La Libia, l’ENI e quel miliardo a fondo perduto

Petrolio. Ne scrisse un libro, un giorno, un uomo, e dopo morì in circostanze misteriose. Si chiamava Pierpaolo Pasolini. Aveva romanzato la storia dell’ENI e del suo padre storico, Enrico Mattei, morto in un incidente aereo che ha ben poco dell’incidente.

L’ENI, sempre l’ENI, la ritroviamo oggi, co-protagonista della sceneggiata libica, la nuova ennesima guerra per la difesa dei diritti umani. ENi non spara, preleva. Preleva barili di oro nero, di gas naturale. Per questo paga al regime libico una quota altissima, il prezzo più salato per una compagnia estera in Libia. ENI trattiene a malapena il 12% della produzione di greggio, il 40% di gas, il resto rimane in mano libica, che commercializza per proprio conto. Questo perché negli anni ’70, quando Gheddafi era socialista e faceva la rivoluzione alla testa delle masse libiche, petrolio e gas sono stati nazionalizzati. Alla medesima maniera di Chavez in Venezuela. Una misura che è sin giusta, se ci pensate: che diritto hanno le compagnie estere di venire nel nostro paese e di sfruttarne le risorse al prezzo imposto da loro? In fondo anche l’ENI è una ‘National oil Corporation’, una compagnia di bandiera, controllata cioè dal governo, che opera all’interno dei propri confini in regime di monopolio o di semi-monopolio, al contrario di Bp, Total, ExxonMobil, multinazionali che rispondono soltanto al proprio interesse e a quello dei loro investitori.

Wikileaks ci ha permesso di conoscere le relazioni pericolose di ENI e NOC, la compagnia nazionale libica. Ce lo ricordano Debora Billi su Il Fatto (qui) e Gianni Cavallini sul suo blog (qui). ENI aveva un contratto standard, poi ha dovuto rinegoziare al ribasso, con una quota di produzione che è passata dal 35-40% al 12% come detto sopra. Dopo è partita la campagna della compagnia libica contro le altre imprese estere: tutti i nuovi contratti hanno adottato lo standard ENI, con notevole scorno per Total e soci:

23-07-2008: “Con il nuovo accordo, lo share di produzione per il consorzio europeo (quello che sviluppa la città di Marzuq, ndr) sarà ridotto dal 25% al 13%. Repsol, Omv, Total e Saga Petroleum hanno seguito altri maggiori attori in Libia nel cedere alle pressioni Noc verso il nuovo accordo Epsa IV, che prevede significative riduzioni di share per le compagnie internazionali. E se qualcuno dubita, ecco pronto un cablo in cui ci si lamenta proprio della della rigidità della Noc, e specialmente della gestione autocratica del responsabile Shukri Ghanem. Il quale, appena lo scorso anno, ha annunciato di voler estendere il fatidico accordo Epsa IV anche alle compagnie che finora hanno goduto di concessioni tradizionali (D. Billi, Il Fatto, cit.).

4. (SBU) Nell’ottobre 2007, l’ENI si è accordata con il NOC per convertire i contratti esistenti di produzione a lungo termine, che sono stati firmati a metà degli anni 1980 sotto le condizioni EPSA III, secondo il modello contrattuale più recente EPSA-IV (reftel). Tale accordo è stato presentato al Congresso Generale del Popolo Libico per l’approvazione e la ratifica, ed è stato ratificato il 12 giugno. Nell’ambito del nuovo accordo Eni ha ridotto la sua quota di produzione al 12% per il petrolio (35-50 per cento in meno per i suoi vari ambiti) e del 40% per il gas naturale (50 per cento in meno). La quota per la produzione di gas scenderà al 30% dopo il 2018. In cambio il NOC ha esteso di 25 anni i contratti EPSA III ad ENI, ha approvato un’espansione di 3 miliardi di metri cubi (BCM) per il Gasdotto della Libia occidentale (WLGP), e la costruzione di un nuovo impianto da 4 milioni di tonnellate l’anno di LNG (gas naturale liquido) a Mellitah. Eni ha accettato condizioni fiscali meno attraenti per i suoi blocchi (il suo portafoglio complessivo è sceso al 42% a causa di più base quote di produzione), e ha fatto un miliardo dollari di pagamenti a fondo perduto. Le licenze Eni sono state convertite al modello EPSA IV che ora scadrà nel 2042 (per il petrolio) e nel 2047 (per il gas) – (G. Cavallini blog, cit.).

