanza, Mancino contraddice proprio De Donno, il quale afferma di non essere mai stato dalla Ferraro. E’ una menzogna, dice il carabiniere, e querelo chi mi diffama.
Bè, che cominci pure da Mancino.
Intanto, Luciano Violante, nel ’92 presidente della commissione antimafia, tornerà nella stessa per riferire di quanto detto nei mesi scorsi circa la presunta trattativa, della quale lui non sapeva nulla ma ha vaga memoria di una visita di Paolo Borsellino al ministero dell’Interno, fatto che Mancino non sa, non ricorda.

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    • L’altra sera l’ex ca­pitano dei carabinieri Giuseppe De Donno ha visto in tv Annoze­ro , come altri cinque milioni e ot­tocentomila italiani

    • ha ascolta­to il racconto dell’ex Guardasigil­li Claudio Martelli, che lo riguar­dava da vicino: nel giugno del 1992, dopo la strage di Capaci, l’ufficiale dell’Arma andò da Li­liana Ferraro, la collaboratrice di Giovanni Falcone che ne prese il posto alla direzione generale del ministero della Giustizia, per dir­le che l’ex sindaco mafioso di Pa­lermo Vito Ciancimino «aveva una volontà di collaborazione, che si sarebbe però esplicata se avesse avuto delle garanzie poli­tiche »

    • La Ferraro gli consigliò di parlarne con Paolo Borsellino e poi — ha rivelato Martelli al giornalista Sandro Ruotolo — lei stessa lo confidò al magistra­to nel trigesimo della morte di Falcone, cioè il 23 giugno ’92

    • La reazione dell’ex capitano De Donno, all’indomani della puntata di Annozero , è piuttosto decisa: «L’episodio descritto dal­l’onorevole Martelli è completa­mente falso e destituito di qual­siasi fondamento

    • quell’episo­dio non è mai avvenuto

    • Secondo un’ipotetica ricostruzione infat­ti, Borsellino potrebbe essere stato eliminato subito dopo Fal­cone perché aveva saputo dei contatti tra «pezzi» di Stato e Co­sa Nostra, e si sarebbe opposto; nell’immediato non fu un buon affare per i mafiosi, giacché la nuova strage fece immediata­mente diventare legge il «carce­re duro» e benefici pressoché il­limitati per i pentiti, ma non c’era alternativa

    • Martelli non ha fatto cenno a tutto questo, né ha usa­to la parola «trattativa» o tirato in ballo il governo

    • ha volu­to precisare che secondo lui i ca­rabinieri «non avevano alcun ti­tolo per intavolare un’azione di persuasione» con Ciancimino

    • Ma l’accenno alla «copertura po­litica » evoca quanto affermato di recente da Massimo Ciancimi­no, figlio di Vito, sulle garanzie politiche che suo padre preten­deva per continuare a parlare coi carabinieri: De Donno e l’al­lora colonnello Mori

    • Ciancimino jr, che sostie­ne di aver visto e di voler conse­gnare ai magistrati una copia del famoso «papello» con le ri­chieste di Riina, ha indicato co­me altro ipotetico «garante» ri­chiesto dal padre l’ex ministro dell’interno Mancino, oggi vi­ce- presidente del Csm

    • Il prossimo 20 ottobre deporrà in aula l’ex presidente della commissione parlamenta­re antimafia Luciano Violante che — a 17 anni di distanza dai fatti, come Martelli — ha raccon­tato di quando Mori gli chiese di incontrare «privatamente» Cian­cimino, su sollecitazione dell’ex sindaco

    • Pure su questa circo­stanza c’è totale contrapposizio­ne tra la versione di Violante e quella di Mori, che nega di aver mai proposto una simile iniziati­va all’ex deputato

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    • "Per quanto riguarda la mia responsabilità di ministro dell’Interno, confermo che nel ’92 nessuno mi parlò di possibili trattative". Nicola Mancino, oggi vicepresidente del Csm, replica così alle affermazioni fatte anche dal suo predecessore Claudio Martelli nella puntata di Annozero andata in onda ieri sera

    • Paolo Borsellino sarebbe stato informato di questa trattativa una ventina di giorni prima di essere ucciso. Quella trattativa c’è stata, ribadisce oggi Michele Santoro, ed è "continuata anche dopo la strage di via D’Amelio" aggiunge il conduttore commentando le parole di Mancino

    • Nel corso della puntata di ieri sera Sandro Ruotolo ha riferito quanto raccontato dall’ex ministro della Giustizia, Claudio Martelli, secondo cui anche il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato a conoscenza del "dialogo" aperto dall’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, che agiva come canale di collegamento tra Cosa nostra e pezzi dello Stato. Una circostanza che aggiunge ulteriori misteri alla vicenda del magistrato ucciso nell’estate del 1992 in via D’Amelio.

