Produttività, i punti cruciali dell’accordo Governo-Parti sociali

Così il Governo Monti istituzionalizza il sistema ‘Fabbrica Italia’. Quello che segue è un estratto del comunicato stampa del governo; da leggere con attenzione il terzo punto (regolamentazione contrattuale per settori specifici), il quarto punto (equivalenza delle mansioni), il quinto (fabbrica degli esodati), il sesto (defiscalizzazione del salario di produttività), l’ottavo (il problema della rappresentanza sindacale e delle relazioni industriali).

L’intesa raggiunta tra la Parti firmatarie

• attribuisce alla contrattazione collettiva nazionale, la cui funzione è quella di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi comuni per tutti i lavoratori rientranti nel settore di applicazione del contratto, l’obiettivo mirato di tutelare il potere di acquisto dei salari assicurando che la dinamica degli effetti economici, superata ogni forma di automatica indicizzazione, nei limiti fissati dai principi vigenti sia sempre coerente con le tendenze generali dell’economica, del mercato del lavoro, del raffronto competitivo internazionale e degli andamenti specifici del settore;

• valorizza la contrattazione di secondo livello affidandole una quota degli aumenti economici eventualmente disposti dai rinnovi dei contratti collettivi nazionali con l’obiettivo di sostenere, negli specifici contesti produttivi, efficaci e mirate misure di incremento della produttività;

• consente di adeguare la regolamentazione contrattuale dei rapporti di lavoro alle esigenze degli specifici contesti produttivi di riferimento, anche con riguardo alle materie che possono incidere positivamente sulla crescita della produttività quali gli istituti contrattuali che disciplinano la prestazione lavorativa, gli orari e l’organizzazione del lavoro;

• contiene, tra l’altro, l’esplicito impegno delle Parti firmatarie ad affrontare in sede di contrattazione, in via prioritaria, le tematiche relative all’equivalenza delle mansioni, all’organizzazione del lavoro, all’orario di lavoro ed alla sua distribuzione flessibile, all’impiego di nuove tecnologie;

• conferma la volontà, condivisa dal Governo, di individuare soluzioni che, in una logica di “solidarietà intergenerazionale”, agevolino la transizione dal lavoro alla pensione;

• crea il presupposto perché vengano introdotte, nell’ambito della legislazione vigente e nei limiti delle risorse disponibili, stabili e certe misure di defiscalizzazione del salario di produttività finalizzate ad incoraggiare selettivamente le intese che siano concretamente idonee, negli specifici contesti produttivi di riferimento, a sostenere l’incremento della produttività intervenendo in via prioritaria nelle materie già individuate tra le Parti firmatarie;

• permette pertanto alla contrattazione di secondo livello di incrementare i salari netti percepiti dai lavoratori facendo scattare le misure di defiscalizzazione per le quote di incrementi salariali che verranno concretamente legate, negli specifici contesti produttivi, all’incremento della produttività.

• individua nel termine del 31 dicembre 2012 la data entro la quale le Parti firmatarie dell’accordo interconfederale 28 giugno 2011 completeranno il quadro delle nuove regole in materia di rappresentanza, con ciò dando auspicabilmente vita ad un sistema di relazioni industriali più stabile ed efficace;

Per sostenere la defiscalizzazione del salario di produttività, il Governo ha proposto nella legge di Stabilità uno stanziamento complessivo di 1,6 miliardi di euro per il periodo 2013/2014 per la detassazione del salario di produttività – stanziamento che si è poi ulteriormente esteso nel tempo e rafforzato a 2,1 miliardi per effetto degli emendamenti approvati alla Camera.

La CGIL non ha firmato questo accordo. I punti discriminanti sono stati chiaramente il problema della rappresentanza e soprattutto la dequalificazione del lavoratore – che nel testo del comunicato del governo è nascosta dietro la formula della “equivalenza delle mansioni”. Il problema della equivalenza delle mansioni nasce con l’art.13 della legge n.300 del 1970, il quale stabilisce che il datore ha la facoltà di modificare le mansioni assegnate al lavoratore nel rispetto di alcuni limiti inderogabili: il lavoratore “non può essere adibito a mansioni inferiori, ma soltanto a mansioni superiori ovvero a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione” (Diritto & Diritti).

Recentemente la Corte di Cassazione ha ribadito il principio secondo il quale ai fini della valutazione della sussistenza di un corretto esercizio dello ius variandi da parte del datore …..  il giudice deve stabilire se le mansioni effettivamente svolte finiscano per impedire la piena utilizzazione e l’ulteriore arricchimento della professionalità acquisita nella fase pregressa del rapporto, tenendo conto che non ogni modifica quantitativa delle mansioni, con riduzione delle stesse, si traduce automaticamente in una dequalificazione professionale, in quanto tale fattispecie implica una sottrazione di mansioni tale, da comportare un abbassamento del globale livello delle prestazioni del lavoratore con una sottoutilizzazione delle capacità dello stesso acquisite e un conseguente impoverimento della sua professionalità (Diritto & Diritti).

