Questo ha detto Walter Tocci, stamane al Senato. Un discorso condivisibile, che mette l’accento non su generici allarmi di ‘attacco alla Carta Costituzionale’ ma al contrario mette in discussione tutto l’impianto argomentativo che ha indotto il governo a procedere con una riforma dell’articolo 138. Per Tocci, “si ricorre all’ingegneria istituzionale per obbligare il politico a fare ciò che non gli riesce spontaneamente”, ergo la modifica istituzionale è un paravento che nasconde la reale intenzione di non far niente.
Su questo blog ho avuto parole di critica verso gli allarmisti, verso i professionisti dell’indignazione. Il progetto di legge costituzionale n. 813 è pura scena. Istituisce un comitato fatto di parlamentari (una ‘bicamerale’ a tutti gli effetti) che dovrà preparare dei pacchetti di riforme istituzionali non meglio precisate entro diciotto mesi da quando lo stesso entrerà in funzione. Tutte le riforme istituzionali che il Comitato riuscirà a produrre (quale è il minimo sindacale? Due? Tre riforme?) attraverseranno il Parlamento ad una velocità sinora sconosciuta (1 mese di intervallo fra le due votazioni nello stesso testo) e però dovranno passare il vaglio del referendum popolare anche se validate dal voto dei due terzi. Ebbene, mai queste leggi avranno il voto dei due terzi; mai potranno passare lo scoglio del referendum in una situazione politica così precaria e frammentata (il governo delle larghe intese non sopravviverà a lungo, soprattutto dopo l’accelerazione della deriva giudiziaria per Berlusconi). Questo progetto di legge non è osceno perché sbagliato; è osceno poiché politicamente insostenibile e senza futuro. E’ osceno poiché reca in sé la pretesa di essere rappresentanza di una volontà popolare ma è invece frutto dell’opera di partiti sostenuti da meno della metà del corpo elettorale.
Leggete bene questo eccezionale discorso.
Vorrei ribaltare un famoso incipit dicendo che tutto, fuorché la cortesia, mi porta contro questa proposta di legge. Il mio dissenso comincia dal titolo, si alimenta dal testo e diventa totale sull’idea stessa di toccare la Costituzione.
Per rispetto del mio partito non voterò contro, ma, nel rispetto dell’articolo 67, non posso votare a favore. D’altronde, c’è già troppo unanimismo: si propagano luoghi comuni che sembrano veri solo perché ripetuti con sicumera dall’inizio, trent’anni fa. Il mondo è cambiato, ma l’agenda è rimasta sempre la stessa.
L’entusiasmo iniziale delle bicamerali si è tramutato in una vera ossessione a modificare le istituzioni, una malattia solo italiana, che non trova paragoni in nessun altro Paese occidentale. È difficile credere che la nostra Carta costituzionale sia tanto più difettosa delle altre da meritare questo accanimento terapeutico. È più probabile che il malanno dipenda dagli improbabili costituenti.
Siamo chiamati a dichiarare che la revisione della Costituzione è oggi una suprema esigenza nazionale. Mi chiedo perché, per che cosa e in nome di chi.
La domanda sul perché riguarda la decisione. Si ricorre all’ingegneria istituzionale per obbligare il politico a fare ciò che non gli riesce spontaneamente, ma questo cadornismo applicato all’ordinamento è sempre fallito: il bipolarismo doveva eliminare la corruzione; il federalismo doveva promuovere lo sviluppo locale; il maggioritario doveva garantire la stabilità. Per dirla con don Abbondio, chi non ha la volontà politica, non se la può dare con gli artifici istituzionali.
Eppure questa illusione è dura a morire. Ha sostenuto strategie politiche, ha animato i talk show, ha creato perfino il nuovo ordine professionale degli ingegneri istituzionali, costituito dai parlamentari esperti del tema – ai quali va comunque la mia stima personale – dai giuristi, che ne hanno fatto una carriera accademica, e dagli editorialisti, che ne hanno fatto una fortuna mediatica.
L’ordine degli ingegneri si pone solo domande tecniche, ma il dato saliente del trentennio è la crisi dei partiti. La causa politica dell’ingovernabilità è stata trasferita in capo alle istituzioni. Se non si decide, non è colpa mia, ma dello Stato che non funziona: questo è il motto del politico, a tutti i livelli. Lo sviamento, però, non è stato innocuo: è servito come alibi alla politica per non affrontare i suoi problemi, che si sono di molto aggravati. Le istituzioni sono state stravolte per finalità di parte, invece di essere curate nella loro essenza.
La promessa era di riformare lo Stato per migliorare i partiti, ma sono peggiorati entrambi; mai erano giunti tanto in basso nella stima dei cittadini.
