Governo Renzi 1 | Il Senato e il suo Carnefice

Vorrei essere l’ultimo a dover chiedere la fiducia al Senato. L’Alieno entra nel Palazzo e la narrativa giornalistica raggiunge l’apice del pathos. Ezio Mauro, su Repubblica.it, sceglie di esaltare il lato naif: il discorso del Segretario-Premier-Sindaco è diretto ai cittadini (e non all’aula che lo deve votare):

Immagine

Un “discorso inconsueto”, poiché scritto, preparato negli uffici, che lui – così esperto per via della prassi informale impiegata nei lunghi anni di Firenze – abbandona sul tavolo per continuare a braccio. “E’ sembrato voler comunicare tutto quello che da tempo aveva accumulato sulla sua idea di paese”, dice il direttore. Sì, il Sindaco che sfoga gli infiniti pensieri del tempo andato, passato lontano da Palazzo Chigi a immaginare il Paese del futuro. Povero quell’uomo a cui è stata negata questa possibilità, la possibilità di prestarsi per la causa. Renzi ha iniziato questa “sfida personale” (sono sempre parole di Ezio Mauro): per tutto il discorso è sempre stata evocata la fine del “piagnisteo” italiano, l’alba dell’età del fare contro la chiacchiera del parlamento, che nulla fa, specie il Senato. “Vedo che vi divertite”, dice apposta il Premier-Segretario-Sindaco. I senatori, questi discoli, a cui non interessa la vita del cittadino medio. “Ha sentito la maestà delle istituzioni e si è in qualche modo inchinato”, ricorda Mauro, ma poi “ha sfidato il Senato”: datemi una mano, ha detto (a farvi fuori).

In questa narrazione, Renzi è l’anticasta. Lui affronta i temi che “toccano” i cittadini; il premier vuole mettersi in “sintonia con i cittadini”. Andrà ogni fine settimana nelle scuole. E’ il premier-sindaco, si occupa di noi. Lui conosce ciò che è meglio per noi poiché è in sintonia con il Popolo (l’antitesi della Casta politica). Lui sa di aver preso una scorciatoia verso il potere, ma è “convinto di potercela fare”. L’acrobata è sul filo (che coraggio!). Se cade è solo colpa sua, ha avvertito. Non accamperà scuse. Non rivolgerà la colpa ai senatori, per esempio. L’aula è gelida. Senato stai sereno.

Senato, gli equilibri cambiano (secondo il @Corriereit)

Immagine

Immagine

L’infografica degli amici del Corriere della Sera prevede una pattuglia di 28 senatori pronti a sacrificarsi per Letta. Sarà vero?

Il discorso di Walter Tocci sulla Riforma dell’articolo 138 della Costituzione

Questo ha detto Walter Tocci, stamane al Senato. Un discorso condivisibile, che mette l’accento non su generici allarmi di ‘attacco alla Carta Costituzionale’ ma al contrario mette in discussione tutto l’impianto argomentativo che ha indotto il governo a procedere con una riforma dell’articolo 138. Per Tocci, “si ricorre all’ingegneria istituzionale per obbligare il politico a fare ciò che non gli riesce spontaneamente”, ergo la modifica istituzionale è un paravento che nasconde la reale intenzione di non far niente.

Su questo blog ho avuto parole di critica verso gli allarmisti, verso i professionisti dell’indignazione. Il progetto di legge costituzionale n. 813 è pura scena. Istituisce un comitato fatto di parlamentari (una ‘bicamerale’ a tutti gli effetti) che dovrà preparare dei pacchetti di riforme istituzionali non meglio precisate entro diciotto mesi da quando lo stesso entrerà in funzione. Tutte le riforme istituzionali che il Comitato riuscirà a produrre (quale è il minimo sindacale? Due? Tre riforme?) attraverseranno il Parlamento ad una velocità sinora sconosciuta (1 mese di intervallo fra le due votazioni nello stesso testo) e però dovranno passare il vaglio del referendum popolare anche se validate dal voto dei due terzi. Ebbene, mai queste leggi avranno il voto dei due terzi; mai potranno passare lo scoglio del referendum in una situazione politica così precaria e frammentata (il governo delle larghe intese non sopravviverà a lungo, soprattutto dopo l’accelerazione della deriva giudiziaria per Berlusconi). Questo progetto di legge non è osceno perché sbagliato; è osceno poiché politicamente insostenibile e senza futuro. E’ osceno poiché reca in sé la pretesa di essere rappresentanza di una volontà popolare ma è invece frutto dell’opera di partiti sostenuti da meno della metà del corpo elettorale. 

Leggete bene questo eccezionale discorso.

Vorrei ribaltare un famoso incipit dicendo che tutto, fuorché la cortesia, mi porta contro questa proposta di legge. Il mio dissenso comincia dal titolo, si alimenta dal testo e diventa totale sull’idea stessa di toccare la Costituzione.

Per rispetto del mio partito non voterò contro, ma, nel rispetto dell’articolo 67, non posso votare a favore. D’altronde, c’è già troppo unanimismo: si propagano luoghi comuni che sembrano veri solo perché ripetuti con sicumera dall’inizio, trent’anni fa. Il mondo è cambiato, ma l’agenda è rimasta sempre la stessa.

L’entusiasmo iniziale delle bicamerali si è tramutato in una vera ossessione a modificare le istituzioni, una malattia solo italiana, che non trova paragoni in nessun altro Paese occidentale. È difficile credere che la nostra Carta costituzionale sia tanto più difettosa delle altre da meritare questo accanimento terapeutico. È più probabile che il malanno dipenda dagli improbabili costituenti.

Siamo chiamati a dichiarare che la revisione della Costituzione è oggi una suprema esigenza nazionale. Mi chiedo perché, per che cosa e in nome di chi.

La domanda sul perché riguarda la decisione. Si ricorre all’ingegneria istituzionale per obbligare il politico a fare ciò che non gli riesce spontaneamente, ma questo cadornismo applicato all’ordinamento è sempre fallito: il bipolarismo doveva eliminare la corruzione; il federalismo doveva promuovere lo sviluppo locale; il maggioritario doveva garantire la stabilità. Per dirla con don Abbondio, chi non ha la volontà politica, non se la può dare con gli artifici istituzionali.

Eppure questa illusione è dura a morire. Ha sostenuto strategie politiche, ha animato i talk show, ha creato perfino il nuovo ordine professionale degli ingegneri istituzionali, costituito dai parlamentari esperti del tema – ai quali va comunque la mia stima personale – dai giuristi, che ne hanno fatto una carriera accademica, e dagli editorialisti, che ne hanno fatto una fortuna mediatica.

L’ordine degli ingegneri si pone solo domande tecniche, ma il dato saliente del trentennio è la crisi dei partiti. La causa politica dell’ingovernabilità è stata trasferita in capo alle istituzioni. Se non si decide, non è colpa mia, ma dello Stato che non funziona: questo è il motto del politico, a tutti i livelli. Lo sviamento, però, non è stato innocuo: è servito come alibi alla politica per non affrontare i suoi problemi, che si sono di molto aggravati. Le istituzioni sono state stravolte per finalità di parte, invece di essere curate nella loro essenza.

La promessa era di riformare lo Stato per migliorare i partiti, ma sono peggiorati entrambi; mai erano giunti tanto in basso nella stima dei cittadini.

È tempo di fare sobriamente la nostra parte, lasciando in pace le istituzioni. L’unica riforma veramente necessaria è cambiare i nostri partiti per renderli adeguati al compito di governo del Paese.

La domanda sul che cosa si è ridotta ad un mantra: il mondo cambia e bisogna decidere in fretta. Ma in quest’Aula sappiamo bene che le leggi più brutte sono proprio quelle più frettolose: il “porcellum” fu approvato in poche settimane; le leggi ad personam di gran carriera; diversi decreti di Monti, approvati con lo squillar di trombe, sono oggi smontati dal Governo Letta. Il decisionismo senza idee ha prodotto un’alluvione normativa che soffoca l’economia e la vita quotidiana dei cittadini.

Aveva ragione Luigi Einaudi a fare l’elogio della lentezza parlamentare come antidoto all’ipertrofia normativa. Non è la velocità ma la qualità che manca al procedimento legislativo.

La causa è nello strapotere dei governi che da tanti anni propongono solo leggi omnibus, con centinaia di commi disorganici, improvvisati, spesso modificati prima di essere applicati. Questa peste normativa distrugge l’amministrazione dello Stato, crea i contenziosi, le interpretazioni fantasiose e la paralisi attuativa. Bisognerebbe restituire al Parlamento la piena sovranità legislativa, ma questa autoriforma dovremmo farla noi, cari colleghi, senza delegarla all’ordine professionale degli ingegneri istituzionali, dovremmo attuarla con l’orgoglio di parlamentari: poche leggi l’anno, in forma di codici unitari, delegando funzioni al Governo e aumentando i poteri di controllo. Stabilire che non si legiferi senza prima valutare i risultati delle leggi precedenti. Dare alle Commissioni parlamentari poteri di inchiesta: un dirigente di Finmeccanica deve temere un’audizione come un manageramericano quando va in Senato.

Alla terza domanda (in nome di chi?) si risponde: nell’interesse nazionale. Eppure, ogni volta che abbiamo modificato la Costituzione ce ne siamo dovuti pentire: il Titolo V ha creato conflitti permanenti tra Stato e Regioni; dopo lo ius sanguinis del voto all’estero oggi si passa ad invocare lo ius soli per i figli degli immigrati; prima si blocca il pareggio di bilancio e poi si esulta per la deroga concessa dall’Europa.

D’altro canto, basta leggere il testo per notare la differenza. La bella lingua italiana, con le parole semplici e intense dei Padri costituenti, viene improvvisamente interrotta da un lessico nevrotico e tecnicistico, scandito dai rinvii a commi, come un regolamento di condominio. Sono queste le parti aggiunte da noi.

Fortunatamente i cittadini hanno evitato i guai peggiori bocciando la legge costituzionale ideata dagli stessi autori del “porcellum”. L’unico baluardo è venuto dai presidenti di garanzia come Scalfaro, Ciampi e Napolitano. Mi sconcerta la leggerezza con la quale si ritiene possibile demolire questo ultimo bastione. In Italia la personalizzazione si è sempre presentata come patologia e non come responsabilità delle leadership. Non scherziamo col fuoco: il presidenzialismo non sarebbe un emendamento, ma un’altra Costituzione.