    • Dopo le dichiarazioni fatte ieri sera, il cronista di Annozero Sandro Ruotolo e l’inviato di Repubblica Francesco Viviano sono stati interrogati questa mattina come testimoni in procura, a Palermo, proprio a proposito delle rivelazioni sulla trattativa fra Stato e Cosa Nostra. Ruotolo, ascoltato dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dal sostituto Nino Di Matteo, ha raccontato come sono andate le cose nel corso della preparazione della puntata, confermando quanto gli è stato riferito personalmente dall’ex ministro della Giustizia, Claudio Martelli e cioè che Paolo Borsellino fu informato da Liliana Ferraro del fatto che i carabinieri cercavano una copertura ‘istituzionale’ per un’eventuale trattativa con Cosa nostra attraverso Ciancimino.

    • "Desidero far presente – dice l’allora ministro dell’Interno, Nicola Mancino – che intanto si può parlare di una trattativa intavolata con lo Stato in quanto ad autorizzarla abbia dato il suo consenso chi del governo all’epoca aveva la legittima rappresentanza: il Capo del governo, il ministro dell’Interno o il ministro della Difesa. Per quanto mi riguarda, confermo che nel’92 nessuno mi parlò di simili trattative"

    • "Il riferito incontro, come ricostruito ad Annozero dall’onorevole Claudio Martelli – prosegue Mancino – fra il capitano Giuseppe De Donno e la dottoressa Liliana Ferraro, all’epoca responsabile dell’ufficio del ministero della Giustizia già ricoperto dal giudice Falcone, incontro durante il quale il capitano De Donno rappresentava la disponibilità di Vito Ciancimino a collaborare a fronte di garanzie politiche, si concluse con l’invito rivolto dalla dottoressa Ferraro al capitano De Donno di parlarne al giudice Borsellino, incaricato delle indagini"

    • si chiede Mancino, "è questa una trattativa?"

    • Da ministro dell’Interno, ricorda Mancino, diedi "immediato e decisivo impulso" a provvedimenti legislativi "adeguati a rafforzare l’azione di contrasto alla mafia"

    • Le parole di Mancino provocano la replica di Michele Santoro: "La verità è tutta da accertare. Ma sicuramente bastano le deposizioni degli ufficiali che contattarono Vito Ciancimino, l’allora colonnello Mori e il capitano De Donno, per essere certi che la trattativa continuò anche dopo via D’Amelio. Questo, per amore della verità", ha detto il giornalista

    • "Data l’importanza dell’argomento – aggiunge Santoro – vorrei semplicemente sottolineare che l’intervento della dottoressa Ferraro precedette la strage di via D’Amelio. Come siano andate effettivamente le cose è tutto da verificare, anche se Massimo Ciancimino ritiene che proprio in quei giorni la trattativa sia entrata nel vivo"

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Join the dots. Unisci i puntini. Il segreto dell’agenda rossa. Città di luce. Città d’ombra.

Ci sarà a breve, il 26 settembre, una manifestazione a Roma organizzata dal fratello di Paolo Borsellino, Salvatore. Tornerà a chiedere giustizia. Tornerà a chiedere, chi sa parli. Per impedire che venga sepolta la memoria, insieme ai giudici.
Chi sa, parli. Un uomo incontrò Borsellino, al Viminale. Forse sì, Forse no. Non ricorda. Forse lo ha incrociato nei corridoi. Forse c’era in corso una trattativa. Fra lo Stato e certi amici o nemici, non si sa. Meglio che si dica nemici. Meglio che si racconti che non c’era alcuna trattativa. Che c’era una guerra, e tutto lo Stato era coeso, impegnato a combattere quel nemico.
Meglio scrivere, anzi farne dei film, che questi amici nemici sono dei brutali assassini, degli animali, che non hanno nulla a che fare con noialtri, noi dello Stato. Meglio rappresentarli come dei bruti nascosti nei coni d’ombra delle strade, dei reietti, messi ai margini; potenti sì, ma per via della forza fisica, non di quella "relazionale". No, ecco. Meglio lavarsene le mani.