In realtà, la giurisprudenza in materia si è approfondita a tal punto da specificare che il lavoratore possa essere riposizionato in una mansione pregressa, per la quale non serve una vera e propria riqualificazione. Non si capisce come questo aspetto possa divenire oggetto di contrattazione quando la normativa in materia è stata per lunghi anni così discussa e riesaminata e dibattuta in giurisprudenza. Possono davvero le parti derogare rispetto all’articolo 13 della legge 300/1970? Può la contrattazione fra le parti firmatarie derogare a norme di legge e a sentenze della Corte di Cassazione? La dequalificazione è un’arma che il datore di lavoro può impiegare in senso intimidatorio verso il singolo lavoratore. Ma è anche una tutela troppo rigida che rischia di ingessare il tessuto organizzativo di una azienda e impedisce la cosiddetta flessibilità interna.

La Concertazione come “origine dei mali”: storia di un modello di relazioni industriali

1983 – 2013 La Concertazione come “origine dei mali”.

I Sindacati senza accordi e il Governo atonale del prof. Monti

di Matteo Laurenti, Giovine Europa now (http://www.linkiesta.it/blogs/giovine-europa-now), ricercatore, archivista, bibliotecario e collaboratore del Centro di documentazione sindacale e biblioteca della Camera del Lavoro di Biella.

"L’inflazione è quella forma di tassazione che può essere imposta senza legislazione."

Le spese del governo ammontano al 45% circa del prodotto interno lordo. Secondo quest’analisi, il governo possiede il 45% dei mezzi di produzione che fanno il PIL. Gli USA sono oggi al 45% socialisti. (da Noi abbiamo il socialismo, New York Times, 31 dicembre 1989)

Milton Friedman (1912-2006)

L’Italia in quegli anni ha rischiato grosso… la battaglia ci ha assorbito completamente. Cosí, non abbiamo visto con la chiarezza necessaria il resto. (da Intervista sul mio partito; citato in Ginsborg 1989, p. 68)

Luciano Lama (1921 – 1996)

La geometria non è un reato”

Renato Zero (1950 – vivente)

Anno 1993, giorno 23 del mese di luglio, l’allora Presidente del “Governo tecnico di transizione” Carlo Azeglio Ciampi, primo presidente non parlamentare della storia della Repubblica firma, attraverso la pratica triangolare della concertazione, il protocollo che tenta di mettere fine alla crisi economica endogena dello stato italiano culminata solo pochi mesi prima con la dissoluzione politica della prima Repubblica. La crisi del biennio 1992-93 tratta della “resa dei conti” di oltre due decenni di politiche economiche figlie della temperie sociale e politica iniziata alla fine degli anni ’60 e perdurata per tutto il decennio ’70. Politiche economiche volte a sedare l’inquietudine della società del tempo con l’eroina dell’inflazione. Nel contesto internazionale il fallimento negli anni ’70 delle politiche di bilancio "dal lato della domanda", nel ridurre l’inflazione e nel produrre crescita, spianò la strada per un nuovo cambiamento nella politica economica che mise al centro delle responsabilità delle banche centrali la lotta all’inflazione. Secondo le tipiche teorie economiche, questo avrebbe dovuto essere accompagnato da trattamenti shock di austerità, così come generalmente raccomandato dal FMI.

Inflazione…il generale aumento dei prezzi, di beni e servizi in un dato periodo di tempo che genera una diminuzione del potere d’acquisto della moneta.

Tradotta in sostanza liquida in Italia è stata una spirale di dipendenza creata dall’indennità di contingenza (la Scala Mobile) fortemente voluta, nel 1975, dall’allora Segretario confederale della CGIL Luciano Lama, d’accordo con Bruno Storti (Segretario CISL), Raffaele Vanni (Segretario Uil)e dell’allora presidente di Confindustria Giovanni Agnelli. Essa fu successivamente abrogata tra il 1984 ed il 1992 dai governi di Bettino Craxi e Giuliano Amato con l’accordo degli stessi sindacati che l’avevano creata, scavalcando il referendum abrogativo del 1985 voluto dal PCI di Enrico Berlinguer. La cosiddetta “soluzione” dell’inflazione infatti misurava la stessa tenendo conto dell’aumento dei prezzi ma senza considerare un altro parametro economico: l’aumento del PIL.