È tempo di fare sobriamente la nostra parte, lasciando in pace le istituzioni. L’unica riforma veramente necessaria è cambiare i nostri partiti per renderli adeguati al compito di governo del Paese.
La domanda sul che cosa si è ridotta ad un mantra: il mondo cambia e bisogna decidere in fretta. Ma in quest’Aula sappiamo bene che le leggi più brutte sono proprio quelle più frettolose: il “porcellum” fu approvato in poche settimane; le leggi ad personam di gran carriera; diversi decreti di Monti, approvati con lo squillar di trombe, sono oggi smontati dal Governo Letta. Il decisionismo senza idee ha prodotto un’alluvione normativa che soffoca l’economia e la vita quotidiana dei cittadini.
Aveva ragione Luigi Einaudi a fare l’elogio della lentezza parlamentare come antidoto all’ipertrofia normativa. Non è la velocità ma la qualità che manca al procedimento legislativo.
La causa è nello strapotere dei governi che da tanti anni propongono solo leggi omnibus, con centinaia di commi disorganici, improvvisati, spesso modificati prima di essere applicati. Questa peste normativa distrugge l’amministrazione dello Stato, crea i contenziosi, le interpretazioni fantasiose e la paralisi attuativa. Bisognerebbe restituire al Parlamento la piena sovranità legislativa, ma questa autoriforma dovremmo farla noi, cari colleghi, senza delegarla all’ordine professionale degli ingegneri istituzionali, dovremmo attuarla con l’orgoglio di parlamentari: poche leggi l’anno, in forma di codici unitari, delegando funzioni al Governo e aumentando i poteri di controllo. Stabilire che non si legiferi senza prima valutare i risultati delle leggi precedenti. Dare alle Commissioni parlamentari poteri di inchiesta: un dirigente di Finmeccanica deve temere un’audizione come un manageramericano quando va in Senato.
Alla terza domanda (in nome di chi?) si risponde: nell’interesse nazionale. Eppure, ogni volta che abbiamo modificato la Costituzione ce ne siamo dovuti pentire: il Titolo V ha creato conflitti permanenti tra Stato e Regioni; dopo lo ius sanguinis del voto all’estero oggi si passa ad invocare lo ius soli per i figli degli immigrati; prima si blocca il pareggio di bilancio e poi si esulta per la deroga concessa dall’Europa.
D’altro canto, basta leggere il testo per notare la differenza. La bella lingua italiana, con le parole semplici e intense dei Padri costituenti, viene improvvisamente interrotta da un lessico nevrotico e tecnicistico, scandito dai rinvii a commi, come un regolamento di condominio. Sono queste le parti aggiunte da noi.
Fortunatamente i cittadini hanno evitato i guai peggiori bocciando la legge costituzionale ideata dagli stessi autori del “porcellum”. L’unico baluardo è venuto dai presidenti di garanzia come Scalfaro, Ciampi e Napolitano. Mi sconcerta la leggerezza con la quale si ritiene possibile demolire questo ultimo bastione. In Italia la personalizzazione si è sempre presentata come patologia e non come responsabilità delle leadership. Non scherziamo col fuoco: il presidenzialismo non sarebbe un emendamento, ma un’altra Costituzione.
Dovremmo avere un senso del limite. I nostri partiti rappresentano oggi a malapena la metà del corpo elettorale, l’altra metà ha manifestato in tutti i modi il disagio e la sfiducia. Noi non siamo quindi in grado, in questo momento, di rappresentare l’unità nazionale. Non è saggio usare la revisione costituzionale per santificare un Governo privo del mandato elettorale. Questo è il vulnus che segna la modifica del 138. Il procedimento lega la sorte del Governo ai tempi e ai modi della revisione costituzionale. Porre un vincolo di maggioranza come inizio e come fine nella della riforma è una forzatura politico-costituzionale senza precedenti in Italia e in Europa. I Governi passano, le Costituzioni rimangono, non dimentichiamolo.
Dovremmo prendere atto che la nostra generazione non è capace di fare queste riforme, che possa farlo oggi al minimo storico del consenso elettorale è un ardimento senza responsabilità, è una dismisura contro lo spirito costituzionale. Lasciamo alle generazioni successive il compito di rielaborare l’eredità ricevuta dai Padri costituenti. Non tutte le generazioni hanno l’autorevolezza per cambiare la Costituzione.
Dovremmo prenderne atto con umiltà, con l’umiltà di cui parla Papa Francesco, che dovrebbe sempre accompagnare l’esercizio del potere. La nostra umiltà è il migliore contributo che possiamo portare oggi alla Carta costituzionale. (Applausi dai Gruppi PD, M5S e Misto-SEL e della senatrice De Pin).