Decreto Carceri: perché la giustizia muore prima fra le sbarre

Il Decreto Svuotacarceri si appresta ad entrare in aula balcanizzata con la garanzia della fiducia. Il governo Letta, forse spaventato dalle prospettive di nuova belligeranza parlamentare, ha deciso di blindare il provvedimento stante anche all’urgenza di prendere delle misure tampone sulla situazione carceraria italiana, che a breve, nel mese di Maggio 2014,  garantirà al nostro paese le sanzioni della Corte europea dei diritti dell’uomo. I giudici di Strasburgo – lo ricordo per i più smemorati – a Gennaio 2013, con la sentenza Torreggiani, hanno condannato l’Italia per aver sottoposto sette detenuti del carcere di Busto Arsizio e di Piacenza a condizioni inumane e degradanti. Il nostro Stato ha violato la Carta Europea dei Diritti dell’Uomo, articolo 3. Nella fattispecie, la Corte ha dato diciotto mesi di tempo allo Stato italiano ed entro Maggio dovrà essere data dimostrazione che sono stati presi tutti i provvedimenti necessari a sanare la situazione, oramai in totale emergenza.

Come ha agito il governo Letta? Innanzitutto si è mosso in ritardo. Si è mosso a Dicembre, ben due mesi dopo l’appello di Napolitano, ben undici mesi dopo la sentenza. Ha agito tramite decretazione d’urgenza, oramai una prassi nel nostro sistema politico, considerata la paralisi dell’iter legislativo parlamentare. Il decreto include misure dirette ad incidere sia sui flussi di ingresso e di uscita dagli istituti di pena, fra le quali:

a) con riguardo alle ipotesi di lieve entità in materia di stupefacenti viene prevista una nuova ipotesi di reato in luogo della previgente circostanza attenuante. La norma prevede comunque una riduzione, nel massimo, della pena edittale;
b) per quanto attiene all’affidamento terapeutico si interviene per ampliare le ipotesi di concessione anche ai casi di  precedenti violazioni (come indicato dalla Corte Costituzionale) che, ovviamente continuano ad essere sottoposte alla valutazione del giudice;
c) per quanto riguarda la liberazione anticipata si amplia il beneficio dell’aumento dei giorni di detenzione (da 60 a 75) per ciascun semestre di pena espiata. Non si tratta di una misura automatica e non si determina una liberazione immediata e comunque è sottoposta alla rivalutazione del giudice. Per i reati più gravi previsti dall’art.4 bis dell’ordinamento penale è richiesta una motivazione rafforzata per giustificare la riduzione (diritto.it).

Ora, posto che il mezzo (decretazione d’urgenza per giunta blindata da mozione di fiducia) e il contenuto posso essere migliorati (uso un eufemismo), sono senz’altro meglio che niente (perché attenti, in materia di carceri il niente è stato fatto con successo, per anni e anni). Il decreto, nei suoi tecnicismi, non può essere descritto come un provvedimento di clemenza tout court: interviene forse anche limitatamente e in misura non proporzionata all’entità del problema. La popolazione carceraria in Italia è pari a 65.891, contro i 47.040 posti disponibili. Quasi 19mila in più. L’associazione Antigone ha aperto un’osservatorio online: http://www.associazioneantigone.it. Scorrendo i dati, potrete notare come siano ben 24691 i detenuti in attesa di giudizio.

Per queste ragioni, affermare come è stato fatto oggi dal pulpito del blog di Beppe Grillo che:

“La giustizia è morta. Così escono mafiosi, stupratori, assassini”

è tragicamente errato. La giustizia muore trattando così il problema delle carceri italiane. Che esiste e persisterà sia al decreto che alla sciocca banalizzazione di Grillo.