Anno 1983, giorno 22 del mese di gennaio, l’allora Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale Vincenzo Scotti pose la firma, per conto del governo, ad una trattativa durata un anno e mezzo. Essa verteva su un accordo, in cui il governo era “mediatore”, che impegnava la fine dello scontro sociale tra sindacati ed industria. Con la firma dell’accordo i sindacati si impegnarono a sospendere la contrattazione integrativa mentre Confindustria sbloccò il rinnovo dei contratti le cui trattative erano state sospese. L’obbiettivo principale era, guarda caso, combattere l’inflazione. Per tutti gli anni Ottanta il sistema così impostato funzionò a dovere e nel 1993 si decise di ampliarlo e di inserire nuove regole. In particolare, nel tentativo di concertare, ovvero metter d’accordo, sindacati e industriali, venne stabilito un incremento minimo salariale pari al tasso di inflazione programmata e un rinnovo dei contratti ogni due anni. Di fatto si diede inizio alla “politica dei redditi”, una politica di accrescimento dei salari sulla base dell’aumento della produzione e degli utili di impresa. Attraverso la politica dei redditi le imprese si impegnano a non aumentare i prezzi, i lavoratori si impegnano, in cambio, a non chiedere aumenti dei salari slegati dall’aumento della produttività. Il Governo dal canto suo offre servizi alle imprese (maggiore efficacia ed efficienza nella pubblica amministrazione, potenziamento delle infrastrutture quali strade, porti, ferrovie, telecomunicazioni), ed ai lavoratori (miglioramento dei servizi sociali alle famiglie:asili nido, buoni scuola, ammortizzatori sociali quali cassa integrazione, sussidi di disoccupazione, mobilità ecc.

La politica dei redditi necessita di un basso tasso di conflittualità sociale e di forte autorevolezza e credibilità del Governo.

Almeno sulla carta dunque la concertazione è servita a farci uscire dalla crisi tutta italiana che ci ha investito venti anni fa (quasi) esatti…In altre parole il modello di concertazione, inteso come dialogo tra gli attori contrattuali con una forte mediazione dello stato, non ha fallito. Ciò che ha fallito è la volontà da parte degli organi dello Stato preposti a far rispettare questo modello, basti pensare ad esempio ai continui scioperi di categoria legati al mancato rinnovo dei contratti nazionali…a distanza di due decenni il sistema ha mostrato i suoi limiti, soprattutto dopo l’adesione dell’Italia alla moneta unica europea. La rincorsa all’euro è stata perseguita con precisi atti di volontà politica, apparsi addirittura temerari tanta era la distanza da recuperare in pochissimo tempo. Si tratta pertanto di un successo indubbio della politica economica, che ha prodotto, come pure abbiamo ricordato, incalcolabili benefici in termini di sradicamento dell’inflazione, bassi tassi d’interesse, bassi costi di transazione soprattutto da incertezza, disintossicazione delle imprese dalla droga delle svalutazioni competitive. Quel successo è oscurato però da due ombre: la distanza che occorreva colmare per rientrare nei parametri di Maastricht, un vero baratro, si era aperta a causa delle scelte, invece assai colpevoli, che la politica economica aveva compiuto nel ventennio precedente; inoltre, i metodi sbrigativi con cui la rincorsa è stata fatta (essenzialmente, accentuando la pressione fiscale e facendo ampio ricorso a misure con effetti temporanei) ha finito col rappresentare uno degli handicap che hanno frenato la rincorsa.

Anno 2013, futuro prossimo, prossime elezioni. A 30 anni dalla prima concertazione pensata e scritta e a 20 da quella che salvò l’Italia da se stessa, avrà ancora senso “richiedere” l’intervento delle parti sociali là dove ormai si attua una programmatica svalutazione del loro ruolo?

Il sindacato (e nella fattispecie la CGIL) ha giocato il suo ruolo o è in stato collaterale con il monetarista Monti attuando una strategia “fantasma” o ancora peggio un’assenza di strategia nell’accettazione di una subalternità alla razionalità economica del capitale produttivo e finanziario nella speranza che questo li faccia accettare come interlocutori riconoscibili?

E’ forse consapevole Susanna Camusso, al pari di Luciano Lama, Bruno Trentin e Sergio Cofferati nei loro rispettivi mandati, che le loro dichiarazioni “stridono” con quanto ha fatto il sindacato nella pratica contrattuale, nei contratti nazionali e in quelli aziendali?

I vincoli e i limiti posti dalle “regole del gioco” che la Cgil ha fatto sue hanno messo i lavoratori nell’angolo nel conflitto di classe?