Dovremmo avere un senso del limite. I nostri partiti rappresentano oggi a malapena la metà del corpo elettorale, l’altra metà ha manifestato in tutti i modi il disagio e la sfiducia. Noi non siamo quindi in grado, in questo momento, di rappresentare l’unità nazionale. Non è saggio usare la revisione costituzionale per santificare un Governo privo del mandato elettorale. Questo è il vulnus che segna la modifica del 138. Il procedimento lega la sorte del Governo ai tempi e ai modi della revisione costituzionale. Porre un vincolo di maggioranza come inizio e come fine nella della riforma è una forzatura politico-costituzionale senza precedenti in Italia e in Europa. I Governi passano, le Costituzioni rimangono, non dimentichiamolo.

Dovremmo prendere atto che la nostra generazione non è capace di fare queste riforme, che possa farlo oggi al minimo storico del consenso elettorale è un ardimento senza responsabilità, è una dismisura contro lo spirito costituzionale. Lasciamo alle generazioni successive il compito di rielaborare l’eredità ricevuta dai Padri costituenti. Non tutte le generazioni hanno l’autorevolezza per cambiare la Costituzione.

Dovremmo prenderne atto con umiltà, con l’umiltà di cui parla Papa Francesco, che dovrebbe sempre accompagnare l’esercizio del potere. La nostra umiltà è il migliore contributo che possiamo portare oggi alla Carta costituzionale. (Applausi dai Gruppi PD, M5S e Misto-SEL e della senatrice De Pin).

M5S | Gambaro alla sbarra per lesa Maestà – io #difendoAdele

Immagine

Il Movimento 5 Stelle organizza il Tribunale del Popolo per mandare al rogo l’eretica Gambaro. Avrà luogo lunedì la gogna virtuale.

Il gruppo del M5s in riunione apprende da un post di Beppe Grillo l’intenzione del movimento di procedere alla valutazione dell’espulsione della senatrice Adele Gambaro. Dalla riunione si sentono urla e alcuni lasciano l’Aula. Il primo ad andarsene è Lorenzo Battista con Paola De Pinna; poi anche Rosetta Blundo (Ansa.it).

Gambaro sarebbe colpevole di non aver rispettato la propria promessa di rinunciare al seggio qualora si fosse trovata in minoranza rispetto alla linea del Movimento  – non ha rubato, non ha violato i patti del contratto con gli elettori, ha espresso un’opinione, condivisibile o meno, discutibile o meno. L’idiozia che continua ad ottenebrare le menti di chi guida la pattuglia di parlamentari sta rendendo il Movimento completamente inutile al cambiamento. L’aula è vuota, non legifera, il governo stenta a trovare soluzioni al meccanismo perfetto dell’aumento automatico dell’IVA. Mentre la situazione generale, specie quella economica, scivola quotidianamente di mano, i 5 Stelle sono invece persi a censurare una loro parlamentare. Una cittadina, meno cittadina degli altri, poiché privata della libertà di espressione in virtù della regola fideistica che ciò che vuole il Capo (Comico) ha ‘vigore’ di legge. La democrazia diretta si è trasformata in un soviet.

Io difendo Gambaro poiché difendo la possibilità di esprimere sé stessi attraverso gli atti e e le opinioni. Non ci sono non-Statuti che possano ridurre la sfera delle libertà civili di una cittadina. Io #difendoAdele; difendete Adele Gambaro anche voi. Difenderete anche un po’ voi stessi.

La non-senatrice Mangili (M5S)

Giovanna Mangili è stata eletta senatrice per il M5S in Lombardia. Suo marito è consigliere comunale pentastellato nel comune di Cesano Maderno. La donna vince le primarie della circoscrizione Lombardia I conquistandosi sia il primo posto il lista per il Senato che le antipatie di tutto il Cinque Stelle milanese. Per le pressioni ricevute su Facebook e palesate dal marito in uno o più ‘aggiornamenti di stato’, aveva pensato di dimettersi all’istante, non appena eletta.

Oggi il Senato ha discusso in aula sulle sue dimissioni. Ai sensi dell’articolo 113, comma 3, del Regolamento, il Presidente ha indetto la votazione a scrutinio segreto. E l’aula ha respinto le dimissioni, ritenute piuttosto vaghe. I colleghi senatori non si sono accontentati dei generici ‘motivi personali’; richiedono invece di ascoltare la donna.

Vito Crimi ha argomentato nella maniera ambivalente che lo ha sempre contraddistinto in queste prime settimane della legislatura. A metà marzo aveva dichiarato che “Giovanna Mangili non ha retto alle pressioni, agli attacchi, alle forti illazioni” (blitzquotidiano.it). Oggi ha detto in aula che Mangili non si troverebbe “nelle condizioni di affrontare un agone, un luogo – per intenderci – che non è una piazza qualunque, in cui dover rappresentare le proprie motivazioni personali o il percorso che hanno portato a fare una tale scelta” (Resoconto stenografico Senato, seduta n. 9 del 03/04/2013). Secondo Crimi, la donna avrebbe espresso la volontà di non esercitare l’attività di parlamentare. Questo sarebbe sufficiente per accettarne le dimissioni. Tutto il blocco dei 5 Stelle (48 voti) ha votato a favore della richiesta di dimissioni. Il Senato vuole appurare invece che tale volontà non sia frutto di minacce o di intimidazioni. Era lo stesso Crimi a dire che Mangili era stata oggetto di forti pressioni e di illazioni. Ora queste stesse pressioni sono trasformate da Crimi in qualcosa d’altro. “Non andare a cercare in dibattiti in rete motivazioni inesistenti, che attengono esclusivamente a questioni personali dell’interessata“, ha detto all’aula.

Così scrisse il marito su Facebook:

Immagine

Eppure qualche giorno dopo…

Immagine

In realtà credo che Mangili sia una semplice ‘malcapitata’. La risolutezza con la quale il marito, Walter Mio, continua a sostenere il Movimento e specialmente Vito Crimi (è fra quelli che hanno chiesto la dichiarazione di voto pubblica per i 15 votanti eretici di Piero Grasso), è un indice ben chiaro del fatto che non esiste alcun sospetto e, se pure ci fosse stata della discussione sulla elezione della moglie, si sarebbe trattato senz’altro di una miserevole bega da quattro soldi, faccende su cui il Senato dovrebbe astenersi e non spendere altro tempo. Ha pur ragione Anna Finocchiaro a dire quel che ha detto  – citando Zagrebelsky [1] – sul divieto di mandato imperativo e sull’articolo 67 della Costituzione che lo contiene. Ma dubito che ci la vicenda di Mangili meriti argomenti tanto rilevanti. 

[1] La libertà dei rappresentanti, senza vincolo di mandato, esprime questa esigenza che in Parlamento – il luogo dove ci si parla – sia possibile perseguire il raggiungimento di quel punto mediano e che l’Aula non sia il terreno di battaglia di eserciti schierati per ottenere o tutto o niente. I rappresentanti devono disporre di quel margine di adattabilità alle circostanze rimesso alla loro responsabilità. Ecco, in sintesi direi questo: libertà del mandato, uguale responsabilità; vincolo di mandato, uguale irresponsabilità, ignoranza totale delle qualità personali dei rappresentanti, mortificazione delle personalità.

#Elezioni2013 | Il confronto al Senato

Aggiorno con fatica e malavoglia queste analisi dati, ma tant’è, l’esito è quello che abbiamo sotto gli occhi e non si può far finta di niente. Il grafico sottostante lo potete vedere nella sua versione interattiva su http://politiche2013.iobloggo.com ma è evidente che il colpo d’occhio già dice tutto. A sinistra la cartina dell’Italia con la colorazione bluastra identifica la percentuale di voti presa al Senato dalla coalizione di centrodestra; nella parte destra, il colore rosso identifica la concentrazione percentuale del centrosinistra, anch’essa al Senato. In entrambi i casi si nota un calo della concentrazione, ma è significativo che il centrosinistra subisca una dura ‘botta’ anche e soprattutto nelle regioni tradizionalmente rosse.

Ripeto, l’analisi è condotta sulle percentuali e non sui voti assoluti.

sen_csx_cdx

Blocco totale

Non ci si può nascondere, questa volta. Non si potrà dire che è stata colpa dei 5 Stelle. La sconfitta è evidente, soprattutto se si guarda alla ex regione in bilico, la Lombardia, dove il centrodestra mantiene un 38% di consensi, nonostante tutto, nonostante questi anni terribili, dove si è visto e sopportato di tutto. Non c’è stato il tanto ventilato sorpasso in discesa. Nulla.

Chi scrive è ovviamente deluso da questo risultato. Deluso per il fatto che in ampie parti del paese, gli esponenti del centrodestra, che dovrebbero essere espulsi dall’arco costituzionale, fanno man bassa dei voti vendendo inutili promesse ed esponendo tutto il paese al rischio di un commissariamento, oggi più probabile che mai.

Qualcuno scriverà e dirà che il Movimento 5 Stelle ha sottratto voti soprattutto a sinistra, che il paese è ostaggio di una legge elettorale che definirla porcata è oramai una gentilezza. Sarà pur vero, ma è altrettanto chiaro che il risultato che si profila è segno dell’eterna immaturità dell’elettorato di sinistra, incapace di credere ad una proposta di governo sino in fondo, incapace di produrre una effettiva partecipazione.

Non credo che Bersani abbia commesso degli errori, in questa campagna elettorale. Ha perso semplicemente perché esponente di quel gruppo dirigenziale che ha governato il partito di sinistra dalla svolta della Bolognina in poi. Un’epoca è finita, anche per il Partito Democratico. D’ora in poi, di quella generazione di politici di scuola PCI non ci sarà più traccia. Loro hanno sempre perso le elezioni determinanti per le sorti di questo paese. Nel 1994, nel 2001, nel 2008 e quelle odierne. Non sarà mai più lo stesso partito. E ciò potrebbe anche essere una fortuna (una fortuna che arriva sempre troppo tardi).