Torniamo alla sostanza dei problemi. “Popolarissimo e banalissimo dire che le persone che devono stare in carcere stiano in carcere.
Il problema è come. E la civiltà fa parte del concetto di legalità, anzi, mi dispiace, lo precede”, ha scritto recentemente Giuseppe Civati. Che ha fatto sua la proposta di Salvatore Tesoriero, il quale afferma senza dubbio che il problema carceri è soprattutto:

Un problema di legalità

Il bisogno – etico e giuridico – di rispettare la legge, insomma, impone di misurarsi con le misure per attenuare il problema del sovraffollamento. Chi liquida il problema agitando la legalità come il principio che verrebbe leso dai provvedimenti clemenziali ricorre ad uno slogan doppiamente inopportuno perché in questo caso il rispetto della legge è il motivo dell’intervento.

Tesoriero indica alcune vie d’intervento prioritarie:

  1. operare sia sui flussi d’ingresso in carcere (riducendoli) sia sulle maglie d’uscita dal circuito penitenziario (allargandole per i detenuti meno pericolosi);
  2. agire sulla struttura: applicare la messa alla prova per reati meno gravi e la detenzione domiciliare come pena principale (già in un ddl ora fermo al Senato);
  3. intervenire sulla custodia cautelare, sul trasferimento dei detenuti stranieri nei loro Paesi d’origine per scontare la pena, oltre ai, troppo spesso solo evocati, interventi di depenalizzazione di reati di minima gravità;
  4.  superare l’ottuso rigore della legge Fini-Giovanardi;
  5. investire sulle strutture socio-riabilitative come centri dove scontare la maggior parte della pena.

Il decreto del governo ha introdotto misure relative solo ai primi due punti, mentre non ha soluzioni circa la custodia cautelare, il superamento della Fini-Giovanardi, il finanziamento di strutture alternative.

Grillo impiega strumentalmente la critica al documento apportata dal procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti, nonché dal procuratore aggiunto di Messina, Sebastiano Ardita, il quale ha definito lo svuotacarceri peggio di “un indulto che fa uscire i mafiosi”. Per Roberti, se l’indulto agisce in maniera egualitaria, il decreto innesca un meccanismo tale per cui lo sconto di pena è più alto per le pene maggiori (quindi per i criminali più pericolosi). Roberti afferma che non vi è alcuno sbarramento (supermoney.eu), ma nel decreto non sono contenuti sconti automatici (come ho riportato poche righe più sopra). Deve esserci comunque la pronuncia di un giudice, specie per i reati più gravi (art. 4 bis). La valutazione di Roberti, quindi, è quantomeno incompleta. Segnalo che la liberazione di Nicola Ribisi, “pezzo grosso della mafia di Agrigento“, come descritto dallo stesso blog di Grillo, è avvenuta sulla base delle pronuncia del magistrato di sorveglianza della medesima città di Agrigento, il quale ha accolto l’istanza di liberazione chiesta dell’avvocato di Ribisi con la motivazione della “buona condotta” (Agrigentoweb.it). Sapete quando sarebbe uscito di carcere il pericoloso boss? Con la vecchia normativa, che comunque prevedeva tre mesi di sconto di pena, Ribisi sarebbe uscito a fine Gennaio 2014. Il Decreto Svuotacarceri ha anticipato la sua liberazione di ben 19 giorni.

E adesso rileggete pure il post di Grillo.

Monti, meno tasse per tutti

Ecco che fine ha fatto il bando contro il populismo del Sen. Mario Monti:

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Per un anno circa, invece, il taglio delle tasse era “prematuro”. Lo stesso ministero dell’Economia Monti-Grilli ha proposto e ottenuto l’aumento programmato dell’IVA dal 21% al 22%, che avverrà automaticamente a metà 2013 (con la pantomima in autunno della riduzione dell’aumento di un punto percentuale – dal 23% al 22% – che fece affermare al sottosegretario Polillo, in diretta a Ballarò, “abbiamo abbassato le tasse”).