Di fatto le politiche concertative degli ultimi 30 anni sono nei fatti degli arretramenti contrattuali che hanno fatto perdere potere d’acquisto producendo uno spostamento di una grossa fetta di reddito nazionale dai salari ai profitti e in modo particolare verso le rendite. La CGIL, rompendo con Cisl e UIL (nel 2009) segnava una discontinuità che è risultata di facciata.

Ma se i sindacati sono appunto senza “accordi”, il Governo, ancora una volta “tecnico” e di transizione vuole suonare una musica in un concerto dove esso stesso “definisce autonomamente le regole per la realizzazione del brano”.

Che ognuno torni alla sua parte allora, compresa Confindustria, rea dal punto di vista di Monti di aver dato corda ai sindacati nell’attuazione della cassa integrazione, adatto a solo certi tipi di impresa, come unico strumento del Welfare.

D’altronde Milton Friedman era convinto che la libertà avesse soprattutto due categorie di nemici: gli industriali e gli intellettuali. I primi vogliono la libertà per gli altri ma non per sé. Sono entusiasticamente favorevoli alla concorrenza e al libero mercato per gli altri, per sé preferiscono chiedere sussidi, sgravi fiscali e, soprattutto, protezioni doganali e tariffarie. Gli intellettuali, invece, sono intransigenti difensori delle proprie libertà – nessuno deve dir loro cosa scrivere, dipingere, musicare, eccetera, ma molto meno propensi a che gli altri siano liberi di decidere cosa, quanto e come produrre quello che gli pare. Agli altri cosa fare deve essere se non imposto almeno suggerito dal potere politico.

Tanto nel 2013 l’inflazione tornerà sotto il 2%…parola della BCE.

Non hanno pane? Date loro i SUV. Parola di Marchionne

Asfaltato per sempre il contratto collettivo nazionale, messo a pregiudizio il diritto alla rappresentanza, instaurato il nuovo regime aziendale delle turnazioni e delle pause pranzo facoltative a fine turno; insomma, restaurato il modello operaistico di inizio novecento, dove l’operaio non è persona bensì mero fattore produttivo da applicare esclusivamente secondo criteri quantitativi di efficiacia e efficienza, ovvero l’antica menzogna del lavoro come merce, Marchionne svetta come una mannaia su tutti i lavoratori italiani.

Certo, tutti a indicare il dito: Marchionne il grande innovatore, il grande devastatore, il grande rivoluzionario. Nulla sarà come prima. L’Italia è a crescita zero, indispensabile non firmare, scrivono su Europa. Giusto firmare per salvare i posti di lavoro, questa la logica di Piero Fassino, un uomo al posto sbagliato nel momento sbagliato. Fassina, responsabile economia e lavoro del PD, braccio destro di Bersani, diverge dalla linea dei filomarchionne piddini per elaborare la tesi della “salvaguardia del lavoro ma non a scapito del diritto”: un colpo al cerchio e uno alla botte.

Marchionne, quel filubustiere: anche in Serbia lo stanno cercando e non certo per fargli dei complimenti. Gli operai della Zastava, fabbrica storica di automobili della ex Jugoslavia, comprata nel 2008 dalla Fiat al 67%, dovevano essere – secondo gli accordi – tutti riassunti. Balle: Marchionne stringe accordi per poi rimangiarseli. I lavoratori sono stati sottoposti a dei “test di qualificazione” e molti di essi non li hanno superati e per tale ragione non verranno riassunti (Finanza e Mercati, 28/12/2010, p. 8). Il governo serbo che dice? Tace, ovvio. Perché il governo serbo aveva regalato a Fiat, affinché essa spostasse la produzione della monovolume L0, scippata a Mirafiori, là, negli ex capannoni della Zastava, ben 250 milioni di euro. Gli altri 400 milioni provenivano dalla Banca Europea per gli Investimenti. La rimanenza è della Fiat. Capite? Fiat fa impresa con i soldi degli altri. Dei governi e delle banche. Un vecchio vizio che Marchionne – sì, il grande innovatore – non ha minimamente intaccato.

Pomigliano e Mirafiori non sono una casualità. Fanno parte di un progetto che Fiat teneva già in pugno nel momento dell’acquisto di Chrysler. Ebbene, Fiat anche allora ha incassato soldi da un governo, quello di Obama, a patto che Fiat riconvertisse alcune delle produzioni di Chrysler in automobili a basso impatto ambientale. Marchionne ha sciorinato dinanzi al presidente americano la vasta gamma di conoscenze di Fiat in fatto di basse emissioni inquinanti. Quali non è dato a sapersi. Forse il punto forte di tale dissertazione è stata la tecnologia motoristica al metano, che notoriamente non è una invenzione Fiat, bensì è vecchia di trent’anni. In ogni caso, che fa Marchionne? Sposta la produzione della monovolume Fiat – L0 – in Serbia, incassa i soldi del governo e della EIB mentre a Mirafiori fa produrre i Suv della Chrysler, che in America non può più fare, sennò Obama gli richiede indietro i soldi. Che strategia innovativa! Pratica la cinesizzazione delle relazioni industriali italiane al fine di produrre Suv con il marchio Chrysler da rivendere nelgi USA in barba agli accordi con Obama.

