Produttività, i punti cruciali dell’accordo Governo-Parti sociali

Così il Governo Monti istituzionalizza il sistema ‘Fabbrica Italia’. Quello che segue è un estratto del comunicato stampa del governo; da leggere con attenzione il terzo punto (regolamentazione contrattuale per settori specifici), il quarto punto (equivalenza delle mansioni), il quinto (fabbrica degli esodati), il sesto (defiscalizzazione del salario di produttività), l’ottavo (il problema della rappresentanza sindacale e delle relazioni industriali).

L’intesa raggiunta tra la Parti firmatarie

• attribuisce alla contrattazione collettiva nazionale, la cui funzione è quella di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori rientranti nel settore di applicazione del contratto, l’obiettivo mirato di tutelare il potere di acquisto dei salari assicurando che la dinamica degli effetti economici, superata ogni forma di automatica indicizzazione, nei limiti fissati dai principi vigenti sia sempre coerente con le tendenze generali dell’economica, del mercato del lavoro, del raffronto competitivo internazionale e degli andamenti specifici del settore;

• valorizza la contrattazione di secondo livello affidandole una quota degli aumenti economici eventualmente disposti dai rinnovi dei contratti collettivi nazionali con l’obiettivo di sostenere, negli specifici contesti produttivi, efficaci e mirate misure di incremento della produttività;

• consente di adeguare la regolamentazione contrattuale dei rapporti di lavoro alle esigenze degli specifici contesti produttivi di riferimento, anche con riguardo alle materie che possono incidere positivamente sulla crescita della produttività quali gli istituti contrattuali che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro;

• contiene, tra l’altro, l’esplicito impegno delle Parti firmatarie ad affrontare in sede di contrattazione, in via prioritaria, le tematiche relative all’equivalenza delle mansioni, all’organizzazione del lavoro, all’orario di lavoro ed alla sua distribuzione flessibile, all’impiego di nuove tecnologie;

• conferma la volontà, condivisa dal Governo, di individuare soluzioni che, in una logica di “solidarietà intergenerazionale”, agevolino la transizione dal lavoro alla pensione;

• crea il presupposto perché vengano introdotte, nell’ambito della legislazione vigente e nei limiti delle risorse disponibili, stabili e certe misure di defiscalizzazione del salario di produttività finalizzate ad incoraggiare selettivamente le intese che siano concretamente idonee, negli specifici contesti produttivi di riferimento, a sostenere l’incremento della produttività intervenendo in via prioritaria nelle materie già individuate tra le Parti firmatarie;

• permette pertanto alla contrattazione di secondo livello di incrementare i salari netti percepiti dai lavoratori facendo scattare le misure di defiscalizzazione per le quote di incrementi salariali che verranno concretamente legate, negli specifici contesti produttivi, all’incremento della produttività.

• individua nel termine del 31 dicembre 2012 la data entro la quale le Parti firmatarie dell’accordo interconfederale 28 giugno 2011 completeranno il quadro delle nuove regole in materia di rappresentanza, con ciò dando auspicabilmente vita ad un sistema di relazioni industriali più stabile ed efficace;

Per sostenere la defiscalizzazione del salario di produttività, il Governo ha proposto nella legge di Stabilità uno stanziamento complessivo di 1,6 miliardi di euro per il periodo 2013/2014 per la detassazione del salario di produttività – stanziamento che si è poi ulteriormente esteso nel tempo e rafforzato a 2,1 miliardi per effetto degli emendamenti approvati alla Camera.

La CGIL non ha firmato questo accordo. I punti discriminanti sono stati chiaramente il problema della rappresentanza e soprattutto la dequalificazione del lavoratore – che nel testo del comunicato del governo è nascosta dietro la formula della “equivalenza delle mansioni”. Il problema della equivalenza delle mansioni nasce con l’art.13 della legge n.300 del 1970, il quale stabilisce che il datore ha la facoltà di modificare le mansioni assegnate al lavoratore nel rispetto di alcuni limiti inderogabili: il lavoratore “non può essere adibito a mansioni inferiori, ma soltanto a mansioni superiori ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione” (Diritto & Diritti).

Recentemente la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale ai fini della valutazione della sussistenza di un corretto esercizio dello ius variandi da parte del datore …..  il giudice deve stabilire se le mansioni effettivamente svolte finiscano per impedire la piena utilizzazione e l’ulteriore arricchimento della professionalità acquisita nella fase pregressa del rapporto, tenendo conto che non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, in quanto tale fattispecie implica una sottrazione di mansioni tale, da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle capacità dello stesso acquisite e un conseguente impoverimento della sua professionalità (Diritto & Diritti).

In realtà, la giurisprudenza in materia si è approfondita a tal punto da specificare che il lavoratore possa essere riposizionato in una mansione pregressa, per la quale non serve una vera e propria riqualificazione. Non si capisce come questo aspetto possa divenire oggetto di contrattazione quando la normativa in materia è stata per lunghi anni così discussa e riesaminata e dibattuta in giurisprudenza. Possono davvero le parti derogare rispetto all’articolo 13 della legge 300/1970? Può la contrattazione fra le parti firmatarie derogare a norme di legge e a sentenze della Corte di Cassazione? La dequalificazione è un’arma che il datore di lavoro può impiegare in senso intimidatorio verso il singolo lavoratore. Ma è anche una tutela troppo rigida che rischia di ingessare il tessuto organizzativo di una azienda e impedisce la cosiddetta flessibilità interna.