Monti: “Per una riduzione delle tasse bisognerà aspettare” – Sky Tg24

Grillo, un comico da prendere sul serio via @guardian

Per John Foot (Guardian) nessuno conosce le reali ragioni del successo del Movimento 5 Stelle in Sicilia. Ma un fatto è certo: “tutti i partiti tradizionali sono terrorizzati da quel che potrà accadere alle elezioni generali nella primavera 2013”. Il M5S è in procinto di mettere da parte tutta la classe politica italiana. Non ha tutti i torti, John Foot. La sua analisi per una parte è molto simile a quanto già si è letto in Italia: ci ricorda che Grillo era un comico di successo e che si bruciò – televisivamente parlando – quando disse che i socialisti di Bettino Crazi erano dei ladri. Da allora ebbe inizio l’esilio di Grillo dalla Tv, fatto che lo ha condotto, dopo un lungo e tortuoso viaggio, all’attività di blogger e ora di capopolitico.

I seguaci di Grillo, per quanto ne sappiamo, tendono ad essere giovani e idealisti. La maggior parte dei suoi candidati non ha alcuna esperienza politica. Molti, se non tutti, sono cresciuti con internet e lo usano quasi esclusivamente per comunicare e ottenere informazioni e notizie. Il Partito di Grillo è sia postmoderno che post-politico. Ma il Movimento Cinque Stelle combina questi nuovi elementi con un vecchio stile, il populismo anti-politico.

Appunto, la vecchia retorica dell’antipolitica è stata il carburante poco nobile su cui è stato edificato un consenso ventennale, quello di Berlusconi e dei suoi alleati, in primis Bossi. Era antipolitica la figura del candidato-imprenditore, del secessionista in canottiera. Lo era rispetto alle facce lugubri e alle perifrasi dei capicorrente del pentapartito. A quella retorica abbiamo sostituito la retorica del berlusconismo-antiberlusconismo, ingurgitando per anni dibattiti televisivi orientati sul nulla e legislature piegate alla volontà di uno solo. Ora che proviamo odio per tutto ciò, qualcuno è già pronto per cavalcarlo. E’ stato tanto scaltro da prevederlo per tempo, che avremmo odiato la politica e tutti i suoi privilegi, anche quelli meritati.

Che cosa significa il successo di Grillo per l’Italia? E ‘interessante guardare il “programma” a 5 Stelle, che è quasi del tutto negativo. Il manifesto è costituito in gran parte da una serie di leggi esistenti che saranno abrogate una volta preso il potere, oltre a un po’ di ecologia (Grillo è quasi un messia in materia ambientale) e una buona dose di euroscetticismo. Non è un programma di governo. Grillo non ha nulla da dire a 5 milioni di immigrati, e molto poco da dire in Europa. Il suo messaggio è solo per gli italiani, e il suo linguaggio violento e anti-istituzionale gli ha attirato accuse occasionali circa il fatto che lui sarebbe un “fascista del web”. Altri hanno visto in lui una versione di Berlusconi basata u internet. Ci sono dubbi anche sul suo controllo sul “movimento”, che sembra essere assoluto, e forse un po’ simile alle strutture di potere che lui è così pronto a criticare in altri. […] Qualunque cosa accada, il Movimento a Cinque Stelle non può più essere ignorato, e la reazione violenta della politica (e dell’élite intellettuale) al sorgere di Grillo è una chiara indicazione che abbiamo bisogno di prendere questo comico molto sul serio.

Articolo originale:

A different place: Beppe Grillo va sul Washington Post

Cominciamo dalla conclusione, ovvero dalle parole – tradotte in inglese – di Giovanni Favia: “The figure of Beppe Grillo is a necessity if Italy is going to be a different place”. Grillo come una necessità, se l’Italia vuol essere un paese diverso. Ma l’impressione che se ne ricava, se nulla ne sapessimo, leggendo le tre pagine che il Washington Post dedica al fenomeno 5 Stelle, sarebbe una brutta – bruttissima – impressione.