Detto questo, non serve grande acume per osservare che l’investimento nei SUV è una gran fregatura: i SUV non hanno alcun futuro sul mercato. Sono macchine costose e altamente inquinanti. Come non è ovvio dire che la contingentazione dell’orario di lavoro, le pause a fine turno, ovvero la riduzione degli spazi di recupero e di rigenerazione del lavoratore durante le fasi lavorative, vadano a diretto discapito della sicurezza qualitativa del prodotto, nonché della sicurezza del lavoratore medesimo. Si dice che l’accordo sia quanto di più necessario per far stare Fiat al passo con i tempi della globalizzazione. Sarà, ma è altrettanto vero che questo modello ha già fallito (caso della Toyota e del ritiro dal mercato di migliaia di vetture difettose). Per dirla in altre parole, Fiat Auto è senza futuro. Trasferisce i propri lavoratori in Newco che puzzano dalla testa (perché delle Newco? perché Fiat non si può chiamare Fiat e basta e invece ha mille sigle che appartengono alle mille società che Fiat fa e disfa di volta in volta a seconda di quanto salario e di quanti diritti privare i lavoratori?). Investe nei Suv. Sovraimpiega i propri lavoratori mettendo a pregiudizio la qualità dei suoi prodotti. Non ha un servizio clienti alla pari delle multinazionali estere. Soprattutto, le sue vendite sono in picchiata e non saranno le Newco di Pomigliano e Mirafiori a rilanciarle. Che dire: Fiat è un malato terminale, e non lo sa.

Festa PD: Bonanni contestato, “squadristi”. Ma è crisi delle relazioni industriali

Liberi fischi in libero Stato, scriveva ieri Travaglio nella sua striscia settimanale sul blog di Grillo. Ora dovrebbe coniare un altro detto, del tipo Libero Fumogeno in libero Stato. A questo si è giunti oggi alla Festa PD, durante il dibattito con Bonanni (CISL). La contestazione è scesa a livelli da stadio: c’è stata anche l’invasione di palco.

Bonanni è stato prima accolto dai centri sociali con da fischi, urla e lanci di banconote finte. Quindi, quando è stato raggiunto da un fumogeno che gli ha bruciato il giubbotto senza però ferirlo (La Repubblica.it).

Marchionne comanda e Bonanni obbedisce, uno degli slogan. Tanto per capirci: a ciò si arriva perché manca la politica. Federmeccanica disdetta il CCNL, la Fiom si oppone e minaccia il ricorso a vie legali. Dove è il governo in tutto questo? Le parti sociali hanno oramai aperto il conflitto, la concertazione è solo più un campo di cenere e non c’è più freno all’arroganza. Si potrà mai fermare questa discesa all’inferno del conflitto sociale? Sacconi ha diviso il sindacato. Berlusconi ancora dimentica di nominare il Ministro allo Sviluppo Economico. Il governo con la scadenza abbandona il paese; i lavoratori mai li ha presi in considerazione.

Ma ora gli effetti nefasti della globalizzazione hanno avviato l’Italia verso una infelice deindustrializzazione. Non c’è un solo settore dell’industria a essere salvato dalla concorrenza cinese, dell’est Europa o dell’America Latina. Per un imprenditore non c’è alcuna convenienza a produrre in Italia. Produrre qui da noi costa venti volte che in Cina o in Messico. La globalizzazione ha emesso una condanna per la nostra industria. O si cambia, o si chiude. Lo dicono in molti, anche fra i finiani: serve un nuovo patto fra Capitale e Lavoro. Non già a senso unico, sia chiaro. Il lavoro deve essere rispettato, concedendo aumenti salariali e ribadendo la necessità di combattere la precarietà. Eppure, per poter essere competitivi, le relazioni industriali devono rinnovarsi. A cominciare dalle forme contrattuali, i cui rinnovi costano troppo in termini di contrattazione e ore di sciopero. Aprire le Assise del Lavoro sarebbe una buona idea. Discutere del lavoro è necessario e urgente.