Ed ora? All’estero stanno chiaramente dicendo che ‘gli italiani hanno gettato il loro voto’. I mercati stanno guardando e domani mattina gli investitori venderanno tutto ciò che hanno in tasca che abbia a che fare con questo paese. Tutto. Prepariamoci al peggio. Una seconda tornata elettorale fra sei mesi significherà una sorta di ‘esercizio provvisorio’ da parte di un governo di unità nazionale. Le questioni economiche, quelle serie, quelle che riguardano il pareggio di bilancio e il rispetto delle norme del Fiscal Compact, rimarranno in secondo piano. Per la Commissione Europea sarà facile piegare un esecutivo debole e ad imporre la vigilanza della Troika. Guardiamo la Grecia, oggi, come fosse un paese lontano. Ma i greci, l’anno scorso, erano proprio nella nostra stessa situazione.

Sondaggi Politiche 2013: al Senato il rischio pareggio si allontana

Affermo questo in controtendenza rispetto ai giornalisti, che parlano di rimonta di Berlusconi. La realtà descritta dai sondaggi è leggermente diversa e sembra palesarsi una tendenza che potrebbe favorire il costituirsi di una maggioranza di centrosinistra al Senato, anche con ‘Italia Bene Comune’ sconfitta in Lombardia e Veneto. Tutti – giornali, tv, sondaggisti – hanno notato la flessione di Scelta Civica di Monti. Il Professore è stato sorpassato da Grillo, è stato scritto. E’ vero, e ciò ha un effetto particolare , soprattutto in Veneto.

Il Veneto distribuisce 24 seggi al Senato. Il cdx è nettamente in vantaggio, quindi vincerebbe il 55% dei seggi (13). Stando al sondaggio di Euromedia Research, condotto fra il 25 e il 28 Gennaio scorsi e divulgato durante Porta a Porta del 30 Gennaio, la suddivisione dei seggi sarebbe la seguente:

Euromedia
La Destra 1
PdL 19
Altri cdx 1,5
Lega Nord 22,4
Lista Monti 11,9
CD 0,6
PD 29,2
Sel 3,1
Riv. Civile 1,7
FARE 1,2
Radicali
M5S 7,2
Altri 1,2
Seggi
PdL 6
Lega Nord 7
PD 7
M5S 2
Lista Monti 2

Considerato che difficilmente la coalizione fra PdL e Lega avrà una vita oltre le elezioni, e che lo stallo per la Lista Monti in Veneto potrebbe continuare sino a 24-25 Febbraio, si avrebbe il risultato paradossale di un pacchetto seggi suddiviso quasi equamente fra PD, Lega e PdL.

senato_venetoEuromedia assegna la vittoria al csx sia in Sicilia che in Campania, ma per una manciata di voti:

Regione Coalizione
Campania cdx 30,0
csx 32,6
Sicilia cdx 30,5
csx 30,7
Lombardia cdx 35,5
csx 35,0

Il grafico che segue invece simula la composizione del Senato nella prossima legislatura, stando appunto ai sondaggi di Euromedia:

senatoVa da sé che il conteggio non è dissimile da quanto sappiamo ed abbiamo potuto leggere sui giornali nelle ultime settimane. Il PD e Sel insieme non raggiungono l’autosufficienza, ma con i tre seggi del SVP (tradizionalmente di centrosinistra) avrebbero un totale di 151 seggi. Ne mancano sette per la maggioranza. Sei seggi vengono assegnati con il voto degli italiani all’estero. Nella precedente legislatura solo due erano del PD. Non ci sono al momento sondaggi né analisi serie su come possa andare il voto all’estero. Quindi, ai fattori di incertezza, aggiungerei anche la Circoscrizione Estero. A sorpresa potrebbe essere quella determinante. Soprattutto se la flessione di Monti dovesse continuare.

Riassumendo: in Lombardia cdx +0.5, un soffio di vento verso Ambrosoli e le cose cambiano radicalmente; in Veneto, l’effetto perverso del Porcellum farà prendere al PD tanti seggi quanti la Lega; in Campania il csx ha un vantaggio di circa due punti percentuali; in Sicilia è di nuovo testa a testa; il voto all’Estero è sinora un enigma. Abbastanza per far presagire un risultato a sorpresa.

Maroni e il finto rinnovamento della Lega Nord

maroni-scopa-2

Una furbizia. A parte l’epurazione dei fedeli al Cerchio Magico (ovvero l’esclusione dei Bricolo, Lussana e co.), le liste elettorali della Lega Nord apportano solo apparentemente un rinnovamento della pattuglia dei deputati e dei senatori del Carroccio. Con una furbizia, appunto, che nel prosieguo di questo post vi svelerò.

Innanzitutto vediamo la composizione per genere e per età delle liste elettorali:

Liste Senato    
Uomini 116 72%
Donne 45 28%
161
Età media 55,0  
Uomini 55,3
Donne 54,1
Liste Camera    
Uomini 225 66%
Donne 117 34%
342
Età media 44,8  
Uomini 44,5
Donne 45,2

Le donne in lista superano di poco il 30% alla Camera mentre al Senato in proporzione sono ancora meno. L’età media è più alta per le donne alla Camera. Si direbbe che, rispetto alla XVI Legislatura, la percentuale di donne aumenterà: fra i parlamentari uscenti, le donne erano il 13% della delegazione al Senato e il 17% alla Camera. Si devono però considerare le posizioni in lista che – come sappiamo – non sono tutte ‘eleggibili’. Raggruppando per categorie di posizionamenti, si verifica quanto segue:

Posizione in lista delle Donne al Senato    
1-5 12/46 26,1%
6-15 17/60 28,3%
16-25 9/36 25,0%
26-35 5/10 50,0%
36-45 2/9 22,2%
Posizione in lista delle Donne al Camera    
1-5 12/70 17,1%
6-15 48/128 37,5%
16-25 34/73 46,6%
26-35 18/46 39,1%
36-45 5/25 20,0%

Ammesso che le posizioni eleggibili per la Lega Nord non andranno molto oltre la quinta/decima posizione, si comprende come la percentuale di donne alla Camera è destinata a rimanere quella attuale, mentre ci sono alcune possibilità di incremento per il Senato. E’ necessario rimarcare che due sole donne sono state designate capolista (Viale Sonia, capolista alla Camera in Liguria; Sergio Divina, capolista ma anche unica candidata al Senato per il Trentino AA). La modalità di selezione dei capilista è quella che conoscete. Al Senato, per esempio, il nome di Giulio Tremonti è primo in sei liste su dieci (più che doppia candidatura, in questo caso parlerei di sestupla); alla Camera è il nome di Roberto Cota a comparire capolista ben due volte (oltre alla doppia candidatura, dietro al suo nome si cela la fregatura che Cota, un giorno dopo al voto, rinuncerà al seggio alla Camera per poter continuare a fare il governatore del Piemonte – più che candidatura civetta si tratta di un vero e proprio raggiro).

Rispetto alla composizione della delegazione al Senato e alla Camera, le liste apporterebbero un certo grado di rinnovamento poiché non tutti gli attuali senatori sono stati ricandidati, e così non tutti gli attuali deputati. Senza ulteriore approfondimento, potrei dirvi che:

Senato    
Senatori in carica 22
Riproposti in lista 9
candidati alla Camera 1
Posizione in lista dei senatori ricandidati    
1-5 3/9 33,3%
6-15 3/9 33,3%
16-25 3/9 33,3%
26-35 0 0,0%
36-45 0 0,0%
Tasso di sostituzione Senato   54,55%
Camera    
Deputati in carica 58
Riproposti in lista 20
candidati al Senato 14
Posizione in lista dei deputati ricandidati    
1-5 18/20 90,0%
6-15 2/20 10,0%
16-25 0  
26-35 0  
36-45 0  
Tasso di sostituzione Camera   58,62%

In realtà, le posizioni eleggibili al Senato sono state riempite degli attuali deputati: dei 58 deputati in carica, ben 20 vengono ricandidati alla camera, ma altri 14 vengono dirottati al Senato. Ne consegue che, se la Lega dovesse difendere tutti gli attuali 22 posti al Senato (fatto ipotetico e attualmente poco probabile), circa 6 sarebbero certamente gli ex senatori ricandidati e collocati in posizione eleggibile;  tutti gli altri sarebbero ex deputati della XVI Legislatura. Cioè, il Carroccio rinnova al Senato praticamente con un trucchetto: infatti, dei 14 ex deputati ricandidati al Senato, almeno una decina sono collocati in posizione eleggibile:

Posizione in lista dei ricandidati al Senato    
1-5 9/14 64,3%
6-15 4/14 28,6%
16-25 1/14 7,1%
26-35 0  
36-45 0  

Ne consegue pertanto che il gruppo parlamentare leghista al Senato sarà fatto tutto di senatori e deputati dell’ultima tremenda XVI Legislatura. Praticamente il tasso di sostituzione è pari a zero. Questo mentre alla Camera, prevedendo una forte riduzione della numerosità del gruppo, gli artefici delle liste della Lega hanno ben pensato di sistemare tutti gli ex deputati in posizione eleggibile (1-5, 90%).

Attenti, quindi, a quanti vi parlano delle ramazze di Maroni. Esse sono state impiegate per eliminare l’avversario interno, nulla di più.

Sondaggi Politiche 2013: Senato, a rischio governabilità

Aggiornato il 08/01/13: ho inserito Rivoluzione Civile come lista unitaria (prenderebbe, stando agli attuali sondaggi, ben 8 senatori) ed ho corretto alcuni errori.

Il sito http://www.scenaripolitici.com ha – dalla fine di dicembre 2012 – condotto una serie di sondaggi a base regionale per comprendere cosa accadrà il 24-25 Febbraio prossimi per quanto concerne il voto del Senato. Non mi sono chiare le modalità di conduzione del sondaggio – è probabile che sia stato veicolato in rete, o direttamente sul sito sopra indicato. Inoltre, la sequenza di liste proposte al visitatore-elettore non comprendeva ancora la lista “Con Monti per l’Italia”. Quindi ho qualche dubbio sulla scientificità della consultazione, ma ho trovato i risultati abbastanza coerenti con le Regioni relative o con quanto ci si aspetterebbe, anche se secondo me alcune liste, come IDV, Fds e Rivoluzione Civile sono un po’ sopravvalutate, specie nel Lazio.

Ho però provveduto a raccogliere questa mole di informazioni, di percentuali e di nomi di liste, copiandola su un foglio di calcolo; ho applicato le regole previste dal Porcellum, ovvero riparto proporzionale con il metodo dei quozienti interi e dei più alti resti, applicando le soglie di sbarramento del 20% per le coalizioni (3% per ottenere seggi all’interno di una coalizione), dell’8% per i partiti non coalizzati. Alla coalizione vincente ho attribuito il premio del 55%, arrotondando al numero superiore (es. Sardegna, n. seggi 8 per 0.55 equivale a 4.44, arrotondato a 5; i rimanenti tre seggi sono divisi per le liste perdenti che superano l’8%). Al termine della ricopiatura dei dati, il foglio di calcolo ha raggiunto 393 righe.