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    • Se provate a chiedere a un fruitore medio di fiction e di film sulla mafia che idea si sia fatto della stessa, vi sentirete sciorinare i nomi dei soliti noti: Riina, Provenzano, i casalesi e via elencando.
    • Una storia di brutti sporchi e cattivi, e sullo sfondo la complicità di qualche colletto bianco
    • Se dunque la mafia è solo quella rappresentata (tranne qualche eccezione) da fiction e film, è evidente che il fruitore medio tragga la conclusione che la soluzione del problema consista nel mettere in carcere quanti più brutti sporchi e cattiv
    • Questo, con le dovute varianti, il pastone culturale ammannito da fiction e film di conserva con la retorica ufficiale televisiva, e metabolizzato dall’immaginario collettivo
    • come mai, tenuto conto che le cose sono così semplici, lo Stato italiano è riuscito a debellare il banditismo, il terrorismo e tante altre forme di criminalità, ma si rivela impotente dinanzi alla mafia che dall’unità d’Italia a oggi continua a imperversare in gran parte del Paese?
    • quando a un fruitore medio ponete queste e altre domande, lo vedrete annaspare cercando vanamente possibili risposte nell’infinita massa di fotogrammi, immagini e battute stipate nelle sue sinapsi, dopo centinaia di ore trascorse a vedere fiction e film che raccontano le note storie di brutti sporchi e cattivi.
    • Mentre sceneggiatori continuano a proiettare catarticamente il male di mafia sul monstrum (colui che viene messo in mostra) – Riina, Provenzano, Messina Denaro, i casalesi – elevato a icona totalizzante della negatività, centinaia di processi celebrati in questi ultimi quindici anni hanno raccontato un’altra storia della mafia, sacramentata da sentenze passate in giudicato, che fornisce risposte illuminanti a molte delle domande di cui sopra
    • centinaia di delitti, di stragi di mafia decise in interni borghesi da persone come noi
    • Un’altra storia che ha dimostrato come la città dell’ombra – quella degli assassini – e la città della luce, abitata dalle “persone perbene”, non siano affatto separate ma comunichino attraverso mille vie segrete
    • Centinaia di processi che costringono a rileggere la storia della mafia non più come una storia altra, che non ci appartiene e non ci chiama in causa, ma piuttosto come un terribile e irrisolto affare di famiglia, interno a una classe dirigente nazionale tra le più premoderne, violente e predatrici della storia occidentale
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    • un’altra manifestazione con al centro l’agenda rossa «rubata» di Paolo Borsellino è già in cantiere
    • contro le istituzioni coinvolte nella trattativa stato-mafia che portò alla morte dell’unico ostacolo alla patto: quello stesso Paolo Borsellino che scrisse sulla sua seconda agenda, quella grigia, di aver incontrato Mancino il primo luglio del 1992, il giorno del suo insediamento come ministro dell’Interno e 18 giorni prima di morire.
    • «Lì a mio fratello venne proposta la trattativa con i boss e lui l’avrà rifiutata in maniera schifata. Oltre a Mancino, che continua a negare dando implicitamente del bugiardo a mio fratello, c’era anche Bruno Contrada, che poco prima il pentito interrogato da Paolo, Gaspare Mutolo, aveva additato come colluso con cosa nostra» ha detto Salvatore Borsellino.
    • il 26 settembre sarà la volta della capitale. Alle 14 il corteo si riunirà in piazza della Repubblica (Esedra) e da lì il corteo concluderà il suo corso in piazza Barberini. La marcia sarebbe dovuta passare dapprima davanti la sede del Consiglio Superiore della Magistratura, per ossimoro ubicata in Piazza Indipendenza, e poi al Quirinale, la sede della presidenza della Repubblica; a causa del protocollo sulla sicurezza che vige sulle manifestazioni romane, al Quirinale si potrà recare solo una delegazione di una cinquantina di persone
    • cominciano a muovere le loro pedine, Rutelli, Violante, il Pg di Barcellona Pozzo di Gotto; noi dobbiamo agire più rapidamente di loro, impedire che fermino Sergio Lari, Antonio Ingroia, Nino Di Matteo.
    • impediamo che chiudano la bocca a Massimo Ciancimino, che si muova il CSM, facciamogli capire che dovranno passare sui nostri corpi, che dopo 17 anni non ci lasceremo strappare ancora una volta la verità

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Pugliagate: Vendola attacca il magistrato. Ma perché non fare autocritica?