Sappiamo – sempre per merito di Wikileaks – che anche sul fronte del gas russo l’ENI ha stretto accordi al ribasso: ne abbiamo parlato su questo blog già a dicembre. Allora emerse un quadro oscuro di società off-shore in cui si presagiva la presenza del nostro caro Presidente del Consiglio. In quella storia, ENI apriva il mercato italiano “all’ingrosso” del gas metano, di cui è praticamente monopolista, a una società facente riferimento a Gazprom. Praticamente un suicidio commerciale. Sul fronte libico, ENI ha barattato un presunto aumento di capacità di un gasdotto nonché la costruzione di un secondo tutta da definire. In aggiunta, ENI ha versato un miliardo di dollari – diconsi dollari – a fondo perduto!

A questo punto viene da domandarsi chi comanda la NOC libica. Le ‘personalità chiave’ della compagnia sono Shukri Ghanem, presidente della compagnia nonché ex Segretario Generale del Comitato del Popolo cioè del governo libico; Faraj Mohamed Said, vicepresidente; Ahmed Elhadi Aoun, Amministratore. Questi signori mettono il piede nel consiglio di amministrazione di tutte queste società (il grafico potrebbe non essere recente poiché riporta il nome di Agip):

NOC è posseduta per intero dal governo libico. L’accordo ENI è del 2007: in Italia governava Prodi. ENI era presieduta da Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’azienda dal 2005. Scaroni è stato definito il “vero” amico dei libici. Interpellato dalla stampa, ha ribadito chei rapporti fra ENI e NOC non sono affatto compromessi:

“Absolutely not, I do not think they are compromised,” said Eni Ceo Paolo Scaroni about Eni’s relations with Libya on the sideline of an audition at the lower Chamber. Scaroni said: “We are maintaining our relations with the National Oil Corporation, our natural contact there. Any political system set up in the future will have its NOC which has contracts with us, so we will continue doing business with it.” Scaroni concluded:” I don’t see any reason for our relations to be jeopardized.” (AdnKronos).

Scaroni pensa che qualsiasi sia il governo libico del futuro, NOC continuerà ad esistere e così i contratti che ENI ha con esso. Che sciocchezze: è fin troppo chiaro che il prossimo governo libico dovrà accettare la “linea francese”, che sarà forse quella della liberalizzazione del mercato del petrolio e del gas in Libia. E quel miliardino di dollari si sarà perso nel canale di Sicilia.

L’apocalisse giapponese spingerà gli USA alla guerra in Libia?

Per qualche ragione, due mari lontanissimi, il Mediterraneo e l’Oceano Pacifico, diventano stranamente “comunicanti” e non già perché si possa navigare da uno all’altro senza passare per terra, bensì perché la storia e la geologia hanno deciso così. E tutto per colpa della necessità degli uomini di avere energia a buon prezzo per le proprie attività e per le proprie abitazioni. Sì, diciamolo, per colpa del petrolio.

Da un lato, il Giappone con la sua inimmaginabile apocalisse, la distruzione di intere città e di industrie, in primis quella energetica che sta portando al melt down due o tre reattori della centrale di Fukushima. Domani è annunciato il razionamento dell’energia elettrica: per Tokyo sarà il black out. Parliamo di una città di 13 milioni di abitanti. In tutta l’area metropolitana vivono circa 35 milioni di persone. Ergo, il governo giapponese dovrà rivedere la propria politica energetica con misure emergenziali, la prima delle quali sarà incrementare la produzione di elettricità attraverso quella parte di infrastruttura che impiega combustibile non nucleare, ovvero gas e petrolio. Ma mentre per il gas è difficile incrementare la produzione in tempi brevi – sono necessari nuovi gasdotti, nuovi rigassificatori – per il petrolio il problema non sussiste: faranno arrivare qualche petroliera in più. L’energia elettrica di provenienza nucleare in Giappone è circa il 30% di quella prodotta. Considerando che gli impianti coinvolti dal sisma-tsunami sono circa sette, in funzione ne restano almeno undici delle diciotto attualmente funzionanti. Ne consegue – e questo è certo un calcolo spannometrico poiché non conosco la potenzialità degli impianti né il numero di reattori spenti – circa il 10-15% di energia in meno.

Alla riapertura dei mercati sapremo se il rally del prezzo del petrolio di questi giorni si tramuterà in una tendenza chiara al rialzo. L’incremento di fabbisogno di oro nero del Giappone produrrà una scossa sui listini dei mercati. E di riflesso avremo uno shock petrolifero in piena regola. Il sistema produttivo è in grado di reagire alla nuova domanda? I paesi OPEC incrementeranno le attività estrattive? Gli USA metteranno mano alle famigerate riserve?