Vi anticipo che la decisione di oggi di PdL e Lega di presentarsi in coalizione era inevitabile. Nessuno dei due partiti avrebbe trovato giovamento a correre da solo al Senato. In particolare, l’obiettivo di Berlusconi, senza la Lega, di impattare al Senato era irraggiungibile. Invece, la rinnovata alleanza del Nord incrementa di molto le possibilità di non avere una maggioranza certa a Palazzo Madama. E posso aggiungere che, o la Lista Monti ottiene seggi a discapito del centrodestra, oppure la maggioranza sarebbe a rischio anche in caso di alleanza post-voto fra Bersani e il centrino. Ora vi spiego perché.

1. Lega Nord e PdL: una alleanza inevitabile

Innanzitutto vediamo quale sarebbe stata la composizione del Senato con PdL e Lega divise:

PdL 45
Lega Nord 15
centro 18
PD 140
Sel 25
SVP 3
Mov Autonomie 2
M5S 52
Sen V. Aosta 1
Riv. Civile 8

La coalizione Italia Bene Comune avrebbe raggiunto la maggioranza relativa con ben 170 seggi (PD+Sel+SVP+Mov. Autonomie – Friuli). La Lega Nord si ritroverebbe minimizzata  con un numero di senatori inferiore a quello del centro di Monti-Casini-Montezemolo-Fini. Notate i 5 Stelle con una corposa pattuglia di 52 senatori. E’ plausibile che i sondaggi di Senari Politici non abbiano fatto in tempo ad intercettare il calo di consensi per il partito di Grillo, in ogni caso si tratterebbe della seconda delegazione più folta, dopo quella del PD.

Composizione Senato: ipotesi PdL e Lega separati

Composizione Senato: ipotesi PdL e Lega separati

La tabella che segue, invece, mostra la composizione del Senato con Lega e PdL apparentati:

PdL 53
Lega Nord 30
centro 18
PD 121
Sel 23
SVP 3
Mov Autonomie 2
M5S 50
Sen V. Aosta 1
Riv. Civile 8

In sostanza, la Lega vedrebbe incrementare i propri seggi da 15 a 30(+93%);  il PdL da 48 a 53 (+8%). Innegabile che fra i due chi ci guadagna di più è il Carroccio, che può così anche contare sull’appoggio di Berlusconi a Maroni in Lombardia. Ma il PdL ha un altro obiettivo: far saltare il Senato. Il centrosinistra non avrebbe la maggioranza relativa. Italia Bene Comune si fermerebbe a 149 seggi. L’eventuale alleanza post elettorale con il centrino di Monti – stando alle rivelazioni dei tipi di Scenari Politici che, come ho detto, non hanno apprezzato a dovere la neonata Lista Monti per una mera questione temporale – creerebbe un gruppo di 167 senatori: la maggioranza richiesta al Senato è di 158 voti.

Composizione Senato con PdL e Lega alleati

Composizione Senato con PdL e Lega alleati

2. L’Effetto Lombardia

Notate come il PD, rispetto alla prima condizione perda ben 27 senatori. Ciò accade perché l’alleanza PdL-Lega vincerebbe sia la Lombardia che il Veneto:

Lombardia PdL//Lega PdL+Lega
PdL 6 11
Lega 9 16
PD 23 12
Sel 4 2
M5S 7 8
Veneto PdL//Lega PdL+Lega
PdL 2 5
Lega 3 8
centro 2 2
PD 13 5
M5S 4 4

Facendo due conti, il PD – considerando una vittoria di misura in Sicilia –  tra Lombardia e Veneto si gioca 19 seggi al Senato. In poche parole, se il PD dovesse miracolosamente confermare i sondaggi sulla contesa Ambrosoli-Maroni per Palazzo Lombardia, potrebbe scongiurare l’instabilità e il rischio della ripetizione della consultazione elettorale. Ambrosoli è un punto percentuale sopra Maroni (che sconta la presenza della candidatura dell’ex sindaco di Milano, Albertini); la sua eventuale vittoria potrebbe valere un effetto traino per le politiche. Porterebbe la coalizione di centrosinistra intorno ai 159 seggi, ancora non sufficienti a governare il paese. Detto in poche parole: vincere la Lombardia non permetterebbe di evitare un’alleanza post voto con il centrino.

Aggiornamento:

Claudio Cerasa, su Il Foglio, ha pubblicato una tabella in cui spiega le possibili condizioni affinché il centrosinistra ottenga il maggioranza al Senato:

cerasa

Il caso che vi ho presentato è similare a quello che Cerasa chiama “Wins all Region but 2, Lombardy+1”, con un risultato soltanto un po’ sottovalutato (per esempio, il Veneto secondo Cerasa consegnerebe al PD 6 seggi, secondo il mio calcolo 5).

[parte prima]

Il senso della Fornero per gli esodati

No, non era la ministro del Lavoro, Elsa Fornero, ad attraversare le cascate del Niagara su una fune. Ma oggi, durante l’audizione al Senato, ha mostrato di avere una certa abilità a restare sospesa nel vuoto. Eppure sembrava sempre sul punto di cadere, di precipitare in una ammissione. Sì, ho mentito sugli esodati. Ho mentito perché mi vergogno di quello che faccio, me ne vergogno profondamente e non riesco ad accettare la verità, ovvero che con la riforma delle pensioni ci siamo dimenticati di 350 mila italiani che sono usciti dal mondo del lavoro e che, grazie a questa dannata riforma, ora non hanno nemmeno una pensione.

Invece, l’equilibrista ha tentato di tenersi in piedi usando un’arma che un docente universitario quale è lei sa ben impiegare: le parole. Fornero ha esordito in aula al Senato subito puntualizzando che il termine esodati contiene “elementi di incertezza già a partire dall’individuazione dei soggetti interessati, anzitutto in termini concettuali e conseguentemente in termini numerici”. Ecco l’arma che giustifica il numero: la definizione concettuale di esodati. Esodati non sono semplicemente quelle persone che hanno lasciato il posto di lavoro sulla base di accordi intersindacali o che sono stati parcheggiati in mobilità, mancando loro pochi anni alla pensione. Ed è colpa dei giornali, perché è il “linguaggio giornalistico” ad aver “usato indifferentemente i termini salvaguardati, esodati ed esodandi, collocati e collocandi in mobilità”. Gli esodati, secondo Fornero sono lavoratori da salvaguardare: “si tratta, piuttosto, di tener conto delle comprensibili aspettative dei lavoratori verso un prossimo pensionamento, operandone un contemperamento con le contrapposte esigenze di stabilizzazione finanziaria”. Si tratterebbe di una pia intenzione, se non fosse che il guaio esodati l’ha prodotto il suo Dicastero. Ma Fornero non se ne rende conto, o non vuole. Ha persino trovato un nuovo capro espiatorio, un obiettivo facile facile: il Parlamento.

In sede di definizione della riforma, i lavoratori da salvaguardare rispetto ai nuovi, più stringenti requisiti furono stimati da INPS e Ragioneria generale in circa 50.000. Tale numero fu quindi aumentato a 65.000 per garantire un margine di flessibilità, e si stanziarono le relative risorse. Poiché il decreto disponeva che i pensionamenti del 2012 avvenissero comunque sulla base delle vecchie regole, la legge stabilì nel 31 marzo il termine per la presentazione del relativo decreto interministeriale, così da consentire al Governo di approntare un provvedimento ragionato. Successivamente, con l’approvazione del decreto milleproroghe, il Parlamento ha aumentato il numero dei lavoratori da salvaguardare inserendo, pur con restrizioni, “accordi individuali” e “genitori di figli disabili” e stabilendo una clausola di salvaguardia, questa volta finanziaria, implicante l’aumento dell’aliquota contributiva nel caso di costo eccedente le risorse già accantonate. Nello stesso tempo il termine per l’emanazione del decreto interministeriale fu spostato al 30 giugno 2012 (Senato, Resoconto stenografico seduta 746 del 19/06/2012).

Certo, è vero: si tratta di un parlamento di inqualificabili, di fannulloni e malfattori. Ma nel decreto milleproroghe si cercava di riparare ai danni della Riforma delle pensioni. Il parlamento ha esteso la clausola di salvaguardia poiché il danno c’era già. Ma Fornero si contraddice quando afferma che, durante le attività di studio per la preparazione del decreto sugli esodati, “è apparso molto rilevante il numero dei lavoratori ancora in attività o in cassa integrazione interessati da accordi collettivi stipulati a livello governativo, ma ancor più a livello territoriale, per la gestione di crisi aziendali attraverso la fruizione di ammortizzatori sociali”. Quindi, delle due l’una: o il numero dei lavoratori interessati da questi accordi non era chiaro, oppure era rilevante. Fornero afferma che era difficile quantificare il numero di questi accordi? Allora perché dire che si trattava di un “numero rilevante”?

Fornero spiega pertanto la scelta di concentrarsi solo sui “lavoratori in più immediata situazione di necessità e quindi preparare il decreto per la salvaguardia del contingente già uscito dal lavoro, secondo un naturale criterio di equità tendente a dare precedenza ai soggetti con maggiore rischio di trovarsi senza reddito e senza pensione”. La restante parte dei lavoratori esodati andrà in pensione dal 2014, non sono petranto un “problema imminente”:

La non imminenza del problema (che riguarda pensionamenti a partire dal 2014) e l’assenza di risorse finanziarie immediatamente reperibili in un bilancio pubblico già messo a dura prova da vincoli interni e internazionali hanno indotto a ritenere che lo si sarebbe potuto affrontare nei mesi successivi. Peraltro non già con decreto interministeriale, bensì con uno specifico intervento normativo inteso ad estendere la salvaguardia anche a tali lavoratori (senato, Resoconto stenografico, cit.).

