
Sì, ce lo impone l’Europa. E’ scritto nelle sentenze della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. Viviane Reding, commissiaria alla Giustizia afferma che “le sentenze si rispettano” e che “l’Italia ha avuto venti anni per fornire risposte in tal senso”. Allora, il coro è unanime: l’età pesionabile per le donne del pubblico impiego deve essere equiparata a quella dei colleghi maschi. Sessantacinque anni per tutti. Non c’è margine di trattativa. Un po’ di titoli…
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Nuovo ultimatum della Commissione Ue all’Italia: se non equiparerà immediatamente l’età pensionabile tra uomini e donne nel settore pubblico sarà nuovamente deferita alla Corte di giustizia europea
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la sentenza della Corte europea di giustizia[…] già nel 2008 intimava all’Italia di innalzare l’età pensionabile delle dipendenti pubbliche, portandola a 65 anni anni, lo stesso livello previsto per i colleghi maschi.
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la completa equiparazione rimane fissata al 2018, mentre la Commissione Europea insiste sul termine del 2012
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L’Ue infatti non ammette sconti: l’eta pensionabile di vecchiaia delle dipendenti statali italiane deve essere portata a 65 anni dai 60 attuali a partire dal 2012 e non più dal 2018 come prevede la normativa attuale
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«Mi sembra ragionevole dare all’Italia tempo fino al primo gennaio 2012» per portare a 65 anni l’età pensionabile delle donne nel pubblico impiego: ha detto la vicepresidente della Commissione Ue, Viviane Reding, dopo l’incontro avuto col ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi
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«In una democrazia – ha aggiunto Reding – le sentenze di una Corte si rispettano sempre». «L’Italia ha avuto 20 anni, da quando sono state adottate le direttive Ue (sulla parità retributiva tra uomini e donne, ndr), per rispettare il diritto comunitario, ora dovranno mettere in ordine il loro sistema» ha aggiunto la Reding
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Viviane Reading: L’età pensionabile per le donne del settore pubblico in Italia deve essere portata a 65 anni entro il 2012. È l’avvertimento della vicepresidente della commissione Ue, Viviane Reding, al ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, durante il faccia a faccia a Lussemburgo per cercare un compromesso sulla questione. «Il cambiamento nella legislazione italiana – ha spiegato il portavoce della commissaria Ue – potrebbe essere combinato con le misure di consolidamento di bilancio».
Va da sé che la sentenza della Corte di Giustizia causa C-46/07 afferma un principio chiaro, intelleggibile, non direttamente prescrittivo di un aumento dell’età pensionabile delle donne del pubblico impiego. La sentenza parla di discriminazione – in pensione più tardi, pensione più povera – e di parità retributiva – equipara infatti il trattamento pensionistico a una retribuzione:
l’art. 141 CE vieta qualsiasi discriminazione in materia di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e lavoratori di sesso femminile, quale che sia il meccanismo che genera questa ineguaglianza. Secondo questa stessa giurisprudenza, la fissazione di un requisito di età che varia secondo il sesso per la concessione di una pensione che costituisce una retribuzione ai sensi dell’art. 141 CE è in contrasto con questa disposizione (v. sentenze Barber, cit., punto 32; 14 dicembre 1993, causa C-110/91, Moroni, Racc. pag. I-6591, punti 10 e 20; 28 settembre 1994, causa C-408/92, Avdel Systems, Racc. pag. I-4435, punto 11, nonché Niemi, cit., punto 53) – (Corte di Giustizia UE- C 46/07).
L’argomentazione spesso impiegata – anche in ambienti di sinistra – della differenza di età pensionabile fra i sessi è legata all’obiettivo di eliminare discriminazioni a danno delle donne in fatto di lavoro. Questa norma sarebbe diretta a evitare o compensare svantaggi nelle carriere professionali delle donne. La Corte, nella sentenza del 2007, si esprime in senso opposto a questo quadro argomentativo:
la fissazione, ai fini del pensionamento, di una condizione d’età diversa a seconda del sesso non è tale da compensare gli svantaggi ai quali sono esposte le carriere dei dipendenti pubblici di sesso femminile aiutando queste donne nella loro vita professionale e ponendo rimedio ai problemi che esse possono incontrare durante la loro carriera professionale (Corte di Giustizia, cit.).
Anzi, la norma in questione è generatrice di disparità in termini di retribuzione pensionistica fra i sessi. Eppure la sentenza non si conclude con alcuna intimazione della Corte a innalzare l’età pensionabile delle donne. La sentenza impone solamente allo Stato Italiano di pagare le spese del dibattimento. La Commissione ha poi aperto una procedura di infrazione nei confronti del nostro paese, che finora ha mancato di intervenire per eliminare questa norma discriminatoria. La Commissione chiede di rispettare la sentenza e di adeguare la nostra normativa alle specifiche comunitarie in fatto di parità di trattamento fra uomo e donna. Allo Stato Italiano è lasciata la scelta di decidere come: è bene ricordarselo. Il governo ha possibilità di scelta. Può riformare la norma innalzando l’età di uscita dal lavoro delle donne a 65 anni, la soluzione più in voga e di cui i giornali italiani attribuiscono la paternità alla commissaria europea Viviane Reding. Potrebbe viceversa – ma verrebbero meno i risparmi considerevoli derivanti dalla prima ipotesi – equiparare le due età a 62 anni. Non lo dicono, ma il risparmio di spesa che si genererebbe con la riforma si aggira sui circa 2 miliardi di euro in 7 anni. E due miliardi usciti così, dal cappello magico della Commissione UE non sono da buttare via. Non è finita: l’innalzamento dell’età pensionabile delle lavoratrici del settore pubblico spianerà la strada alla medesima riforma nel settore privato. Il coro univoco dell’innalzamento è talmente offuscante che il sindacato è sprofondato. Non una voce in opposizione a questo carico di mezogne. La norma è discriminatoria, è vero, quanto è vero che l’assenza di dibattito, il silenzio del PD, il fallimento del sindacato, il coro unanime di governo e Confindustria è quanto di più bieco e deviante ci possa essere.
La Sentenza della Corte di Giustizia UE- C 46/07
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