La questione della partecipazione dal basso emerge solo ed esclusivamente per il famoso fuorionda di Favia a Piazzapulita. Del resto, si intuisce appena che il M5S sia un movimento a sé stante, mentre la figura di Grillo campeggia quasi come quella di un nuovo Berlusconi, ed è pericolosa come Berlusconi. Nel testo, Grillo è accostato a leader populisti europei, come Le Pen in Francia, Stronach in Austria e Geert Wilders in Olanda. Il personalismo, in questa ricostruzione, è preminente. La vulgata a 5 Stelle dirà che è un articolo pagato da qualche partito italiano o opera del complotto mondiale delle Banche che sostiene il Monti-bis. Più probabilmente questo articolo è molto più fedele di quanto non lo siamo noi, che ci vediamo con i nostri troppo generosi occhi. Forse non ci siamo accorti che stiamo sostituendo un personalismo televisivo con un personalismo a mezzo blog. Per essere effettivamente un “different place” dovremmo avere la “fiducia e il coraggio” (prendo in presto queste parole di Civati) di riformare il sistema partitico in senso maggiormente partecipativo e inclusivo e trasparente, esattamente ciò che la politica non fa e che Grillo dice di voler fare ma è il primo a non praticare.

Grillo raccoglie il sentimento antieuropeista dalla estrema sinistra. Con il consolidato argomento che l’Unione Europea è una macchina costruita dalle plutocrazie europee allo scopo di scippare il popolo della sua sovranità, Grillo aggiunge e fonde ad esso la retorica anti moneta unica e anti austerità, temi di forte presa sul “pubblico” alle prese con la più forte recessione dal 2009 (cosiddetta double-dip). Le medesime argomentazioni sono impiegate da Paolo Ferrero, FdS. E da Berlusconi, seppur con accenti diversi. L’idea di Europa come unione pacifica di stati, come superamento del dogma della sovranità assoluta e della forma della Nazione-Potenza, non viene nemmeno lontanamente sfiorato. L’Europa è un nemico burocratico, che ci tratta come numeri, che cancella posti di lavoro tracciando righe su fogli di carta. Un nemico che non ha volto ma che il leader populista agita come uno spettro. Non è del tutto sbagliata la dichiarazione del giornalista Massimo Franco al Washington Post: “Grillo represents a sort of blurring of the far left and far right” (Grillo rappresenta una sorta di con-fusione dell’estrema sinistra e dell’estrema destra). Da un lato si depreca l’uso di denaro pubblico per alimentare il sistema politico, dall’altro si chiede che la mano pubblica gestisca le utilities municipali, in un sorta di riedizione dello Stato sociale degli Settanta in un’epoca in cui i bilanci pubblici sono soggetti a forti cure dimagranti.

Il collante vero, ed è ciò che sfugge all’auto dell’articolo del WP, ciò che coagula questa massa critica che è ormai divenuto il “pubblico” dei 5 Stelle, è l’ideologia della democrazia diretta, una forma di governo che gestisce il rapporto cittadino-stato attraverso i new media e quindi lo meccanizza attraverso il software. L’idea è totalizzante: l’individuo è sussunto in una sorta di plebiscito quotidiano, in una deliberazione perpetua, che comunque non potrà mai essere immediata, ma è gestita, guidata, anticipata dal marketing politico e dai software di gestione dei flussi di informazione. Il grande inganno risiede nel fatto che la rete non è libera. Grillo dice che la rete è invincibile, che è autocorrettiva, ma egli stesso è un campione del marketing politico. E usa la rete come un media alternativo, avendo egli perso le chiavi di accesso al media di massa per eccellenza, la televisione. Il suo linguaggio è un linguaggio diverso da quello di Wilders. Non è un linguaggio causale, ma agisce sempre attraverso ripetizioni, attraverso l’uso dei nomi distorti, attraverso la retorica anticasta, alimentando la corrente dell’indignazione. Ed è attraverso il motore dell’indignazione che Grillo a sua volta alimenta il proprio bacino elettorale potenziale. Di ciò non c’è traccia nell’articolo del Washington Post e, se mi permettete, questa è infine la vera novità del fenomeno del “the funny man”.