Solo ora viene la parte più convincente del discorso di Fornero. Quella dei numeri. Doveva andare in Senato per fornirli, soltanto questo. Ecco gli esodati secondo Elsa Fornero:

  1. 60.000 lavoratori che già hanno maturato i requisiti al 31 dicembre 2011, e quindi già fatti esplicitamente salvi dall’applicazione dei nuovi requisiti dalle disposizioni della riforma;
  2. a questi si aggiungono oltre 16.000 soggetti per i quali nulla cambia con la riforma, data la stessa decorrenza tra il nuovo e il vecchio regime;
  3. i soggetti che maturano i requisiti previgenti al di fuori del periodo di mobilità e la cui inclusione nella platea dei salvaguardati comporta non solo una modifica della legislazione, ma anche una modifica dell’impostazione assunta negli schemi di deroghe degli ultimi 15 anni;
  4. i lavoratori collocati in mobilità dopo la data del 4 dicembre 2011, mentre la disposizione di legge si riferisce a questa data;
  5. tutti i soggetti licenziati entro il 31 dicembre 2011, in seguito ad accordi individuali o collettivi, a prescindere dalla data di maturazione del diritto alla decorrenza, mentre il decreto proroga termini prevede espressamente che la deroga operi per chi matura la decorrenza del trattamento entro 24 mesi dalla data di entrata in vigore della nuova normativa;
  6. i soggetti beneficiari della prosecuzione volontaria, senza alcun criterio selettivo di prossimità al pensionamento: per questi soggetti il decreto ha in effetti adottato, in coerenza con la soluzione proposta dal legislatore per i licenziamenti individuali, lo stesso criterio di prossimità di 24 mesi dal pensionamento;
  7. i “collocandi in mobilità”, ai sensi di accordi collettivi stipulati entro il 4 dicembre (o entro il 31 dicembre, secondo un ordine del giorno approvato dal Parlamento), che avrebbero conseguito il trattamento pensionistico secondo le vecchie regole al termine del periodo di mobilità (maturandi dei requisiti di pensione al 2019) – non è possibile, attraverso i dati a disposizione del Ministero del lavoro e dell’INPS, pervenire ad un’esatta quantificazione, né soprattutto alla scansione temporale delle uscite; questa categoria è stimabile in 55.000 lavoratori.

Il discorso di Mario Monti al Senato

Signor Presidente, onorevoli senatrici, onorevoli senatori, è con grande emozione che mi rivolgo a voi come primo atto del percorso rivolto ad ottenere la fiducia del Parlamento al Governo ieri costituito. L’emozione è accresciuta dal fatto che prendo oggi la parola per la prima volta in quest’Aula, nella quale mi avete riservato qualche giorno fa un’accoglienza che mi ha commosso. Sono onorato di entrare a far parte del Senato della Repubblica.

Desidero rivolgere un saluto deferente al Capo dello Stato, presidente Napolitano; che con grande saggezza, perizia e senso dello Stato ha saputo risolvere una situazione difficile in tempi ristrettissimi, nell’interesse del Paese e di tutti i cittadini. Vorrei anche rinnovargli la mia gratitudine per la fiducia accordata alla mia persona, per il sostegno e la partecipazione che mi ha costantemente assicurato nei miei sforzi per comporre un Governo che potesse soddisfare le richieste delle forze politiche e, al contempo, dare risposte efficaci alle gravi sfide che il nostro Paese ha di fronte a sé.

Rivolgo il mio saluto ai Presidenti emeriti della Repubblica, ai senatori a vita e a tutti i senatori.

Mi auguro di poter stabilire con ciascuno di voi anche un rapporto personale come vostro collega, sia pure l’ultimo arrivato. Il Parlamento è il cuore pulsante di ogni politica di Governo, lo snodo decisivo per il rilancio e il riscatto della vita democratica. Al Parlamento vanno riconosciute e rafforzate, attraverso l’azione quotidiana di ciascuno di noi, dignità, credibilità e autorevolezza. Da parte mia, da parte nostra, vi sarà sempre una chiara difesa del ruolo di entrambe le Camere quali protagoniste del pubblico dibattito.

Un ringraziamento specifico e molto sentito desidero, infine, esprimere al vostro, al nostro, Presidente. Il presidente Schifani ha voluto accogliermi, fin dal primo istante di questa mia missione – come potete immaginare, non semplicissima – svoltasi, in gran parte, a Palazzo Giustiniani, con una generosità e una cordialità che non potrò dimenticare. Rivolgo, infine, un pensiero rispettoso e cordiale al presidente, onorevole dottor Silvio Berlusconi, mio predecessore, del quale mi fa piacere riconoscere l’impegno nel facilitare in questi giorni la mia successione nell’incarico.

Il Governo riconosce di essere nato per affrontare in spirito costruttivo e unitario una situazione di seria emergenza. Vorrei usare questa espressione: Governo di impegno nazionale. Governo di impegno nazionale significa assumere su di sé il compito di rinsaldare le relazioni civili e istituzionali, fondandole sul senso dello Stato. È il senso dello Stato, è la forza delle istituzioni, che evitano la degenerazione del senso di famiglia in familismo, dell’appartenenza alla comunità di origine in localismo, del senso del partito in settarismo. Ed io ho inteso, fin dal primo momento, il mio servizio allo Stato non certo con la supponenza di chi, considerato tecnico, venga per dimostrare un’asserita superiorità della tecnica rispetto alla politica; al contrario, spero che il mio Governo e io potremo, nel periodo che ci è messo a disposizione, contribuire, in modo rispettoso e con umiltà, a riconciliare maggiormente – permettetemi di usare questa espressione – i cittadini e le istituzioni, i cittadini alla politica.

Io vorrei, noi vorremmo, aiutarvi tutti a superare una fase di dibattito, che fa parte naturalmente della vita democratica, molto, molto, accesa, e consentirci di prendere insieme, senza alcuna confusione delle responsabilità, provvedimenti all’altezza della situazione difficile che il Paese attraversa, ma con la fiducia che la politica che voi rappresentate sia sempre più riconosciuta, e di nuovo riconosciuta, come il motore del progresso del Paese.

Le difficoltà del momento attuale. L’Europa sta vivendo i giorni più difficili dagli anni del secondo dopoguerra. Il progetto che dobbiamo alla lungimiranza di grandi uomini politici, quali furono Konrad Adenauer, Jean Monnet, Robert Schuman e – sottolineo in modo particolare – Alcide De Gasperi e che per sessant’anni abbiamo perseguito, passo dopo passo, dal Trattato di Roma – non a caso di Roma – all’Atto Unico, ai Trattati di Maastricht e di Lisbona, è sottoposto alla prova più grave dalla sua fondazione.

Un fallimento non sarebbe solo deleterio per noi europei. Farebbe venire meno la prospettiva di un mondo più equilibrato in cui l’Europa possa meglio trasmettere i suoi valori ed esercitare il ruolo che ad essa compete, in un mondo sempre più bisognoso di una governance multilaterale efficace.

Non illudiamoci, onorevoli senatori, che il progetto europeo possa sopravvivere se dovesse fallire l’Unione Monetaria. La fine dell’euro disgregherebbe il mercato unico, le sue regole, le sue istituzioni. Ci riporterebbe là dove l’Europa era negli anni cinquanta.

La gestione della crisi ha risentito di un difetto di governance e, in prospettiva, dovrà essere superata con azioni a livello europeo. Ma solo se riusciremo ad evitare che qualcuno, con maggiore o minore fondamento, ci consideri l’anello debole dell’Europa, potremo ricominciare a contribuire a pieno titolo all’elaborazione di queste riforme europee. Altrimenti ci ritroveremo soci di un progetto che non avremo contribuito ad elaborare, ideato da Paesi che, pur avendo a cuore il futuro dell’Europa, hanno a cuore anche i lori interessi nazionali, tra i quali non c’è necessariamente una Italia forte.

Il futuro dell’euro dipende anche da ciò che farà l’Italia nelle prossime settimane, anche e non solo, ma anche. Gli investitori internazionali detengono quasi metà del nostro debito pubblico. Dobbiamo convincerli che abbiamo imboccato la strada di una riduzione graduale ma durevole del rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo. Quel rapporto è oggi al medesimo livello al quale era vent’anni fa ed è il terzo più elevato tra i Paesi dell’OCSE. Per raggiungere questo obiettivo intendiamo far leva su tre pilastri: rigore di bilancio, crescita ed equità.

Nel ventennio trascorso l’Italia ha fatto molto per riportare in equilibrio i conti pubblici, sebbene alzando l’imposizione fiscale su lavoratori dipendenti e imprese, più che riducendo in modo permanente la spesa pubblica corrente. Tuttavia, quegli sforzi sono stati frustrati dalla mancanza di crescita. L’assenza di crescita ha annullato i sacrifici fatti. Dobbiamo porci obiettivi ambiziosi sul pareggio di bilancio, sulla discesa del rapporto tra debito e PIL. Ma non saremo credibili, neppure nel perseguimento e nel mantenimento di questi obiettivi, se non ricominceremo a crescere.

Ciò che occorre fare per ricominciare a crescere è noto da tempo. Gli studi dei migliori centri di ricerca italiani avevano individuato le misure necessarie molto prima che esse venissero recepite nei documenti che in questi mesi abbiamo ricevuto dalle istituzioni europee. Non c’è nessuna originalità europea nell’aver individuato ciò che l’Italia deve fare per crescere di più. È un problema del sistema italiano riuscire a decidere e poi ad attuare quanto noi italiani sapevamo bene fosse necessario per la nostra crescita.

Non vediamo i vincoli europei come imposizioni. Anzitutto permettetemi di dire, e me lo sentirete affermare spesso, che non c’è un loro e un noi. L’Europa siamo noi.

Quelli che poi ci vengono in un turbinio di messaggi, di lettere e di deliberazioni dalle istituzioni europee sono per lo più provvedimenti rivolti a rendere meno ingessata l’economia, a facilitare la nascita di nuove imprese e poi indurne la crescita, migliorare l’efficienza dei servizi offerti dalle amministrazioni pubbliche, favorire l’ingresso nel mondo del lavoro dei giovani e delle donne, le due grandi risorse sprecate del nostro Paese.

L’obiezione che spesso si oppone a queste misure è che esse servono, certo, ma nel breve periodo fanno poco per la crescita. È un’obiezione dietro la quale spesso si maschera – riconosciamolo – chi queste misure non vuole, non tanto perché non hanno effetti sulla crescita nel breve periodo (che è vero che non hanno), ma perché si teme che queste misure ledano gli interessi di qualcuno. Ma, evidentemente, più tardi si comincia, più tardi arriveranno i benefìci delle riforme. Ma, soprattutto, le scelte degli investitori che acquistano i nostri titoli pubblici sono guidate sì da convenienze finanziarie immediate, ma – mettiamocelo in testa – sono guidate anche dalle loro aspettative su come sarà l’Italia fra dieci o vent’anni, quando scadranno i titoli che acquistano oggi.

