Il soliloquio di Berlusconi sulle pagine de Il Foglio

Chi rimane a difendere B.? Il fuoco incrociato delle Procure e delle intercettazioni – oggi è uscito l’audio di un dialogo fra B. e Lavitola agli atti di un’inchiesta della Procura di Pescara, sì Pescara, su casi di evasione fiscale multimilionaria – è difficilmente districabile ed ha conosciuto in queste ore un parossismo finora inedito e forse letale. E così, nel pomeriggio, più forte che mai, sono soffiati venti di nuove elezioni. Venti freddi, che spingono le forze politiche a ridurre le distanze, ad unirsi, a collaborare. La nascita del nuovo Ulivo fa il pari con la riemersione dal nulla di Gianfranco Fini. E poi le voci di manovre nel dietro le quinte in preparazione di un partito di Confindustria (hanno già radio e giornale, manca nell’ordine una tv e la politica).

I dubbi di Ferrara circa la condotta privata di B. hanno indotto quest’ultimo a prendere carta e penna (ma si fa ancora così?) e scrivere una lettera all’elefantino. Che anziché sembrare un dialogo in risposta, assomiglia più al soliloquio di un povero vecchio, abbarbicato a quella antica antiquata idea di sé, quella del perseguitato dalla magistratura, dello spiato, del sorvegliato speciale.

Non ho affatto intenzione di respingere una richiesta di testimonianza [scrive B.], che è mio interesse rendere, tanto che ho già inviato una dichiarazione scritta ma che ha, così come congegnata, l’aria di un trappolone politico-mediatico-giudiziario. Pretendo però come ogni cittadino che i magistrati rispettino anche loro la legge. Da tre anni sono sottoposto a un regime di piena e incontrollata sorveglianza il cui evidente scopo è quello di costruirmi addosso l’immagine di ciò che non sono, con deformazioni grottesche delle mie amicizie e del mio modo di vivere il mio privato, che può piacere o non piacere, ma che è personale, riservato e incensurabile. Il problema però è che da tre anni è in atto un mascalzonesco tentativo di trasformare la mia vita privata in un reato (Il Foglio.it).

L’uomo politico Berlusconi torna a marcare quella differenza fra pubblico e privato che è annullata dalla sua stessa presenza in politica. Berlusconi è il privato che si fa pubblico, anzi che occupa il pubblico per perseguire il proprio interesse e piegare l’istituzione a proprio favore. Questa rivendicazione della intangibilità della sfera privata fa ridere. Berlusconi usa costantemente il potere privato per dispensare regalie e alimentare una pletora di cortigiani lustrascarpe. La cosa pubblica è stata impiegata come cosa privata: è stata disposta e manovrata a proprio piacimento, consegnata in mani immeritevoli, al fine di disporre delle medesime come fossero mani proprie.

Nessun uomo di Stato è stato fatto oggetto di una aggressione politica, mediatica, giudiziaria, fisica, patrimoniale e di immagine come quella a cui sono stato sottoposto io. È un trattamento inaccettabile, che si accompagna a una campagna di delegittimazione che punta a scardinare il funzionamento regolare delle istituzioni per interessi fin troppo chiari (ibidem).

E si direbbe altrettanto che nessun uomo politico ha tentato di piegare il reticolo di istituzioni pubbliche costituzionali per la difesa di sé stesso e dell’interesse di bottega. Nessun altro nella Storia ha trasformato un paese in una depandance domestica come ha fatto B. con l’Italia. L’Assurdistan (definizione di Julian Assange) è un paesotto dove comanda un drago a cui si sacrificano vergini (e non) per la sopravvivenza nel difficile mondo degli appalti pubblici.

Lei dice bene: Berlusconi è uno scandalo permanente, perché è scandalosa la pretesa di governare stabilmente un Paese con il mandato degli italiani, è scandaloso che un imprenditore rubi il mestiere a una classe politica fallimentare, è scandalosa la pretesa di fronteggiare la grande crisi mondiale con mezzi e con propositi diversi da quelli tradizionali.

Da quell’età in cui B. si poteva vantare di essere estraneo alla classe politica sono trascorsi diciassette anni. Berlusconi è classe politica. E’ la marcescente senescente classe politica italiana. Corrotta, viziata, che pensa ad arrivare indenne tutt’al più a domani. Berlusconi non è il nuovo: è un settantacinquenne depravato. Avrà avuto pure l’investitura democratica in seguito a libere elezioni, ma essa non è a vita. Le istituzioni restano, l’uomo politico tramonta. E’ la regola di ogni democrazia.