Qui entra in campo il ‘problema Libia’. L’Europa se n’è lavata le mani, con Italia e Germania su una linea prudente mentre Sarkozy spingeva già per la guerra totale (o Total) al dittatore libico. Gli Stati Uniti sono divisi fra amministrazione Obama desiderosa di cacciare il brutale Gheddafi e gerarchie militari tiepide sull’ipotesi di aprire un terzo gravoso conflitto. In mezzo gli interessi petroliferi degli inglesi – Bp e le sue dannate trivelle – già a far da grancassa agli insorti, speranzosi di trovare il nuovo link per inserirsi nel paese, mentre russi e cinesi, pronti a sostituire i ‘traditori italiani’ con le loro imprese e i loro soldi, restano freddini essendo in buoni rapporti con il Raiss. Questo scenario di blocco potrebbe essere risolto in un batter d’ali se domani i mercati dovessero aprire con il barile sopra i 105 dollari:


A fine Febbraio, infatti, all’apice della crisi libica, quando sembrava che Gheddafi dovesse abbandonare il paese da un momento all’altro, il greggio è volato sopra i 100 dollari. In un solo giorno era aumentato di dodici dollari. E allora la catastrofe giapponese potrebbe far rivedere i piani degli americani: il greggio dell’Arabia Saudita potrebbe non essere sufficiente. Le truppe mercenarie di Gheddafi stanno marciando su Bengasi senza trovare resistenza. Sta a vedere che ora andrà bene anche una No Fly Zone, fatta anche male.

Petrolio in cambio di stupri, così collaboriamo con Gheddafi

Appello contro la violenza del regime libico

[Ricevo & Pubblico]

Riserve petrolifere in Libia: le zone degli scontri sono anche quelle a più strategiche per le attività estrattive

Petrolio bollente e stupri. Violenze contro le donne in Libia e affari italiani

“In Libia ci hanno torturate, picchiate, stuprate, trattate come schiave per mesi. Meglio finire in fondo al mare. Morire nel deserto. Ma in Libia no”. Parole di donne. Parole pronunciate da nigeriane, etiopi, eritree, somale che erano riuscite ad arrivare a Lampedusa. Era il 2009. L’Italia sapeva e taceva.

Gli accordi bilaterali Italia-Libia, firmati e rifirmati annualmente, hanno portato alla costruzione di quella ventina di campi di detenzione per immigrati/e, veri e propri lager [si vedano le foto di Fortress Europe], dove le donne vengono sistematicamente violentate dai loro aguzzini libici pagati coi soldi italiani.

Con la “sanatoria” dell’estate 2010 erano stati svuotati i lager libici costringendo al lavoro schiavistico le donne e gli uomini che ne uscivano; nel dicembre successivo altri 1500 fra uomini e donne sono stati rinchiusi/e in cinque centri di detenzione per “migranti irregolari” – Twisha, Zawia, Zwara, Garabulli, Surman e Sebha.

Nel dicembre 2007, il governo Prodi aveva firmato un accordo per l’avvio dei pattugliamenti congiunti italo-libici davanti alle coste africane.

Il 30 agosto 2008 era stato firmato a Bengasi il “Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione” fra Italia e Libia. Con quest’ultimo trattato, che oggi il ministro della guerra La Russa spaccia per “sospeso” (per accaparrarsi un posticino in un eventuale intervento della Nato nel Mediterraneo), il governo italiano dava a Gheddafi 5 miliardi da investire in infrastrutture e pattugliamenti dei confini terrestri, per contrastare i flussi di migranti via mare e, soprattutto, per rafforzare gli intrallazzi economici. Lo dimostra il conseguente ingresso della Libia nell’Eni con una quota di capitale rilevante che, in tre fasi, avrebbe dovuto farla diventare seconda azionista dopo lo Stato italiano, che ne possiede il 30%.

800mila barili di petrolio e 280mila barili di gas metano sono estratti ogni giorno dall’Eni in Libia, dove è presente fin dalla fine degli anni ‘50 con investimenti, in prospettiva, stimati sui 15 miliardi di euro. Nel 2007 l’Eni ha concluso un accordo strategico con la società di Stato libica Lnoc, che le ha consentito di prolungare fino al 2042 la durata dei suoi titoli minerari per l’estrazione di petrolio nel Paese e fino al 2047 quelli per l’estrazione di gas. Per non parlare del business delle armi chimiche vendute, all’inizio degli anni ’90, dall’allora EniMont alla Libia (nonché a Iran e Iraq…).

“Le attività [in Libia] proseguono nella norma senza conseguenze sulla produzione” afferma l’Eni in un comunicato del 21 febbraio 2011, mentre le truppe di Gheddafi, coadiuvate da mercenari anche italiani, stanno sterminando gli insorti usando armi italiane prodotte dal Gruppo Finmeccanica.

E non è che una pagliuzza…

Se la sola Camera di commercio italo-libica di Roma ha registrato, nei primi nove mesi del 2009, 2.627 fatture per un valore di più di 357 milioni di euro di export, non bisogna dimenticare che gli investimenti libici in Italia vanno dalle banche (Unicredit) all’edilizia (in primis Impregilo e Italcementi), alle auto (Fiat), alle telecomunicazioni (Telelit) fino alla moda e allo sport – per non fare che alcuni esempi.