La lettera di Vendola al magistrato Digeronimo riapre la questione Puglia: ma per quale motivo attaccare il magistrato? Perché non parlare invece di Tedesco? Perché non parlare della gestione della Sanità in Puglia? E c’è chi nel PD si spreca in giustificazioni dell’intervento epistolare di Vendola. Se lui è pulito, che ha da lamentarsi? Dovrebbe invece invocare giustizia.

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    • “Io ho la buona e piena coscienza – aggiunge Vendola – non solo di non aver mai commesso alcun illecito nella mia vita, ma viceversa di aver dedicato tutte le mie energie a battaglie di giustizia e legalità. ‘Nichi il puro’ titola Panorama – prosegue il governatore della Puglia – per stigmatizzare le mie presunte relazioni con un imprenditore che non conosco (Carlo Columella titolare della azienda Tradeco ndr) e a cui ho chiuso, dopo trent’anni, una discarica considerata un autentico eco-mostro. Stupefacente notare che L’Espresso pubblica un articolo fotocopia del rotocalco rivale – sottolinea il governatore – sarebbe carino indagare sul calco diffamatorio che origina questa singolare sintonia di scrittura. In effetti mi considero un puro: e non rinuncio ad aver fiducia nel genere umano e a credere che la giustizia debba alla fine trionfare”.
    • “Io ho la buona e piena coscienza – aggiunge Vendola – non solo di non aver mai commesso alcun illecito nella mia vita, ma viceversa di aver dedicato tutte le mie energie a battaglie di giustizia e legalità. ‘Nichi il puro’ titola Panorama – prosegue il governatore della Puglia – per stigmatizzare le mie presunte relazioni con un imprenditore che non conosco (Carlo Columella titolare della azienda Tradeco ndr) e a cui ho chiuso, dopo trent’anni, una discarica considerata un autentico eco-mostro. Stupefacente notare che L’Espresso pubblica un articolo fotocopia del rotocalco rivale – sottolinea il governatore – sarebbe carino indagare sul calco diffamatorio che origina questa singolare sintonia di scrittura. In effetti mi considero un puro: e non rinuncio ad aver fiducia nel genere umano e a credere che la giustizia debba alla fine trionfare”.
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    • Il vicepresidente del Csm Nicola Mancino ha chiesto alla Prima commissione di valutare l’eventuale apertura di una pratica a tutela del pm di Bari Desirè Digeronimo dopo le dichiarazioni del presidente della Regione Puglia Nichi Vendola che l’ha accusata di volerlo danneggiare con una gestione “strumentale” dell’inchiesta che sta conducendo sull’attività della Giunta.
    • “Invito la Prima commissione consiliare del Csm – ha scritto Mancino al presidente della commissione – a valutare se la lettera inviata dal presidente della Regione Puglia, on Nichi Vendola, alla dottoressa Desirè Digeronimo, pm presso il tribunale di Bari, concretizzi la sussistenza dei presupposti previsti dalla recente novella regolamentare per l’apertura di una pratica a tutela
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    • E’ “giusta e legittima l’appassionata lettera” scritta dal presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola, al pm antimafia Desiree Digeronimo che conduce un’indagine sull’attività della giunta regionale in riferimento al settore della sanità. Lo afferma in una nota il capogruppo del Pd alla Regione Puglia, Antonio Maniglio.
    • “Vendola – scrive Maniglio – aveva il diritto di interrompere il circo mediatico che da settimane, rimestando la solita minestra, comunica un’immagine falsa del governo della Puglia e del suo presidente”.
    • “E se i comportamenti del presidente, e la sua vicenda personale, sono cristallini, penso sia giusto rivendicare – aggiunge Maniglio – che l’insieme dell’azione di governo di questi anni è stata improntata a logiche di trasparenza e di correttezza”.
    • “Ma proprio perché – afferma – non ci appartiene la cultura del sospetto e chiediamo che le indagini vadano avanti, ci permettiamo – molto sommessamente – di suggerire una maggiore sobrietà nel lavoro di accertamento di eventuali responsabilità e tempi rapidi nelle conclusioni, per evitare che l’indagine – come ha scritto Vendola – diventi esclusivamente strumento di lotta politica contro il centrosinistra”.
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    • la lettera aperta di Nichi Vendola, governatore della Puglia e segretario di Sinistra e Libertà, a uno dei pm antimafia di Bari che indagano sulla sua vecchia giunta, Desirèe Digeronimo.
    • Farà piacere agli elettori della cosiddetta “sinistra radicale” sapere che il loro leader definisce un’indagine giudiziaria “strumento di una campagna politica e mediatica che mira a colpirmi”, a “costruire scientificamente la mia morte”, in cui “i briganti prendono il posto dei galantuomini”. Dopodichè pretende di scegliersi il pm che più gli aggrada, intimando alla Digeronimo di “astenersi per la ovvia e nota considerazione che la sua rete di amici e parenti le impedisce di svolgere con obiettività l’inchiesta”.
    • Le insegna il mestiere, invitandola a spogliarsi di “una mole di carte trattenute dalla Procura antimafia” mentre avrebbero “attinenza con eventuali profili di illiceità nella Pubblica Amministrazione”. La accusa di aver acquisito “atti che costituiscono il processo di gestazione di alcune leggi, come se le leggi fossero sindacabili dall’autorità inquirente”.
    • E conclude brillantemente con un ultimo copia-incolla del prontuario berlusconiano anti-giudici: “polverone”, “spettacolarizzazione delle indagini”. Mancano solo il “giustizialismo” e la “giustizia a orologeria”, e poi pare di sentir parlare un Berlusconi, un Ghedini o un Bondi qualsiasi. Il tutto dalle labbra di Nichi Vendola, già icona dell’antimafia “de sinistra”, già paladino della legalità e della questione morale, già animatore degli incontri di “Libera” con don Ciotti e col fior fiore della magistratura più impegnata. E’ bastato che i magistrati cominciassero a ronzare nei suoi paraggi, e il compagno Nichi è diventato come tutti gli altri politici.