Internet batte televisione 4 (sì) a 0. Ma ora liberiamoci da Facebook

Miguel Mora su El Pais commenta il voto di domenica prendendo spunto da quel video parodia di ‘L’aereo più pazzo del mondo’. In volo sull’oceano, i berluscones di ritorno dal soggiorno di Antigua vengono avvisati dell’esito dei referendum. Hanno abolito il legittimo impedimento, dice l’hostess ai passeggeri. E scatta l’isteria. La “Primavera dei Cittadini”, scrive Mora, “è sorta e si espande ogni giorno attraverso internet”. Esattamente come sulla riva sud del Mediterraneo, ma in una forma più pacifica e ricorrendo più all’ironia e alla satira che alla rabbia, il territorio infinito senza censura della Rete sembra aver giocato un ruolo chiave nel nuovo vento politico che sferza l’Italia.

Ma sembra chiaro che il problema è che la destra italiana non è a conoscenza del crescente potere di Internet. Che le nuove tecnologie non sono il punto di forza del suo leader è emerso pochi giorni prima del voto, quando ha detto che qualcuno gli aveva passato una “cassetta” per vedere un programma che aveva perso. “Possibile che un primo ministro e magnate dei media del XXI secolo ignorari che il DVD è stato inventato nel 1995, proprio l’anno in cui l’ultimo referendum in Italia ha vinto il quorum? Sembra improbabile, ma il fatto è che il referendum è stata una sconfitta finale non solo per il governo, ma anche per l’ambiente in cui Berlusconi è stato un mago (Miguel Mora, El Pais).

Così sembra. Il voto ha testimoniato il cambio di paradigma mediatico: non più l’oligarchia televisiva, che esclude e impone i piani argomentativi alla discussione pubblica, di cui è rimasto celebre il caso della violenza contro una donna a Roma poche settimane prima del voto del 2006, fatto che infiammò il dibattito televisivo contro l’immigrazione clandestina e fece emergere un clima di paura convogliato dai media di casa Berlusconi verso Lega e PdL; tanto per rinfrescarvi la memoria, quelle elezioni politiche furono poi vinte ugualmente dal centrosinistra ma Berlusconi riuscì nell’impresa di recuperare a Prodi almeno 8 punti percentuali. Quel caso ha rappresentato l’apice della forza persuasiva della televisione. I fatti criminosi compiuti nel paese erano in calo, ma la percezione delle persone era di un aumento. Si viveva un’emergenza che non c’era, indotta dalla suggestione televisiva che ogni giorno riproduceva quel fatto all’infinito, trasmettendo le immagini di retate, di sgomberi di campi Rom, parlando di tolleranza zero e di ergastoli e di pena di morte.

No, quel tempo è finito. Così sembra. Al posto della tv, una discussione eterodiretta che si autoalimenta grazie al contributo di tutti, senza necessità di conduttori o di presentatori, di opinionisti o di registi. Si afferma l’argomento prevalente in un susseguirsi di piani argomentativi in libera competizione fra loro. Questo è consentito da un mezzo straordinario che è la rete, essa stessa piano altro in cui l’individuo si dispiega in una multipolarità di voci che altrimenti gli sarebbero negate. Se l’azione dell’individuo non è più direttamente coercita se non in casi eccezionali stabiliti dalla legge, la parola era (ed è) fortemente compromessa, sottaciuta, senza alcuna rappresentanza nel teatro degli specchi che va in onda ogni giorno nello schermo televisivo. Internet sembra restituire all’individuo la parola, e al contempo gli riassegna lo status di cittadino, ovvero di individuo partecipe alla vita della polis.

Ho usato il termine sembra perché neppure Internet è priva del rischio oligarchico. Anzi: la sua tecnologia è talmente complessa da creare sistemi che sfuggono alle parole che possediamo. Per esempio: lo spazio di Internet è pubblico o privato? Se la discussione è politica, allora Internet diventa condizione propedeutica alla discussione pubblica. Diventa naturale considerarlo un diritto poiché nel web l’individuo si esprime e esprimersi è una delle libertà civili fondanti della modernità. Peccato che tutto ciò avvenga a casa di Zuckerberg. Rendetevene conto: abbiamo lottato per sconfiggere il demone televisivo, per poter contare, per poter fare prevalere l’interesse pubblico contro quello privato. Lo abbiamo fatto attraverso un social network che è estremamente inclusivo ma che è privato. Facebook non è un bene comune, non è nostro: ho una pagina a casa di Zuckeberg. Zuckerberg detiene il mio profilo di utente di Facebook. Di fatto mi controlla. E controlla tutti noi. Controlla l’informazione che passa attraverso il suo social network. Volendo, la potrebbe condizionare. Potrebbe far prevalere un argomento piuttosto che un altro. Esattamente come il media televisivo, ma in maniera ancor più subdola. E globale. Un mostro ben peggiore della nostra piccola videocrazia.

