Ne ferì più la penna che la spada. Ce n’è da imparare da questa frase. Me la ripeto all’eccesso da sabato.
Che scrivere dopo gli scontri del 15 Ottobre? Val la pena commentare l’ennesimo fallimento del movimentismo? Val la pena rispolverare i testi di Rosa Luxemburg, capire il perché del ricorso alla violenza, immedesimarsi nell’anarchismo più puro e oscuro?
Dopo un lungo tergiversare, mi sono detto che no, non ne vale la pena. Il movimentismo, così come lo abbiamo visto sinora, così come lo abbiamo interpretato sinora, è fallito. Lo scontro di piazza è fine a sé stesso, non serve, come poteva servire in passato, a far cadere i regimi o i governi. E’ utile invece alla controparte, che ha così l’alibi per far approvare a un imbarazzato parlamento leggi illiberali e contro la libertà individuale. Grazie ai casseur di sabato, per esempio, la prossima manifestazione di FIOM, così come quella altrettanto legittima dei poliziotti, è ridotta a un miserevole sit-in. La protesta è stata utilissima a condannare al silenzio tutte le altre proteste. Un bel modo per fronteggiare il malcontento crescente della crisi.
A giugno, con la partecipazione ai referendum, abbiamo dimostrato che ne ferisce veramente più la penna che la spada. Qualcuno aveva osato scrivere della originalità della ‘primavera’ italiana, che partecipa in massa al voto referendario e amministrativo, non occupa o invade i ministeri o le piazze, ma spinge il cambiamento del metodo democratico della rappresentanza chiedendo più partecipazione e praticandola, la partecipazione.
Devo ammetterlo, eravamo sulla buona strada. Occuparsi, in maniera rivoluzionaria (e non violenta) del Noi, che è poi la quintessenza della politica, quell’interesse generale oggi calpestato dell’ego ipertrofico dell’interesse di uno solo.
Disintossicarsi, è la parola d’ordine, adesso. Disintossicarsi dal sampietrino. Ditelo anche a Di Pietro, così frettoloso nell’invocare manette e pistola facili. Occorre prendere una buona dose di buona politica. Invadere, nel senso buono del termine, ovvero praticare con la partecipazione, le istituzioni democratiche e le organizzazioni che sottendono alle funzioni istituzionali, che si chiamano ancora partiti.
Qualche giorno fa, Stefano Boeri, ha rivolto un appello ai semplici elettori del PD affinché essi non abbandonino il partito alle sue trame e alle sue nomine e alle sue gerarchie ma invece lo occupino, ritornino a confrontarsi con esso e a imporne la linea politica contribuendo a riportare il dibattito sul piano della concretezza e dei problemi reali. Si potrà non esser d’accordo, si potrà obiettare con il fatto che il PD è un partito omologo a quelli dell’attuale governo, si potrà dire tutto e il contrario di tutto, ma Boeri ha ragione quando dice quanto segue:
È triste dircelo, ma nonostante questo successo, il Partito che esiste oggi a Milano sembra un piccolo mondo chiuso, parallelo e indifferente a quanto succede nel governo della città. Il partito che di fronte alle vicende giudiziarie di un suo dirigente si produce in un complicato riassetto della sua Segreteria invece che affrontare con coraggio un serio approfondimento politico sul rapporto tra interessi, governo locale e trasformazioni del territorio; il partito che oggi discute e si divide parlando di riorganizzazione per componenti, di nomine equilibrate sulle correnti, è lontano mille miglia dalla tensione propulsiva della nostra campagna elettorale. E lo è in un momento in cui, lo ripetiamo, avremmo bisogno come ossigeno di quella tensione ideale. Noi che stiamo a Palazzo Marino, voi che ci avete eletto – e tutta la città intera.[…]
Iscrivetevi a una comunità che ha bisogno come il pane delle vostre idee e che per questo deve rigenerarsi, uscire dalle logiche piccole e ottuse delle consorterie legate alle leadership nazionali o locali. Iscrivetevi per rifondare una comunità di milanesi che sappia ripensare e rilanciare la propria identità di movimento collettivo di idee e progetti e – solo in conseguenza a questa identità rigenerata- sappia anche rimettere in discussione la propria formula organizzativa […]
Siamo in molti a volere questa invasione rigenerante. Cominciamo, oggi, a farla diventare realtà (Il Post).
Il cambiamento, io credo, deve passare per questo cambio di prospettiva. Non è solo questione di passato e futuro e non è vero del tutto vero che la violenza è una risposta vecchia a problemi nuovi poiché la violenza è sempre una opzione possibile – forse l’unica praticabile – nel quadro estremo di una resistenza all’ingiustizia, una resistenza alla violenza pubblica di un potere privato che si è fatto pubblico in maniera illegittima violando la sfera del diritto universale dell’individuo. Ma la nostra realtà è pur sempre una realtà democratica e il conflitto è combattuto con mezzi pacifici e nell’alveo del metodo democratico. Prender armi contro l’ingiustizia significa far prevalere il proprio argomento tramite la parola e l’azione, manifestandosi nella sfera pubblica, partecipando. Invadere in senso buono le istituzioni, pretendere da esse che si occupino del Noi e non di un Io Potente e prevaricatore. Questo dobbiamo fare. Prendersela con i bancomat e le camionette dei Carabinieri è inutile nonché dannoso.
Lasciate cadere il sampietrino e impugnate la penna. Non lasciatevi incasellare nell’astensionismo. Scegliete la vostra parte.