Quindi, non c’è iato la tra le cose che dobbiamo o fare oggi o avviare oggi, anche se avranno effetti lontani, perché anche gli investitori, che ci premiano o ci puniscono, agiscono oggi, ma guardano anche agli effetti lontani.

Riforme che hanno effetti anche graduali sulla crescita, influendo sulle aspettative degli investitori, possono riflettersi in una riduzione immediata dei tassi di interesse, con conseguenze positive sulla crescita stessa. I sacrifici necessari per ridurre il debito e per far ripartire la crescita dovranno essere equi. Maggiore sarà l’equità, più accettabili saranno quei provvedimenti e più ampia – mi auguro – sarà la maggioranza che in Parlamento riterrà di poterli sostenere. Equità significa chiedersi quale sia l’effetto delle riforme non solo sulle componenti relativamente forti della società, quelle che hanno la forza di associarsi, ma anche sui giovani e sulle donne. Dobbiamo renderci conto che, se falliremo e se non troveremo la necessaria unità di intenti, la spontanea evoluzione della crisi finanziaria ci sottoporrà tutti, ma soprattutto le fasce più deboli della popolazione, a condizioni ben più dure.

La crisi che stiamo vivendo è internazionale; questo è ovvio, ma conviene ripeterlo ogni volta, anche ad evitare demonizzazioni. È internazionale, lo sto dicendo a tutti. Ma l’Italia ne ha risentito in maniera particolare. Secondo la Commissione europea, al termine del prossimo anno il prodotto interno lordo dell’Italia sarebbe ancora quattro punti e mezzo al di sotto del livello raggiunto prima della crisi. Per la stessa data, l’area dell’euro nel suo complesso avrebbe invece recuperato la perdita di prodotto dovuta alla crisi. Francia e Germania raggiungerebbero il traguardo di riportarsi al livello pre-crisi nell’anno in corso. La relativa debolezza della nostra economia precede l’avvio della crisi.

Tra il 2001 e il 2007 il prodotto italiano è cresciuto di 6,7 punti percentuali, contro i 12 della media dell’area dell’euro, i 10,8 della Francia e gli 8,3 della Germania. I risultati sono deludenti al Nord come al Sud. E non vi propongo un paragone con la Cina o con altri Paesi emergenti, ma con i nostri colleghi ed amici stretti della zona euro. La crisi ha colpito più duramente i giovani. Ad esempio, nei 15 Paesi che componevano l’Unione europea fino al 2004, tra il 2007 e il 2010 il tasso di disoccupazione nella classe di età 15-24 anni è aumentato di cinque punti percentuali, in Italia di 7,6 punti percentuali.

Il nostro Paese rimane caratterizzato da profonde disparità territoriali. Il lungo periodo di bassa crescita e la crisi le hanno accentuate. Esiste una questione meridionale: infrastrutture, disoccupazione, innovazione, rispetto della legalità. I problemi nel Mezzogiorno vanno affrontati non nella logica del chiedere di più, ma di una razionale modulazione delle risorse. Esiste anche una questione settentrionale: costo della vita, delocalizzazione, nuove povertà, bassa natalità. Il riequilibrio di bilancio, le riforme strutturali e la coesione territoriale richiedono piena e leale collaborazione tra i diversi livelli istituzionali. Occorre riconoscere il valore costituzionale delle autonomie speciali, nel duplice binario della responsabilità e della reciprocità. In quest’ottica, per rispondere alla richiesta formulata dalle istituzioni territoriali che, devo dire, ho ascoltato con molta attenzione.

Se dovete fare una scelta – mi permetto di rivolgermi a tutti – ascoltate, non applaudite! Non ripeterò l’importanza del valore costituzionale delle autonomie speciali, perché altrimenti arrivano di nuovo applausi; l’ho già detto e lo avete ascoltato.

In quest’ottica – come stavo dicendo – per rispondere alla richiesta formulata dalle istituzioni territoriali nel corso delle consultazioni, ho deciso di assumere direttamente in questa prima fase le competenze relative agli affari regionali. Spero in questo modo di manifestare una consapevolezza condivisa circa il fatto che il lavoro comune con le autonomie territoriali debba proseguire e rafforzarsi, nonostante le difficoltà dell’agenda economica. In tale prospettiva si dovrà operare senza indugio per un uso efficace dei fondi strutturali dell’Unione europea.

Sono consapevole che sarebbe un’ambizione eccessiva da parte mia e da parte nostra pretendere di risolvere in un arco di tempo limitato, qual è quello che ci separa dalla fine di questa legislatura, problemi che hanno origini profonde e che sono radicati in consuetudini e comportamenti consolidati. Ciò che si prefiggiamo di fare è impostare il lavoro, mettere a punto gli strumenti che permettano ai Governi che ci succederanno di proseguire un processo di cambiamento duraturo.

Per questo il programma che vi sottopongo oggi si compone di due parti, che hanno obiettivi ed orizzonti temporali diversi. Da un lato, vi è una serie di provvedimenti per affrontare l’emergenza, assicurare la sostenibilità della finanza pubblica, restituire fiducia nelle capacità del nostro Paese di reagire e sostenere una crescita duratura ed equilibrata. Dall’altro lato, si tratta di delineare con iniziative concrete un progetto per modernizzare le strutture economiche e sociali, in modo da ampliare le opportunità per le imprese, i giovani, le donne e tutti i cittadini, in un quadro di ritrovata coesione sociale e territoriale.

In considerazione dell’urgenza con la quale abbiamo dovuto operare per la formazione di questo Governo – ed in questo senso voglio ringraziare le diverse forze politiche che, nei miei confronti, figura estranea al vostro mondo, si sono gentilmente e con sollecitudine apprestate all’ascolto e all’offerta di contributi dei quali ho cercato di tenere conto – quello che intendo fare oggi è semplicemente presentarvi gli aspetti essenziali dell’azione che intendiamo svolgere. Se otterremo la fiducia del Parlamento, ciascun Ministro esporrà alle Commissioni parlamentari competenti le politiche attraverso le quali, nei singoli settori, queste azioni verranno avviate.

È in discussione in Parlamento una proposta di legge costituzionale per introdurre un vincolo di bilancio in pareggio per le amministrazioni pubbliche, in coerenza con gli impegni presi nell’ambito dell’Eurogruppo.

L’adozione di una regola di questo tipo può contribuire a mantenere nel tempo il pareggio di bilancio programmato per il 2013, evitando che i risultati conseguiti con intense azioni di risanamento vengano erosi negli anni successivi, come è accaduto in passato. Affinché il vincolo sia efficace, dovranno essere chiarite le responsabilità dei singoli livelli di Governo.

A questo proposito ed anche in considerazione della complessità della regola, ad esempio l’aggiustamento per il ciclo, sarà opportuno studiare l’esperienza di alcuni Paesi europei che hanno affidato ad autorità indipendenti la valutazione del rispetto sostanziale della regola, dato che in questa materia la credibilità nei confronti di noi stessi e del mondo è un requisito essenziale. Sarà anche necessario attuare rapidamente l’armonizzazione dei bilanci delle amministrazioni pubbliche. Opportunamente la proposta di legge in discussione in Parlamento già prevede l’assegnazione allo Stato della potestà legislativa esclusiva in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici. Nell’immediato daremo piena attuazione alle manovre varate nel corso dell’estate, completandole attraverso interventi in linea con la lettera di intenti inviata alle autorità europee.

Nel corso delle prossime settimane valuteremo la necessità di ulteriori correttivi. Una parte significativa della correzione dei saldi programmata durante l’estate è attesa dall’attuazione della riforma dei sistemi fiscale ed assistenziale. Dovremmo pervenire al più presto ad una definizione di tale riforma e ad una valutazione prudenziale dei suoi effetti. Dovranno inoltre essere identificati gli interventi, volti a colmare l’eventuale divario rispetto a quelli indicati nella manovra di bilancio.

Di fronte ai sacrifici che sono stati e che dovranno essere richiesti ai cittadini sono ineludibili interventi volti a contenere i costi di funzionamento degli organi elettivi. I soggetti che ricoprono cariche elettive, i dirigenti designati politicamente nelle società di diritto privato, finanziate con risorse pubbliche, più in generale quanti rappresentano le istituzioni ad ogni livello politico ed amministrativo, dovranno agire con sobrietà ed attenzione al contenimento dei costi, dando un segnale concreto ed immediato. Si dovranno rafforzare gli interventi effettuati con le ultime manovre di finanza pubblica, con l’obiettivo di allinearci rapidamente alle best practices europee.

Per quanto di mia diretta competenza, avvierò immediatamente una spending review del Fondo unico della Presidenza del Consiglio. Ritengo inoltre necessario ridurre le sovrapposizioni tra i livelli decisionali e favorire la gestione integrata dei servizi per gli Enti locali di minori dimensioni. Il riordino delle competenze delle Province può essere disposto con legge ordinaria. La prevista specifica modifica della Costituzione potrà completare il processo, consentendone la completa eliminazione, così come prevedono gli impegni presi con l’Europa.

Per garantire la natura strutturale della riduzione delle spese dei Ministeri, decisa con la legge di stabilità, andrà definito rapidamente il programma per la riorganizzazione della spesa, previsto dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, in particolare per quanto riguarda l’integrazione operativa delle agenzie fiscali, la razionalizzazione di tutte le strutture periferiche dell’amministrazione dello Stato, il coordinamento delle attività delle forze dell’ordine, l’accorpamento degli enti della previdenza pubblica, la razionalizzazione dell’organizzazione giudiziaria.

Gli interventi saranno coordinati con la spending review in corso, che intendo rafforzare e rendere particolarmente incisiva con la precisa individuazione di tempi e responsabilità. Negli scorsi anni la normativa previdenziale è stata oggetto di ripetuti interventi, che hanno reso a regime il sistema pensionistico italiano tra i più sostenibili in Europa e tra i più capaci di assorbire eventuali shock negativi. Già adesso l’età di pensionamento, nel caso di vecchiaia, tenendo conto delle cosiddette finestre, è superiore a quella dei lavoratori tedeschi e francesi.