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L’agente CarloFranco. La teledipendenza di Ciancimino.

Il TG3 delle 19.00 di oggi raccontava che i magistrati già sanno il nome e il numero dell’agente del Sisde che archittettava le trame per la trattativa Stato-Mafia. Non l’ha detto nessun altro telegiornale della tv di stato. Da Nicola Mancino nessun segno di risveglio. La memoria latita. Oppure sta stringendo le chiappe. Forse Ciancimino jr. non vivrà a lungo. Lui dice di temere di essere ucciso. Eppure va in tv e parla alle telecamere. Tutti conoscono il suo volto. Quale pentito rischia la vita andando sempre in tv?

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    • Sono più di una le sim di telefono cellulare ritrovate dai magistrati di Palermo, sequestrate a Massimo Ciancimino il giorno del suo arresto avvenuto nel giugno 2006.

    • I sostituti Roberto Scarpinato e Nino Di Matteo stanno accertando, con l’aiuto del dichiarante, quale dei numeri registrati si riferisce all’agente dei servizi "Carlo-Franco", che era in contatto con i Ciancimino, padre e figlio. Le schede non erano nella disponibilità della Corte d’appello, davanti alla quale si svolge il processo per riciclaggio a Massimo Ciancimino, ma i sostituti sono riusciti ad acquisirle dopo aver avviato una ricerca fra i documenti che erano stati sequestrati all’indagato il giorno in cui è finito in cella.
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    • stando all’annuncio di Rutelli, il Copasir avrebbe intenzione di convocare il procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, e il premier Silvio Berlusconi
    • Quanto al primo, non si capisce quale contributo potrebbe fornire, visto che l’inchiesta appena riaperta su depistaggi e possibili mandanti esterni delle stragi è in pieno svolgimento ed è improbabile che si concluda prima di molti mesi.
    • Quanto al secondo, nel 1992-’93 non era in politica, essendovi entrato l’anno seguente, a stragi concluse: sarebbero molte le domande da porgli sui rapporti suoi e del fido Dell’Utri con la mafia. Ma la sede ideale non è il Copasir, bensì l’Antimafia
    • Il Copasir dovrebbe invece concentrarsi sui rappresentanti di quello scorcio di Prima Repubblica. Per esempio mettendo a confronto Nicola Mancino e Giuseppe Ayala. Mancino, all’epoca ministro dell’Interno, ha sempre negato di aver incontrato Borsellino, che invece annotò un incontro con lui al Viminale il 1° luglio ‘92, 16 giorni prima di essere assassinato in via d’Amelio. Ayala l’ha smentito a distanza di 17 anni, salvo poi tentare di smentire la smentita (ma, purtroppo per lui, a confermarla c’è la registrazione della sua intervista sul sito Affaritaliani.it).
    • Il Copasir potrebbe poi convocare il generale Mario Mori, all’epoca vicecomandante del Ros impegnato in una sconcertante trattativa con la mafia tramite Vito Ciancimino, dopo Capaci e via d’Amelio. Trattativa di cui Violante, sempre con 17 anni di ritardo, ricorda di essere stato in qualche modo informato dallo stesso Mori

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La trattativa era politica.