Ecco perciò che un sindacato asservito al governo, come sembra essere quello guidato da Bonanni, non serve a nulla. Bonanni oggi è vittima di un’aggressione verbale. Però è anche arteficie di questa situazione di blocco: lui e Angeletti hanno rotto con CGIL; loro hanno permesso la creazione di un ghetto per il sindacato di sinistra. Un ghetto nel quale rimane ancor più isolata la FIOM. Anziché creare i presupposti di un dialogo che comprendesse anche Epifani e Landini, hanno lavorato per delegittimarli. Questa è la loro grave colpa.

Oggi viene facile gridare ‘squadristi’ a coloro che danno alla loro protesta la forma poco democratica della rivolta. La rivolta è ciò che serve per uscire dai ghetti, se lo ricordino. Invece, a questo paese, servono dialogo e democrazia, a cominciare dalle relazioni industriali. Certamente, al governo non ci tengono a dare il buon esempio. Prendete ad esempio le dichiarazioni di oggi di Bossi a margine della condizione di quasi crisi di governo:

Governo: Bossi, se tecnico portiamo dieci milioni di persone a Roma

Fini: Bossi, ognuno si fa uccidere dall’elettorato come vuole

Ecco, questo lessico trasuda violenza e conflitto. E generalmente il lessico è una anticipazione dell’agire collettivo. Se il lessico politico si fa violento, allora, prima o poi, quella violenza verbale si farà atto compiuto. La storia recente ce lo ha insegnato. Tenete presente ciò che accadde negli anni ’70 in questo paese.

Per concludere, il premio dell’Incoerenza è assegnato a Antonio di Pietro, prima difensore del diritto di fischiare Schifani e ora…

BONANNI CONTESTATO: DI PIETRO, VIOLENZA DANNEGGIA DEMOCRAZIA

Sul Lavoro il vuoto della politica e dell’imprenditoria

Dire che le relazioni industriali in Italia devono essere riformate è cosa ovvia: il sistema attuale della contrattazione collettiva partorito dall’Accordo del 23 Luglio 1993 è farraginoso e non produce quei miglioramenti retributivi che i lavoratori si aspettano, mentre costa ore di lavoro di sciopero e la contrattazione sulle norme è arrivata anche a mettere in discussione principi basilari come l’indennità di malattia. Dall’altro lato, c’è il problema della rappresentanza, che è sempre meno rappresentativa degli effettivi voleri dei lavoratori e non procede quasi mai dalla discussione deliberativa delle assemblee di fabbrica che al contrario sono delle mere riunioni in cui si comunicano le decisioni prese da altri e altrove.

Sulla base di queste ragioni non si può affermare che Marchionne sia un innovatore: ha solo portato alla luce del dibattito il difetto del mondo del lavoro dipendente, vincolato a schemi inefficienti e inefficaci. Marchionne, semmai, ha invaso una terra di nessuno, un vuoto che è innanzitutto politico. Ciò gli è consentito dall’arretramento della Politica alla sfera del privato (lotta di egemonia fra personalismi e pertanto di interessi particolari, fatto testimoniato dalla personalizzazione dei partiti politici – partito di Berlusconi, partito di Di Pietro, di Fini, di Casini, e così via). Un vuoto che nemmeno il Sindacato è stato in grado di percepire e di prevenire, assorto com’è dalla comodità delle posizioni consolidata all’interno di organigrammi gerarchici in cui – anche lì – la discussione è messa alla porta.

Di tutto questo non si è parlato e non si parla. Marchionne punta a deregolamentare il lavoro: la sfida della globalizzazione non la si vuol combattere sul piano della Ricerca e Sviluppo, bensì passando per la riduzione della sfera del diritto del lavoro. Come ci ricorda Oscar Giannino, su Il Messaggero,

L’intera storia della globalizzazione, dalla prima rivoluzione industriale manchesteriana, è fatta di Paesi che si affermano e restano per lungo tempo leader anche nell’espansione dei mercati ad aree a più basso costo del lavoro. Purché naturalmente quei Paesi avanzati non dimentichino che devono preservare due condizioni. La prima è che devono avere una struttura produttiva flessibile, in grado di rispondere rapidamente alla mutata domanda internazionale. La seconda è che devono restare titolari di tecnologie di prodotto e processo, gestionali, commerciali e distributive, capaci di preservare m la leadership nella parte più elevata del valore aggiunto, quella che i Paesi emergenti metteranno più tempo a raggiungere (Oscar Giannino, Il Messaggero, 27/08/2010).

