Congresso vero, Congresso falso

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L’intervista a Pierluigi Bersani pubblicata oggi su L’Unità sgombra ogni dubbio sulle intenzioni che l’attuale dirigenza del PD ha circa la strategia da mettere in atto sabato durante l’Assemblea Nazionale che eleggerà il segretario-reggente.

Bersani ha più volte ripetuto che il congresso dovrà essere affrontato con una discussione seria, vera, eccetera, sulle regole: a questo dovrebbe servire il suo sacrificio, a “decidere delle correzioni profonde riguardo il nostro modo di essere”. Eh già, il PD non ha perso le elezioni, ha incontrato delle difficoltà dopo. “Messi di fronte alla prima vera responsabilità nazionale da quando siamo nati, non siamo riusciti a saltare l’asticella. Abbiamo mancato la prova”, ripete l’ormai ex segretario. Nessun cenno su una campagna elettorale disastrosa, specie nel mese di Gennaio, quando i sondaggi ‘sentivano’ – ma senza percepirlo in tutta la sua interezza – il calo della coalizione Italia Bene Comune. No, il disastro è colpa dell’immaturità dei parlamentari del PD, i quali non sono in grado di “distinguere tra funzioni istituzionali, come è quella del Presidente della Repubblica, e funzioni politiche e di governo”, ma tutti sapevano che la scelta del Quirinale avrebbe influito pesantemente nella scelta dell’incarico.

Bersani non dimentica di ripercorrere le tappe decisionali: la direzione che gli ha conferito mandato per ricercare un candidato presidente della Repubblica “largamente condiviso”; la scelta di Marini (“Mi piacerebbe piuttosto chiedere a Grillo e tutti gli altri perché hanno detto no a uno come Marini” – il no è stato detto innanzitutto dal suo stesso partito e Marini è stato lo stesso portato in aula, agnello sacrificale sull’altare del governissimo); la convergenza unanime sul nome di Romano Prodi, poi vigliaccamente killerato nel segreto dell’urna.

“Nell’inconsapevolezza di tanti di noi, lì è tramontata la possibilità di un governo di cambiamento, la possibilità di aprire la legislatura con una terapia d’urto capace di riconnettere il governo e noi stessi con la società”.

Questo tema dell’inconsapevolezza, come se il parlamentari del PD fossero degli ingenui intenti più che altro a farsi le scarpe l’un l’altro, è una ipotesi che Bersani spaccia per verità. Come se i 101 franchi tiratori non sapessero affatto quel che stavano facendo e il governissimo, per loro, non fosse certamente l’obiettivo finale.Tutto ciò viene affermato da un segretario dimissionario, che ha quindi ammesso di non esser stato in grado di formulare iniziative politiche chiare e vincenti. Figuriamoci se ora è in grado di prefigurare una linea politica per il futuro.

Eppure, ostinatamente abbarbicato sul proprio scoglio, lo fa. E sostiene, con una allarmante limpidezza di linguaggio, che:

  1. ci vuole un congresso vero, che sia svincolato dalla scelta di un candidato premier, visto che per la prima volta da quando esiste il PD un presidente del Consiglio lo abbiamo;
  2. è possibile avviare una procedura per arrivare a una modifica dello statuto tale per cui non ci sia più coincidenza tra la figura del segretario e quella del candidato premier;
  3. che l’Assemblea di sabato non deve essere un mini-congresso. Però poi dice che deve eleggere un segretario (alla domanda segretario o reggente, risponde, testuale:  “E’ una discussione formalistica”!), ovvero che deve “dare un mandato pieno a qualcuno che dovrà condurci nella fase congressuale e intanto rappresentare il PD di fronte al Paese”, e questo non è affatto formalismo, è svolgere il congresso in un pomeriggio, senza discussione alcuna, vidimando una decisione presa altrove e da chissà chi.

In queste tre condizioni, ovviamente, le primarie non sono più contemplate né sono contemplabili. L’assunto generale è “non disturbate il manovratore Letta” e perciò il prossimo congresso eleggerà non un candidato premier poiché il premier il PD già ce l’ha. Se vi sembrano ragioni durevoli. Il premier Letta nasce con la scadenza (18 mesi, ma potrebbe essere una “etichettatura errata” e potremmo scoprire una ‘frode’ sulla genuinità del governissimo). E non nasce secondo il principio democratico ma in virtù del giogo dei 101 occulti manovratori. I quali hanno agito consapevolmente – beata ingenuità – per suggerire la via unica dell’accordo con il Pdl.

Il congresso vero secondo Bersani sarà quello in cui ci sarà discussione sulle deroghe alle regole dello statuto. Il congresso falso è quello che le vuole applicare?