La trattativa era “politica”. C’era un’intenzione politica dietro le iniziative del Gen. Mori e degli agenti dei servizi segreti. Violante, allora Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, era all’opposizione. Se la trattativa era “politica”, quindi c’era l’avallo o l’impulso o l’ordine a trattare, e questo avallo o impulso o ordine non poteva che provenire da esponenti politici della maggioranza di Governo. Poteva essere che un Generale dei Carabinieri diciamo così “deviato”, per quanto deviato fosse, si presentasse da un capo dell’opposizione e rivelasse che vi era in corso una trattativa con la mafia e che questa trattativa aveva carattere politico, il tutto impunemente, senza creare alcun problema istituzionale sul controllo dei servizi di “intelligence”? Il Ministro dell’Interno cosa faceva nel frattempo? (Probabile – immaginiamo – che in questi istanti stia preparando le proprie dimissioni da vicepresidente del CSM, quale è tuttora).

“Il generale Mori mi disse che la trattativa era politica” – cronaca – Repubblica.it.

  • Per tre volte il generale Mario Mori cercò di far incontrare “privatamente” don Vito con Luciano Violante. E per tre volte il presidente della Commissione parlamentare antimafia, in quel lontano 1992, respinse l’invito.Luciano Violante
  • punto cruciale di quell’impasto di diciassette anni fa fra i Corleonesi e i servizi segreti: chi aveva “autorizzato” ufficiali dell’Arma dei carabinieri a venire a patti con Cosa Nostra? Chi aveva dato il nulla osta per avviare un negoziato con Totò Riina ancora latitante?
  • Quest’altro “pezzo” di verità l’ha rivelata Luciano Violante nella sua testimonianza – giovedì scorso
  • L’inizio della vicenda è nota. Massimo Ciancimino, il figlio prediletto di don Vito, ha raccontato ai magistrati che suo padre – già in contatto con l’allora colonnello dei Ros Mario Mori e il suo fidato capitano Giuseppe De Donno – “voleva che del “patto” fosse informato anche Luciano Violante”. Il resto l’ha messo nero su bianco l’ex presidente dell’Antimafia nel suo interrogatorio.
  • Il primo incontro. Mario Mori va a trovare Luciano Violante nel suo ufficio di presidente dell’Antimafia. “Vito Ciancimino intende incontrarla”, gli dice. Aggiunge l’ufficiale: “Ha cose importanti da dire, naturalmente chiede qualcosa”. Violante risponde: “Potremmo sentirlo formalmente”. Cioè con una chiamata in commissione parlamentare: un’audizione. Ribatte Mori: “No, lui chiede un colloquio personale”. Il presidente Violante congeda l’ufficiale con un rifiuto: “Io non faccio colloqui privati”.
  • Dopo un paio di settimane Mario Mori, al tempo vicecomandante dei Ros, torna alla carica […] insistette ancora e con garbo che io incontrassi Ciancimino.
  • Fu a quel punto che Violante chiese se la magistratura fosse informata di questa voglia di “parlare” dell’ex sindaco di Palermo. Fu a quel punto che l’ufficiale dei carabinieri pronunciò quelle parole: “Si tratta di cosa politica… di una questione politica”.
  • Lo scenario che affiora dalle nuove testimonianze – fra Palermo e Caltanissetta non c’è soltanto quella di Luciano Violante – e dalle nuove indagini scopre l’esistenza di un patto cercato da diversi protagonisti e a più livelli. Non c’è stato solo e soltanto Mario Mori dei Ros. C’è stato anche quel “Carlo” che frequentava don Vito da almeno quindici anni, un agente segreto che il “papello” di Totò Riina l’ha avuto materialmente nelle mani. E, a quanto pare, adesso, ci sono “mandanti” politici che quella trattativa volevano a tutti i costi. La vera svolta sui massacri siciliani del ’92 ci sarà pienamente solo quando i magistrati identificheranno quegli altri nomi, i nomi di chi aveva approvato o addirittura suggerito di mercanteggiare con i boss.