Grillo apre la via della Politica 2.0? E’ effettivamente una rivoluzione profonda la sua, anche rispetto ai più avanzati progetti di marketing virale applicati al campo politico, come poteva esserlo la campagna Obama-Biden del 2008. Grazie al M5S, una nuova generazione di cittadini viene socializzata alla politica. Ma – a mio avviso – il suo progetto rischia già di essere vecchio. Grillo dinanzi alla esplosione dei social-media è fondamentalmente disarmato (Facebook nel 2008 in Italia contava 700.000 profili, oggi 21 milioni). Grillo non è un attore nel mondo del tweeting. Lui e il suo staff curano la diffusione dei contenuti anche sulla rete di contatti che si dipana da Twitter o da Facebook, ma le interazioni sono quasi nulle. Potrei definire il rapporto di Grillo con il web come uno-molti. Ed è anche unidirezionale. Esattamente l’opposto di ciò che propaganda. Qui si cela l’inganno. Ma sulla stampa estera spicca la figura del leader populista. Per questa ragione, e non altre, si può dire che l’analisi del WP è superficiale. L’anomalia Grillo non è semplicemente una anomalia partitica, ma costituisce l’apertura del mondo politico a un tipo di interazione che è mediata dalla macchina software. E si tratta solo di metà della rivoluzione. Che avverrà pienamente soltanto quando il flusso informativo avverrà in ambedue le direzioni, da e verso il leader/rappresentante/eletto. L’inquadramento dato dal WP a Grillo è per queste ragioni deficitario.

Analisi del voto a 5 Stelle fra populismo e mandato imperativo

Parlare del Movimento 5 Stelle è sempre una operazione a rischio. Poiché spesso si deve spostare l’attenzione dai programmi alle procedure che il Movimento si è dato, si rischia immediatamente di finire accomunati alla pletora del giornalismo mainstream che taccia Grillo e il M5S di populismo e altre nefandezze.

Che il risultato elettorale sia stato eccezionale non vi sono dubbi. Il M5S in alcuni casi è il vero terzo polo. In realtà il voto non ha mascherato alcuni problemi di fondo che permangono come una zavorra e impediscono al Mov stesso di raggiungere quella forma teorizzata della formazione politica interamente determinata dal basso.

Procedo per punti, e in ordine sparso:

1. Il caso Napoli e il rapporto d’amore/odio con De Magistris:

Napoli è sede del primo storico meet-up di Beppe Grillo, l’archetipo del M5S. Roberto Fico è stato candidato alla presidenza di Regione alle scorse elezioni regionali. Il suo nome compariva anche sulla scheda delle elezioni comunali la scorsa domenica. A distanza di un anno, il suo successo elettorale è stato brutalmente ridimensionato. Effetto De Magistris, si direbbe, e in effetti è così. Secondo l’analisi di Metapapero, gli elettori del Mov si sarebbero letteralmente spaccati a metà: il 50.2% ha votato Fico, il 49.3% ha votato De Magistris. Questo nonostante gli strali di Grillo medesimo, contrario al De Magistris sindaco di Napoli in quanto reo di non aver ottemperato al mandato grillino di sorvegliare in Europa sulle infiltrazioni delle criminalità (!), di aver preso i voti grillini per poi sprecare il proprio tempo negli studi televisivi a parlare di Berlusconi.

Si dice: l’opinione di Grillo non è quella del Movimento. Sarà. Ma quando Fico fu candidato alla Regione, lo fu in seguito all’opinione di Grillo. Quando De Magistris prese quella carrettata di voti, l’endorsment grillino provenne direttamente dal blog di Beppe. Il risultato del rifiuto del figliol prodigo si è rivelato disastroso:

REGIONALI 2010, comune di Napoli: Roberto Fico voti 9947 (2.34%), M5S voti 9902 (2.48%), effetto candidato +45 voti;

COMUNALI 2011, comune di Napoli: Roberto Fico voti 6441 (1.38%), M5S voti 7203 (1.75%), effetto candidato -762 voti.