PD | Congresso chiuso come una scatoletta

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Renzi ha recentemente affermato di non essere interessato alla corsa per la segreteria del Partito Democratico. Nella sua idea, la premiership (di coalizione?) non va più di pari passo con la leadership di partito. Che strano calcolo è mai questo?

Che il sindaco di Firenze osteggiasse quella regolina dello Statuto, quella che assegna al segretario del partito, eletto con primarie aperte, la candidatura alla presidenza del Consiglio, era cosa nota sin dai tempi delle consultazioni per Italia Bene Comune, alle quali si è potuto presentare proprio in virtù di una deroga concessa – non senza dilemmi – da parte di Pierluigi Bersani. Quella norma, che in altri paesi è regola condivisa, veniva all’epoca dipinta come un ostacolo antidemocratico poiché era usata dall’entourage del segretario per scongiurare la sua partecipazione. 

Il chiamarsi fuori dalla partita del congresso ha un suo significato che non è così immediato: Renzi intende risparmiarsi per il momento in cui il governo Letta subirà il peggiore di killeraggi politici da parte dei poco onesti compagni di viaggio che si è cercato. Renzi non vuole mescolarsi, non vuole sovrapporre la propria immagine di rottamatore della vecchia politica alla formula del partito pesante.

Mi sembra che questo genere di raziocinio abbia poco a che fare con il bene collettivo nonché con l’interesse medesimo del partito, che necessita senz’altro di esser rimesso sulla carreggiata giusta di una selezione democratica (perché aperta agli elettori) delle leadership nonché delle linee politiche da perseguire. Insieme alla scelta di appoggiare la soluzione-pacchetto Napolitano-Letta, l’avversione verso la formula congressuale aperta e specie verso i bizantinismi delle Direzioni o delle Assemblee nazionali, fanno apparire il rottamatore scaltro e machiavellico ma chiaramente orientato al perseguimento del proprio successo personale nella prossima competizione elettorale che lui medesimo pronostica fra dodici-diciotto mesi circa. Nulla di più.

Per mettere in atto questa strategia, oltre alla macedonia in salsa lettiana, Renzi sarebbe propenso ad accettare altre tre soluzioni alquanto sbrigative:

  1. assegnare la reggenza ad un ex DS, purché sia un neutrale e non sia quindi un nome spendibile sia al congresso che per la premiership della coalizione;
  2. dividere per sempre la funzione del segretario del partito da quella del candidato premier;
  3. chiudere il congresso ai soli iscritti, eliminando la fase delle primarie aperte.

Questo sarebbe il contenuto di una sorta di armistizio fra l’ala centrista, di cui il sindaco è punto di riferimento, e gli ex DS. Un patto che dovrebbe consentire di gestire la fase congressuale ad Ottobre, senza fretta, con il minimo grado di coinvolgimento. Le personalità politiche storicamente contrarie alle primarie (specie i dalemiani, che sempre vivono e lottano in mezzo a noi) trovano così una inconsueta spalla in chi nelle primarie aveva costruito tutta la sua popolarità e credibilità.

Così si è espresso Marco Campione, democratico del PD lombardo, sul suo blog, qdR (Qualcosa di Riformista):

Il prossimo congresso sarà utile se i tanti apprendisti stregoni che hanno gestito il PD dimostreranno di essere in grado di governarlo facendo a meno non tanto delle generazioni precedenti quanto dei fantasmi del passato. Il PD è nato scommettendo sul consolidamento dell’assetto bipolare, sulla competizione tra partiti a vocazione maggioritaria, sul riconoscimento reciproco delle forze in campo. Pensiamo sia ancora quella la sfida?

Solo in questo contesto il PD ha senso di esistere. Per questo preoccupa che gli stessi apprendisti che ci hanno portato al disastro oggi mettano in dubbio una delle intuizioni fondative del PD. Nel PD il segretario del partito è il candidato premier non per una bizza di chi ha scritto il nostro Statuto, ma perché nella coincidenza tra premiership e leadership sono concentrate alcune caratteristiche fondamentali. La già richiamata vocazione maggioritaria, l’essere un partito di iscritti ed elettori (che “pesano” allo stesso modo, dunque), l’idea che chi vuole conquistare il paese debba prima convincere il proprio partito, l’accountability del gruppo dirigente e la contendibilità della leadership. Far saltare quell’identificazione vuol dire mettere a rischio tutto questo, non solo cambiare un assetto organizzativo o un modo per eleggere il segretario (@marcocampione, qdR).

Premiership e leadership, vocazione maggioritaria, orientamento agli elettori (l’auctoritas promana dal basso), sono intimamente correlati e pertanto smontare questo impianto significa de facto liquidare il Partito. E’ una vera e propria restaurazione. A cui possiamo soltanto opporci.