Il nostro sistema pensionistico rimane però caratterizzato da ampie disparità di trattamento tra diverse generazioni e categorie di lavoratori, nonché da aree ingiustificate di privilegio.

Il rispetto delle regole e delle istituzioni e la lotta all’illegalità riceveranno attenzione prioritaria da questo Governo. Per riacquistare fiducia nel futuro dobbiamo avere fiducia nelle istituzioni che caratterizzano uno Stato di diritto, quindi si procederà alla lotta all’evasione fiscale e all’illegalità, non solo per aumentare il gettito (il che non guasta), ma anche per abbattere le aliquote: questo può essere fatto con efficacia prestando particolare attenzione al monitoraggio della ricchezza accumulata (ho detto monitoraggio della ricchezza accumulata) e non solo ai redditi prodotti.

L’evasione fiscale continua a essere un fenomeno rilevante: il valore aggiunto sommerso è quantificato nelle statistiche ufficiali in quasi un quinto del prodotto. Interventi incisivi in questo campo possono ridurre il peso dell’aggiustamento sui contribuenti che rispettano le norme. Occorre ulteriormente abbassare la soglia per l’uso del contante, favorire un maggior uso della moneta elettronica, accelerare la condivisione delle informazioni tra le diverse amministrazioni, potenziare e rendere operativi gli strumenti di misurazione induttiva del reddito e migliorare la qualità degli accertamenti.

Il decreto legislativo n. 23 del 14 marzo 2011 prevede per il 2014 l’entrata in vigore dell’imposta municipale che assorbirà l’attuale ICI, escludendo tuttavia la prima casa e l’IRPEF sui redditi fondiari da immobili non locati, comprese le relative addizionali. In questa cornice intendiamo riesaminare il peso del prelievo sulla ricchezza immobiliare: tra i principali Paesi europei, l’Italia è caratterizzata da un’imposizione sulla proprietà immobiliare che risulta al confronto particolarmente bassa. L’esenzione dall’ICI delle abitazioni principali costituisce, sempre nel confronto internazionale, una peculiarità – se non vogliamo chiamarla anomalia – del nostro ordinamento tributario.

Il primo elenco di cespiti immobiliari da avviare a dismissione sarà definito nei tempi previsti dalla legge di stabilità, cioè entro il 30 aprile 2012. La lettera d’intenti inviata alla Commissione europea prevede proventi di almeno 5 miliardi all’anno nel prossimo triennio. A tale scopo verrà definito un calendario puntuale per i successivi passi del piano di dismissioni e di valorizzazione del patrimonio pubblico. Tuttavia, è necessario volgere tutte le politiche pubbliche, a livello macroeconomico e microeconomico, a sostegno della crescita, sia pure nei limiti determinati dal vincolo di bilancio.

La pressione fiscale in Italia è elevata nel confronto storico e in quello internazionale (nel testo scritto che avrete a disposizione si danno ulteriori elementi). Nel tempo e via via che si manifesteranno gli effetti della spending review sarà possibile programmare una graduale riduzione della pressione fiscale; tuttavia anche prima, a parità di gettito, la composizione del prelievo fiscale può essere modificata in modo da renderla più favorevole alla crescita. Coerentemente con il disegno della delega fiscale e della clausola di salvaguardia che la accompagna, una riduzione del peso delle imposte e dei contributi che gravano sul lavoro e sull’attività produttiva, finanziata da un aumento del prelievo sui consumi e sulla proprietà, sosterrebbe la crescita senza incidere sul bilancio pubblico.

Dal lato della spesa, un impulso all’attività economica potrà derivare da un aumento del coinvolgimento dei capitali privati nella realizzazione di infrastrutture. Gli incentivi fiscali stabiliti con legge di stabilità sono un primo passo, ma è anche necessario intervenire sulla regolamentazione del project financing, in modo da ridurre il rischio associato alle procedure amministrative. Occorre inoltre operare per raggiungere gli obiettivi fissati in sede europea con l’agenda digitale.

Con il consenso delle parti sociali dovranno essere riformate le istituzioni del mercato del lavoro, per allontanarci da un mercato duale dove alcuni sono fin troppo tutelati mentre altri sono totalmente privi di tutele e assicurazioni in caso di disoccupazione.

Le riforme in questo campo dovranno avere il duplice scopo di rendere più equo il nostro sistema di tutela del lavoro e di sicurezza sociale e anche di facilitare la crescita della produttività, tenendo conto dell’eterogeneità che contraddistingue in particolare l’economia italiana. In ogni caso, il nuovo ordinamento che andrà disegnato verrà applicato ai nuovi rapporti di lavoro per offrire loro una disciplina veramente universale, mentre non verranno modificati i rapporti di lavori regolari e stabili in essere.

Intendiamo perseguire lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro, come ci viene chiesto dalle autorità europee e come già le parti sociali hanno iniziato a fare, che va accompagnato da una disciplina coerente del sostegno alle persone senza impiego volta a facilitare la mobilità e il reinserimento nel mercato del lavoro, superando l’attuale segmentazione. Più mobilità tra impresa e settori è condizione essenziale per assecondare la trasformazione dell’economia italiana e sospingerne la crescita.

È necessario colmare il fossato che si è creato tra le garanzie e i vantaggi offerti dal ricorso ai contratti a termine e ai contratti a tempo indeterminato, superando i rischi e le incertezze che scoraggiano le imprese a ricorrere a questi ultimi. Tenendo conto dei vincoli di bilancio occorre avviare una riforma sistematica degli ammortizzatori sociali, volta a garantire a ogni lavoratore che non sarà privo di copertura rispetto ai rischi di perdita temporanea del posto di lavoro. Abbiamo da affrontare una crisi, abbiamo da affrontare delle trasformazioni strutturali, ma è nostro dovere cercare di evitare le angosce che accompagnano questi processi.

È necessario, infine, mantenere una pressione costante nell’azione di contrasto e di prevenzione del lavoro sommerso. Uno dei fattori che distinguono l’Italia nel contesto europeo è la maggiore difficoltà di inserimento o di permanenza in condizioni di occupazione delle donne. Assicurare la piena inclusione delle donne in ogni ambito della vita lavorativa ma anche sociale e civile del Paese è una questione indifferibile.

È necessario affrontare le questioni che riguardano la conciliazione della vita familiare con il lavoro, la promozione della natalità e la condivisione delle responsabilità legate alla maternità da parte di entrambi i genitori, nonché studiare l’opportunità di una tassazione preferenziale per le donne.

C’è poi un problema legato all’invecchiamento della popolazione che si traduce in oneri crescenti per le famiglie; andrà quindi prestata attenzioni ai servizi di cura agli anziani, oggi una preoccupazione sempre più urgente nelle famiglie in un momento in cui affrontano difficoltà crescenti.

Infine un’attenzione particolare andrà assicurata alle prospettive per i giovani; dico "infine" nel senso di finalità di tutta la nostra azione. Questa sarà una delle priorità di azione di questo Governo, nella convinzione che ciò che restringe le opportunità per i giovani si traduce poi in minori opportunità di crescita e di mobilità sociale per l’intero Paese. Dobbiamo porci l’obiettivo di eliminare tutti quei vincoli che oggi impediscono ai giovani di strutturare le proprie potenzialità in base al merito individuale indipendentemente dalla situazione sociale di partenza. Per questo ritengo importante inserire nell’azione di Governo misure che valorizzino le capacità individuali e eliminino ogni forma di cooptazione. L’Italia ha bisogno di investire sui suoi talenti; deve essere lei orgogliosa dei suoi talenti e non trasformarsi in un’entità di cui i suoi talenti non sempre sono orgogliosi. Per questo la mobilità è la nostra migliore alleata, mobilità sociale ma anche geografica, non solo all’interno del nostro Paese ma anche e soprattutto nel più ampio orizzonte del mercato del lavoro europeo e globale.

L’ultimo punto che desidero brevemente presentarvi – ed è una caratteristica spero distintiva del nostro Esecutivo, se consentirete al nostro, o vostro, Governo di nascere, è quella delle politiche micro-economiche per la crescita.

Un ritorno credibile a più alti tassi di crescita deve basarsi su misure volte a innalzare il capitale umano e fisico e la produttività dei fattori. La valorizzazione del capitale umano deve essere un aspetto centrale: sarà necessario mirare all’accrescimento dei livelli d’istruzione della forza lavoro, che sono ancora oggi nettamente inferiori alla media europea, anche tra i più giovani. Vi contribuiranno interventi mirati sulle scuole e sulle aree in ritardo, identificando i fabbisogni, anche mediante i test elaborati dall’INVALSI, e la revisione del sistema di selezione, allocazione e valorizzazione degli insegnanti. Nell’università, varati i decreti attuativi della legge di riforma approvata lo scorso anno, è ora necessario dare rapida e rigorosa attuazione ai meccanismi d’incentivazione basati sulla valutazione, previsti dalla riforma. Gli investimenti in infrastrutture, di cui tante volte e giustamente abbiamo parlato e si è parlato negli corso degli anni, sono fattori rilevanti per accrescere la produttività totale dell’economia.

A questo scopo, abbiamo per la prima volta valorizzato in modo organico nella struttura del Governo la politica, anzi, le politiche di sviluppo dell’economia reale, con l’attribuzione ad un unico Ministro delle competenze sullo sviluppo economico e sulle infrastrutture ed i trasporti. Questo vuole indicare quasi visivamente e in termini di organigramma del Governo che pari attenzione e centralità vanno attribuite a ciò che mantiene il Paese stabile, la disciplina finanziaria, e a ciò che ad esso consente di crescere e, quindi, di restare stabile a lungo termine, cioè appunto la crescita.

Occorre anche rimuovere gli ostacoli strutturali alla crescita, affrontando resistenze e chiusure corporative. In tal senso, è necessario un disegno organico, volto a ridurre gli oneri ed il rischio associato alle procedure amministrative, nonché a stimolare la concorrenza, con particolare riferimento al riordino della disciplina delle professioni regolamentate, anche dando attuazione a quanto previsto nella legge di stabilità in materia di tariffe minime.

Intendiamo anche rafforzare gli strumenti d’intervento dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato in caso di disposizioni legislative o amministrative, statali o locali, che abbiano effetti distorsivi della concorrenza, accrescere la qualità dei servizi pubblici, nel quadro di un’azione volta a ridurre il deficit di concorrenza a livello locale, ridurre i tempi della giustizia civile, in modo tale da colmare il divario con gli altri Paesi, anche attraverso la riduzione delle sedi giudiziarie, e rimuovere gli ostacoli alla crescita delle dimensioni delle imprese, anche attraverso la delega fiscale.