Di fronte a questi fiumi di denaro che ingrassano la tasche di governi e imprese, che valore possono avere i corpi delle donne libiche che, come in Sudan,  vengono stuprate per essersi ribellate al regime?

Che valore possono avere i corpi delle donne migranti torturate e stuprate nelle carceri e nei centri di detenzione libici?

E che valore possono avere le vite delle centinaia di vittime di tratta, soprattutto nigeriane, che nei bordelli libici hanno subìto l’“iniziazione” a quella prostituzione forzata che le costringe, poi, ogni giorno sulle strade periferiche delle nostre città? Donne che, dalla prima ribellione durante la tappa forzata in Libia, vengono violentate e torturate con il petrolio bollente – come hanno raccontato alle operatrici di Be Free molte donne recluse nel lager romano di Ponte Galeria.

Petrolio bollente. Sarà una coincidenza?

Rompiamo il silenzio sulle violenze che le ribelli e le donne migranti stanno vivendo in Libia e nei lager italiani a causa degli interessi economici e delle politiche securitarie dell’Italia e dell’Unione europea!

Presidio di denuncia davanti all’Energy store Eni di Bologna (via Amendola 10) mercoledì 9 marzo 2011 dalle 17.30

Donne e lesbiche contro i Cie

[tratto da noinonsiamocomplici]

Golfo del Messico, l’olocausto nero. Disastro ambientale e cambio di paradigma

Vodpod videos no longer available.

C’è forse qualche possibilità di arrestare la perdita di petrolio dai fondali del Golfo del Messico. Lo annuncia BP, con tanto di video, sul sito della BBC (vedi qui). BP ha speso 50 milioni di dollari per la campagna informativa sul disastro. Non vuole rimetterci la faccia. L’esplosione di Deepwater Horizon è connessa alla pericolosità dell’attività estrattiva sul fondale del Golfo. Obama ha sospeso le trivellazioni off-shore. La produzione dell’oro nero conosce la sua fase più difficile: domanda in aumento, prezzo del bene variabile con continue speculazioni al rialzo, difficoltà a soddisfare la domanda interna, dipendenza dai paesi arabi, trivellazioni costose o in ambienti difficili – Artico, fondali marini. Il riferimento viene spontaneo: il picco di Hubbert è raggiunto e ora l’industria deve sostenere costi e rischi tecnici troppo alti per incrementare la produzione.

Dopo il picco, in ogni caso (o meglio dopo il picco “principale”), sebbene la variabile di prezzo e tecnologica possano quindi creare delle discontinuità e dei salti nella produzione petrolifera, secondo tale teoria comunque la produzione non può che diminuire. Infatti, sebbene sotto l’ipotesi di una domanda crescente di petrolio non supportata dall’offerta i prezzi, salendo, possano portare (quando oltre un determinato valore critico), alla scoperta o allo sfruttamento di nuovi giacimenti, tali risorse sarebbero comunque meno convenienti, meno importanti o meno disponibili di quelle già sfruttate (Wikipedia – Picco di Hubbert).

BP ha la piena disponibilità dei media. E attraverso questi rabbonisce la popolazione locale. Obama raccomanda di non esporsi in maniera continuativa alle esalazioni delle chiazze gelatinose, ma nessuno finora si è preso la responsabilità di dire che la marea nera potrà avere conseguenze molto gravi sulla salute delle persone. Nessuno ha finora quantificato il danno ambientale. BP non si espone nel dire quanti e quali specie animali sono state decimate dal disastro. BP non dice che la bonifica impiegherà anni (venti?) per ripulire una parte dell’area colpita (la costa). BP si guarda bene dal parlare delle conseguenze ambientali e degli effetti sull’uomo dell’uso dei solventi (Corexit). Obama, idem.

Soprattutto, quello che non fa Obama, pressato da una opposizione mediatica (Fox News) molto agguerrita, e che invece dovrebbe fare, è di cogliere l’occasione politica e parlare apertamente di cambio di paradigma energetico. Oggi gli stati del sud degli USA pagano un prezzo altissimo in fatto di occupazione nel settore petrolifero e nella pesca, un salasso immediato e profondo che cambierà la struttura sociale e forse aprirà all’emigrazione verso il nord est del paese. Ma il sistema-paese degli USA si scontra per la prima volta con il limite strutturale della produzione energetica, vincolata a nuove perforazioni di pozzi petroliferi che difficilmente si potranno espandere. Gli USA verranno messi ben presto dinanzi al problema energetico e la risposta non potrà che essere interlocutoria: la strada per la futura e duratura nuova recessione è aperta.