Pare chiaro che la scelta di non appoggiare De Magistris, iscritto IDV, candidato per IDV, non sia stata affatto compresa dagli elettori del M5S. Tanto più che la tanto osannata Costituzione contiene un articolo sacrosanto, il n. 67, che recita così:

Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.

I parlamentari esercitano la loro funzione senza vincolo di mandato. E’ l’esatto contrario di quello che in USA passa sotto il nome di lobbismo. Il parlamentare risponde solo alla propria coscienza, non al partito o a gruppi di riferimento. Per contro si può obiettare che tale libertà può essere esercitata in maniera eccessiva diventando trasformismo, un male profondissimo delle democrazie parlamentari. Ecco, tutto si potrebbe dire di De Magistris tranne che sia un trasformista. Ha solamente deciso di diventare sindaco di Napoli. Il mancato appoggio dei grillini è una occasione persa. Avrebbero ottenuto una decina di consiglieri e la possibilità di incidere veramente sulle politiche comunali, con il traino del candidato sindaco. Invece la logica ferrea del ‘non allearsi con nessuno’ ha strozzato in gola l’urlo della festa a 5 stelle;

2. Bologna, questa sconosciuta:

l’analisi dei flussi realizzata da Termometro Politico mostra l’emersione di due tendenze, entrambe dovute alla disaffezione verso il “miglior buon governo cittadino” dell’Emilia, finora rappresentato dal PD, erede diretto della tradizione comunista fortemente radicata nella regione. Da una parte, il voto della sinistra delusa converge verso Amelia Frascaroli, candidata civica ma sotto l’ombrello di Vendola; dall’altra fluisce rabbioso verso il M5S.

E’ indubbio che elettori attivi e passivi del M5S abbiamo provenienza dal movimentismo a sinistra. Ma ciò porta all’emersione di inevitabili divergenze interne ed esterne. Mi spiego:

a) l’equazione csx=cdx, per certi versi vera, si scontra con il fatto che all’interno del PD ci siano molti buoni amministratori che cercano di attuare quella politica progressista che trova il suo fulcro nel trinomio scuola-lavoro-tolleranza. Ebbene, diventa difficile per i grillini sostenere ad oltranza il non expedit di Grillo circa il fatto di potersi alleare o collaborare con la sinistra quando essa porta in discussione le buone riforme, tanto più se le condividono;

b) tanto spesso il M5S evita di schierarsi su argomenti “sensibili”: è accaduto relativamente ai problemi della scuola, come se il M5S soffrisse particolarmente l’incidenza del sindacato CGIL e la sua pervasività nell’ambito scolastico. Addirittura c’è chi lamenta l’assenza di discussione su questi temi specifici, cercando una facile condivisione sulle tematiche consuete – anticasta – del Mov: “Su queste e altre problematiche il Movimento non è in grado di prendere una posizione, perché al suo interno ci sono persone con idee spesso contrapposte: vi sono conservatori e “orfani della sinistra”, laici e cattolici integralisti, uniti nella “protesta”, nei facili luoghi comuni, ma incapaci di avere un progetto realistico e coerente di più ampio respiro […] Quando ho chiesto di discutere in assemblea di alcune problematiche, come il finanziamento dato alla fine di luglio dalla Commissaria Cancellieri alle scuole private a Bologna, l’adesione alla manifestazione in difesa della scuola pubblica indetta a Reggio Emilia il nove ottobre scorso, la discussione sull’eventuale nomina alla presidenza della Commissione Pari Opportunità in Regione di Silvia Noè, l’accordo di Pomigliano e la necessità di assumere una posizione politica in difesa dei lavoratori, non ho mai ricevuto risposta. Formalmente non rispondono, lasciano decadere, non ne parlano, così possono
fingere di essere tutti d’accordo, così possono coesistere nel movimento posizioni spesso contrapposte, intanto gli “eletti” decidono per tutti, perché loro sono i “portavoce” del
Movimento” (Monica Fontanelli, fuoriuscita dal M5S).