Bè, viene da chiedersi se l’Italia ha davvero conservato la titolarità delle “tecnologie di prodotto e di processo”.  Non è forse vero, piuttosto, che Fiat, come buona parte dell’imprenditoria italiana, è sopravvissuta grazie al sussidio statale (incentivi auto) e grazie all’abuso di contratti di lavoro a tempo determinato (interinali e altre tipologie atipiche)? La verità è che l’imprenditoria italiana non “fa”, non crea più nulla: anch’essa, come le relazioni industriali, è ferma al paradigma degli anni sessanta dell’imprenditore padre di famiglia, alla prima industrializzazione. Anziché convertire le produzioni (vedi caso Omsa), gli imprenditori preferiscono delocalizzare. Oppure pretendono che i lavoratori rinuncino ai loro diritti, accordandosi con quella spirale di compromessi verso il basso che la competizione globale impone: una tesi falsa, secondo Giannino, “abilmente insufflata da quel pezzo di sindacato e di sinistra che continua a guardare alla storia attraverso lo specchietto retrovisore”. Naturalmente Giannino punta il dito al solo sindacato, e ignora del tutto le colpe di una imprenditoria che ha guardato al mero guadagno di oggi, sacrificando la competitività del futuro. Giannino condanna Fiom e assolve Confindustria, ma è Confindustria ad aver spalleggiato per anni la politica del privato berlusconiano, scommettendo su una riduzione delle tasse che non vi è mai stata e mai vi sarà. Sono loro i primi colpevoli di questa stagnazione della cultura industriale.

Quando parla della necessità di abbandonare i vecchi schemi, compreso quello della contrapposizione fra capitale e lavoro nei termini di cento anni fa, l’amministratore delegato della Fiat segnala insomma un ritardo delle culture politiche a cui siamo tutti, destra e sinistra, abbarbicati, perché le nostre categorie sono interessanti per gli studiosi di storia ma non servono per fare politica oggi. Ma i cittadini, i lavoratori, vivono nell’oggi (Nicola Rossi, Europa, 27/08/2010).

I rimedi? Una legge sulla rappresentanza, che pure già esiste ma è parcheggiata in un angolo delle Commissioni Lavoro. E la novità è che Bersani ha aperto alla riforma:

«Un nuovo patto sociale lo vogliamo tutti» […] Il segretario del Pd indica anche una possibile via: «Un rafforzamento dei meccanismi di democrazia e partecipazione diretta dei lavoratori nelle aziende» […]  (P. Bersani, CorSera, 27/08/2010).

Qualcuno per favore però dica che ‘partecipazione’ deve andare di pari passo ad adeguata retribuzione.

Operai Fiat e Nuovo Modello di Relazioni Industriali

Pietro Ichino, giuslavorista, senatore del PD, insiste: Marchionne ha sollevato una giusta questione. L’arrembaggio del Professore arriva sia dalle colonne del CorSera, che da quelle di Repubblica. Ma è un tentativo solitario: si percepisce – profonda – la distanza fra le sue proposte e la segreteria Bersani, volta esclusivamente alle gestione della fase di crisi di governo.

Ichino ha in mente un nuovo Modello di Relazioni Industriali che attui il superamento della “conflittualità permanente, i cui fasti si sono celebrati negli anni ’70, e che oggi in Italia è praticata ancora soltanto nel settore dei trasporti e in quello metalmeccanico” (La Repubblica, 12/08/10, pag. 9).

Sul caso Fiat, Ichino dà la sua interpretazione sulla sentenza del giudice che ha reintegrato i tre lavoratori di Melfi, accusati di aver interrotto i carrelli automatici, vale a dire di aver operato un sabotaggio nei confronti dell’Azienda:

la Fiat avrebbe potuto anche vincere la causa: il giudice ha ritenuto, in via provvisoria, il licenziamento ingiustificato solo perché ha considerato che l’istruttoria sommaria non avesse dimostrato il dolo dei lavoratori, cioè la loro volontà di ostruire il flusso dei carrelli automatici. Con questo, lo stesso giudice implicitamente avverte che, se invece nel giudizio di merito quella volontà risultasse dimostrata, il licenziamento potrebbe essere convalidato (Repubblica, cit.).

Il suo parere contrasta con quello di Epifani, segretario generale CGIL, secondo il quale la sentenza riporta “verità e giustizia” sul un provvedimento che i lavoratori avevano subito.

Sapevamo che non c’era stato boicottaggio che è un accusa pesante se rivolta a dei lavoratori di un’azienda del Mezzogiorno che lottano per mantenere la produzione e il posto di lavoro. Abbiamo ancora altri due casi di licenziamenti in piedi. Ma spero che intanto l’azienda rispetti la sentenza del Tribunale di Melfi e si torni a discutere in un ambito di correttezza (Corsera, 12/08/2010, p. 29).

Epifani si dice anche disponibile a riaprire il dialogo con Fiat, ma solo su assenteismo e sui 18 turni. E’ evidente che i due punti di vista sopra esposti non collimano. Può Epifani abbracciare il più ampio discorso di riforma delle relazioni Industriali come ipotizzato da Ichino?