Un innalzamento significativo del tasso di crescita è condizione essenziale non solo del riequilibrio finanziario, ma anche del progresso civile e sociale. In tal senso, una strategia di rilancio della crescita non può prescindere da un’azione determinata ed efficace di contrasto alla criminalità organizzata e a tutte le mafie, che vada a colpire gli interessi economici delle organizzazioni e le loro infiltrazioni nell’economia legale.

Il risanamento della finanza pubblica ed il rilancio della crescita contribuiranno a rafforzare la posizione dell’Italia in Europa e, più in generale, la nostra politica estera: vocazione europeistica, solidarietà atlantica, rapporti con i nostri partners strategici, apertura dei mercati, sicurezza nazionale ed internazionale rimarranno i cardini di tale politica. Voglio qui ricordare i nostri militari impegnati in missioni all’estero, le Forze Armate ed i rappresentanti delle forze dell’ordine, che sono in prima linea nella difesa dei nostri valori e della democrazia.

L’Italia ha bisogno di una politica estera coerente con i nostri impegni e di una ripresa d’iniziativa nelle aree dove vi siano significativi interessi nazionali.

Dimenticavo di dirvi, a proposito di militari impegnati in missioni all’estero, che se non vedete ancora in questi banchi il nostro collega Ministro della difesa, è perché l’altra sera l’ho svegliato alle tre di notte in Afghanistan, pensando che fosse a Bruxelles dove si trova la sua sede ordinaria di lavoro. Ho notato prima una certa esitazione e poi grande entusiasmo nell’accettazione della proposta. Ecco un esempio di militare impegnato all’estero che sta facendo i salti mortali per arrivare a giurare nelle mani del Capo dello Stato nelle prossime ore. Scusate quindi la sua assenza.

La gravità della situazione attuale richiede una risposta pronta e decisa nella creazione di condizioni favorevoli alla crescita nel perseguimento del pareggio di bilancio, con interventi strutturali e con un’equa distribuzione dei sacrifici.

Il tentativo che ci proponiamo di compiere, onorevoli senatori, e che vi chiedo di sostenere è difficilissimo; altrimenti ho il sospetto che non mi troverei qui oggi. I margini di successo sono tanto più ridotti, come ha rilevato il Presidente della Repubblica, dopo anni di contrapposizione e di scontri nella politica nazionale. Se sapremo cogliere insieme questa opportunità per avviare un confronto costruttivo su scelte e obiettivi di fondo avremo occasione di riscattare il Paese e potremo ristabilire la fiducia nelle sue istituzioni. Vi ringrazio.

Senato USA blocca il piano anti default dei Democratici

Secondo la Reuters, il Senato USA avrebbe votato contro la proposta di accordo dei Democratici per l’innalzamento del tetto del debito USA. E’ una notizia arrivata ora:

The U.S. Senate defeated a Democratic proposal to raise the debt ceiling on Sunday as lawmakers closed in on a deal that would be acceptable to both parties. By a vote of 50 to 49, Senate Majority Leader Harry Reid’s plan fell short of the 60 votes needed to advance in the 100-member body. Elements of Reid’s plan are likely to surface in the bipartisan deal which could be completed this afternoon. The Senate is poised to move quickly once that deal is reached. “The arrangement that is being worked on with the Republican leader and the administration and others, is not there yet,” Reid said on the Senate floor after the vote. “We’re hopeful and confident it can be done.” Reid told lawmakers not to wander too far from the Capitol in case he calls another vote.

“I would not suggest a ballgame,” he said.  Under normal Senate rules, a final vote on any deal could be delayed until Wednesday, one day past the deadline set by the Treasury Department to ensure the United States does not default on its obligations. But any deal could include provisions to ensure that Congress acts before then, a Democratic aide said.

(France24).

Questo link vi racconta lo stato delle trattative: http://www.repubblica.it/economia/2011/07/31/news/usa_debito_slitta_voto-19834763/?ref=HREC1-1

Giallo al Senato: chi ha salvato Tedesco?

AGGIORNAMENTO: leggete i commenti. I fatti non sono andati come racconto in questo post – scritto troppo a ridosso degli eventi… Pare che fra l’altro la tastiera per il voto al Senato sia diversa da quella della Camera e quindi non si potesse in alcun modo rendere evidente la votazione nonostante il segreto imposto – parola di Legnini, segretario d’aula del gruppo PD.

Se fosse vera le tesi del Pd secondo cui i 23 voti che hanno salvato Tedesco provengono dagli scranni leghisti, perché la Lega, dopo aver defenestrato Papa, ha salvato Tedesco?

Anna Finocchiaro, capogruppo PD al Senato, la pensa così:

(Corriere della Sera, 21/07/11, p. 6)

Riassumendo l’ipotesi del PD: la Lega scarica Papa approfittando del voto segreto poi mette in scena il salvataggio di Tedesco per far ricadere sul PD la responsabilità del primo voto. E’ logico, secondo voi?

E Tedesco come l’ha presa? Con gioia e letizia, direi:

In coda all’intervista Tedesco confida al giornalista del Messaggero la sua nuova mission:

Bè, certo, di tutti i mali meglio cancellare la cura che pure fa star male. Via la custodia cautelare! Cosa ne pensano i leghisti?

[seguito del post di ieri, parzialmente errato]

Così Paniz stasera: la sinistra ha avuto due pesi e due misure. La sinistra ha salvato Tedesco. Così ci raccontano. Al Senato, nel derby delle autorizzazioni all’arresto, Tedesco è stato salvato da 151 voti contro l’arresto vs. 127 a favore.

Senatori presenti 290; Senatori votanti 289; Maggioranza 145; Favorevoli 127; Contrari 151; Astenuti 11.

Nonostante l’esplicita richiesta del senatore Tedesco, l’aula ha deciso di mantenere segreto il voto. Tedesco ha anche chiesto ai colleghi senatori di votare all’unanimità per il suo arresto per “sgomberare il campo da tutti gli inceppi” e per “arrivare rapidamente al processo”, ribadendo comunque la propria “estraneità ai fatti che mi vengono contestati”. Insomma, quella furbizia tutta del PD di accoppiare la votazione su Tedesco a quella di Papa alla Camera, ha creato il presupposto per salvare il senatore pugliese con le “mani degli altri”. Dico questo perché i numeri non sono diversi dalle votazioni consuete del Senato: qui la maggioranza il governo ce l’ha e vota quasi sempre compatta. Ecco, allora: è il PdL ad aver salvato Tedesco, auspicando il soccorso del PD alla Camera per Papa. Soccorso che non c’è stato. Alla Camera il PD ha votato in maniera palese ad alzata di mano. Al Senato è rimasto nei ranghi. Una difformità inspiegabile se non con l’ipotesi che i senatori guidati dalla Finocchiaro abbiano “simulato” l’interesse allo scambio di prigionieri – Tedesco per Papa – per far maturare l’idea a qualche leghista dissidente di votare contro l’indicazione di Bossi – non quella esternata in pubblico, “la galera”, bensì quella confidata in gran segreto che si è poi consolidata nella formula della libertà di coscienza, tradotta dai più in “votare conformemente al PdL”.

Leggete il Resoconto in Corso di Seduta del Senato (qui). In coda alle votazioni, è riportato quanto segue:

Con votazione a scrutinio segreto, ai sensi dell’articolo 113, comma secondo, del Regolamento, il Senato respinge la domanda di autorizzazione all’esecuzione della misura della custodia agli arresti domiciliari decisa dal tribunale del riesame nei confronti del senatore Alberto Tedesco. (Applausi dal Gruppo PdL).

Sono le 18,45 di oggi e il Senato ha già deliberato su Tedesco mentre alla Camera la seduta è sospesa.

Applausi del PdL. Per il salvataggio di Tedesco. E’ fin troppo chiaro. Il PdL è caduto nel trappolone del PD, che incassa anche il salvataggio di un suo ex (mai dimenticarsi degli amici). Poi accade quello che sapete alla Camera: il dibattito riprende alle 19, si chiama il voto e… La richiesta per Papa è passata grazie a 30 voti di 30 leghisti che non la pensano come Bossi e i soci del cerchio magico. La Lega, scriveva ieri La Padania, sta dalla parte del popolo (e di Papa). Oggi si può dire che la Lega è finita. Insieme alla sua maggioranza. La corrente dei Maroniani è oramai un partito a se stante. Domani si voterà il rifinanziamento delle missioni all’Estero e Castelli ha già preannunciato il suo – personale – voto contrario. La disciplina di partito è saltata. La maggioranza è al capolinea.

Nucleare abrogato, ma la porta è sempre aperta

L’emendamento del Governo all’art. 5 del decreto-legge 31 marzo 2011, n. 34, recante varie disposizioni urgenti fra cui quelle in fatto di moratoria nucleare, opera una pulizia quasi completa della parola “nucleare” dalla legislazione italiana. Un vero e proprio repulisti. E’ davvero tutto così limpido nel cielo di Roma?

Leggete questo comma

8. Entro dodici mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto il Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dello sviluppo economico e del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e acquisito il parere delle competenti Commissioni parlamentari, adotta la Strategia energetica nazionale, che individua le priorità e le misure necessarie al fine di garantire la sicurezza nella produzione di energia, la diversificazione delle fonti energetiche e delle aree geografiche di approvvigionamento, il miglioramento della competitività del sistema energetico nazionale e lo sviluppo delle infrastrutture nella prospettiva del mercato interno europeo, l’incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo nel settore energetico e la partecipazione ad accordi internazionali di cooperazione tecnologica, la sostenibilità ambientale nella produzione e negli usi dell’energia, anche ai fini della riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, la valorizzazione e lo sviluppo di filiere industriali nazionali. Nella definizione della Strategia, il Consiglio dei ministri tiene conto delle valutazioni effettuate a livello di Unione europea e a livello internazionale sulla sicurezza delle tecnologie disponibili, degli obiettivi fissati a livello di Unione europea e a livello internazionale in materia di cambiamenti climatici, delle indicazioni dell’Unione europea e degli organismi internazionali in materia di scenari energetici e ambientali» (Atto Senato n. 2665).

Ecco. fra un anno, in sede di definizione della politica energetica, il governo potrà far rientrare il nucleare dalla finestra. Magari cambiandogli il nome.