c) il meccanismo decisionale interno non è ancora chiaro: le dimissioni di Favia e De Franceschi sono apparse ai più come una farsa. Dovevano avere lo scopo di valutare il loro operato, applicando una sorta di customer satisfaction come avviene nelle aziende private. Però i due consiglieri regionali non sono stati valutati dai “clienti” del M5S, ovvero gli elettori, bensì dagli iscritti, che clienti non sono ma semmai sono soci. Ecco, questa confusione si aggrava dal fatto che è mancata una vera e propria discussione circa gli effetti perversi di una loro effettiva dipartita in caso di voto contrario dell’assemblea dei soci stessi. Avrebbero davvero abbandonato il seggio in Regione? Da chi sarebbero stati sostituiti? Dai secondi eletti? Da Sandra Poppi, che a Modena prese più voti di De Franceschi a Bologna?

La risposta è già scritta: non ci sarebbe stato alcun voto contrario. Non ci sarebbe stato alcun avvicendamento. Favia e De Franceschi hanno incassato il plauso dell’assemblea dei soci e hanno continuato il proprio lavoro. Mai se ne sarebbero andati. Questo è testimoniato dal fatto che nessuno ha previsto alcun meccanismo “democratico” di sostituzione  dei due. E solo il voto degli elettori sarebbe sufficientemente democratico, tanto più che i clienti-elettori del M5S potrebbero esprimere la propria soddisfazione soltanto con una consultazione elettorale, non avendo altro mezzo né possibilità di licenziare gli eletti. Vale ancora il discorso del divieto di mandato imperativo contenuto nell’art. 67 della Costituzione, elemento indiscutibile di una democrazia palramentare – dalla costituzione repubblicana francese del 1791 ad oggi è presente in quasi tutte le costituzioni (fa eccezione in Europa il caso del Bunsrat tedesco, la camera di rappresentanza dei Lander, dove se volete si realizza la rappresentanza locale e dove forse effettivamente i deputati devono esercitare la propria funzione in ottemperanza al mandato elettorale, pensate che accadrebbe se improvvisamente uno di essi si mettesse a fare gli interessi di un altro Lander: tradirebbe di fatto in un sol colpo i propri elettori e la propria terra). Certo, nella dissertazione sulla democrazia diretta, il mandato imperativo diventa un elemento di criticità: citando Rosseau, ogni cittadino è depositario di una parte della sovranità popolare, pertanto non potrbbero che esistere forme di democrazia diretta. Laddove essa è impossibile, essa si trasforma da diretta a rappresentativa, una forma nella quale la sovranità è delegata ai rappresentanti eletti a suffragio universale ma soggetti a mandato imperativo. Rosseau parlava di una società politica ancora scevra della tecnologizzazione della disucssione pubblica e nella quale il potere privato, e il conflitto che esso porta con sé, non avevano ancora quella dimensione garguntesca che hanno oggi. Il fenomeno del lobbismo è la perversione della bad influence che il privato esercita sulla funzione pubblica della rappresentanza. Il mandato imperativo diventa istituzionalizzazione del link con l’interesse particolare privatistico. Il rappresentante non esercita la propria funzione per conto della Nazione, quindi nell’interesse generale, ma per il raggiungimento di scopi privati.

Capite allora la non sussistenza del meccanismo delle dimissioni semestrali voluto dai grillini: è una misura che non cambia nulla. Il problema della casta e della mancata “circolazione delle élite” ha origine storicamente nel nostro sistema partitico e in un certa arretratezza della nostra democrazia. Sempre dalla Costituzione francese del 1791: “Art. 30. Le funzioni pubbliche sono essenzialmente temporanee; esse non possono essere considerate come distinzioni né come ricompense, ma come doveri”. Le funzioni pubbliche non sono onorificenze, ma doveri. Se non verrà assimilato questo concetto, non cambieremo mai. Forse è il caso di ribadirlo nella nostra Costituzione.