Il lavoro del sen. Ichino in Parlamento è fermo in Commissione da un anno. Il motivo è molto semplice: il governo non è interessato a riforme, vuole fare a pezzi ciò che resta del sindacato e lascia pertanto carta bianca a Fiat. Il testo unificato, opera della Commissione Lavoro, doveva esser approvato lo scorso anno. Si componeva di quattro diversi disegni di legge di iniziativa parlamentare sulla partecipazione dei lavoratori nelle imprese. Ichino si augura che l’iter parlamentare possa riprendere, ma visti i tempi, si può ben credere che il progetto si diriga verso il binario morto e alla decadenza per fine legislatura.

Il testo unificato bipartisan indica nove diverse forme possibili di partecipazione dei lavoratori nelle imprese, da quella più elementare consistente nell’esercizio di diritti di informazione, alla presenza dei lavoratori nel Consiglio di sorveglianza, alla partecipazione agli utili, fino alla partecipazione azionaria, disponendo alcune agevolazioni fiscali per queste ultime ipotesi, in linea con le migliori esperienze straniere (Ichino, Corsera, cit.).

L’idea di base, ispirata al più moderno giuslavorismo, è quello di integrare il lavoratore all’impresa secondo diversi gradi, che sono: l’informazione, la sorveglianza, la codecisione, per finire con il più alto grado di connessione, realizzato con la partecipazione agli utili. Il modello ha trovato ampia applicazione in Germania e Nord Europa. Si vorrebbe realizzare, così, quell’ideale utopico che è la democrazia sindacale/aziendale.

Il progetto di legge non prevedeva alcun obbligo per aziende e sindacati di adottare una o più di queste forme di partecipazione:

il principio cardine è quello della volontarietà, che si concreta nella necessità di un «contratto aziendale istitutivo», stipulato secondo regole di democrazia sindacale. L’obiettivo non è di promuovere questo o quel modello di partecipazione, ma di promuovere la fioritura di una grande pluralità di esperienze in questo campo, lasciando che modelli diversi si confrontino e competano tra loro (ibidem).

E’ chiaro che il modello decentra la responsabilità della contrattazione e le affida ai lavoratori nelle fabbriche, ovvero ai loro organi di rappresentanza. Apre cioè al contratto aziendale, depotenziando il contratto nazionale. Un aspetto che CGIL non accetterà e che Ichino aveva ben previsto, agevolando perciò l’introduzione nel testo di una norma che acconsentirebbe sì a deroghe rispetto al CCNL (come nel caso di Pomigliano), ma attribuendo la facoltà di contrattazione all’organo sindacale più rappresentativo dei lavoratori, che nella maggior parte delle aziende è ancora CGIL (quando invece, con il modello attuale, a Pomigliano CGIL è stata messa in minoranza).

L’efficacia dell’accordo stipulato in quello stabilimento (Pomigliano) da Cisl e Uil senza la Cgil, in mancanza di quel principio di democrazia sindacale, è gravemente in forse per via della deroga al contratto nazionale; per questo la Fiat sta progettando di trasferire lo stabilimento a una nuova società (la «newco») non iscritta a Confindustria, quindi sottratta al campo di applicazione del contratto nazionale dei metalmeccanici, in modo che l’accordo aziendale in deroga possa applicarsi nello stabilimento senza problemi. La Cgil, così, resterebbe esclusa dal sistema di relazioni industriali della nuova impresa (ibidem).

La vicenda appare alquanto controversa. Riforme che conducano verso una effettiva applicazione del principio democratico all’interno delle aziende, per il tramite di organi e responsabilità che concretizzino la partecipazione dei lavoratori al destino aziendale, corrisponderebbero a una idealità fin qui insperata; d’altro canto, se l’alternativa sono le NewCo, pare che non ci sia scampo e che non si possa far altro che procedere verso tale riforma. Il governo ha ceduto il campo a Fiat, la quale è decisa a rompere con Confindustria e a procedere verso la più completa deregulation. E’ questo che necessitiamo? Quale proposta ha CGIL?

Il sindacato è chiamato a un’opera non facile: immaginare il futuro delle relazioni industriali. E a farlo liberandosi il più possibile della logica antagonista. Epifani, nell’intervista al Corsera, devia sulle consuete considerazioni: “il confronto si dovrebbe svolgere su riorganizzazione produttiva, diritti dei lavoratori e piano industriale con gli investimenti per l’innovazione e la nuova offerta di prodotti su cui si gioca la sfida competitiva”. Ma non è solo questione di prodotti; è anche questione di come produrli, di farlo cioè in una forma economicamente competitiva con il resto del mondo. Dove spesso le regole e i diritti non esistono.