Facebook, il McDonald’s del social networking (segnalazione de Il Nichilista).

Diritti Universali e Politica secondo Gianfranco Fini. Anatomia di un discorso.

Colpisce l’alto profilo politico del discorso di Gianfranco Fini alla Conferenza sui Diritti Umani, tenutasi a Roma lo scorso 20 Novembre. Un discorso fortemente influenzato dal giuspositivismo di Norberto Bobbio – cita infatti il testo fondamentale in tema di diritti naturali e positivi, ‘L’età dei diritti’ – attraverso il quale Fini tenta un ragguaglio intorno alla crisi della universalità dei diritti umani e al prevalere del relativismo culturale e della sua idea fondate, ovvero la inconfrontabilità delle culture e la irrimediabile connessione dei diritti alla storia e allo spirito del popolo. E’ chiaro che l’universalità dei diritti è una idea, è un costrutto; l’universalità dei diritti dell’uomo deriva da un fatto storico, inizia a farsi largo nelle menti degli uomini quando qualcuno ha deciso di affermarli solennemente, emergendo alla luce dopo il conflitto e la rivoluzione.
Da allora continuano a emergere nuove istanze, a delinearsi nuovi cataloghi di diritti individuali: se quaranta anni fa, essi emergevano prevalentemente dalla sfera sociale, oggi è nuovamente il campo della sfera privata a chiedere strumenti normativi a tutela della propria facoltà di autodeterminazione. Fini cita ad esempio il caso del fine vita e dei temi ‘eticamente sensibili’: se da un lato la politica è latitante e si è configurato un vuoto normativo che minaccia l’effettività del diritto di scelta delle cure mediche, dall’altro il potere politico legislativo non può superare il limite della sfera individuale, quindi deve astenersi dall’intervenire – evitando di prefigurarsi come potere totalizzante – normando solo le modalità di espressione della scelta, prevedendo i casi in cui l’individuo è nelle condizioni di farlo, ovvero è nella pienezza delle informazioni necessarie, oppure in caso contrario, disponendo chi deve sostituirsi a esso – famiglia, medico, giudice, stato.

  • Ffwebmagazine – I diritti dell’uomo e il ruolo della legge

    Da un punto di vista storico, la democrazia e i diritti umani sono stati sempre considerati come fenomeni distinti, relativi ad aree differenti della sfera politica: la democrazia come una questione che attiene all’organizzazione del governo, i diritti umani, invece, come un problema relativo alla dignità della persona e alla sua tutela. Quando parliamo di democrazia, abbiamo imparato a pensare soprattutto a questioni di ordine costituzionale e di organizzazione del potere pubblico, quali, ad esempio, la separazione dei poteri, la competizione elettorale, il pluripartitismo e così via. Nel caso, invece, dei diritti umani, quest’ultimi assumono l’individuo come punto di riferimento e sono volti a garantire ai singoli le condizioni minime necessarie per una vita libera e dignitosa. Come implica il termine “umano”, il riconoscimento di tali diritti è stato sempre inteso in senso universale ed è stato oggetto di apposita regolamentazione internazionale; al contrario, le vicende costituzionali dei singoli governi sono state tradizionalmente considerate come elemento costitutivo della “sovranità” di ogni Stato. Queste distinzioni sono state ulteriormente rafforzate da una divisione disciplinare che ha assegnato lo studio della democrazia alla scienza politica e quello dei diritti umani alla legge e allo sviluppo della giurisprudenza: due campi di ricerca che, in molte parti del mondo, a partire da quello anglosassone, hanno avuto scarsa connessione l’uno con l’altro. Oggi questa separazione non è più sostenibile se mai lo è stata. Il crollo dei regimi totalitari sotto la pressione popolare ha dimostrato che la democrazia, insieme ai diritti umani, è una aspirazione universale, piuttosto che una complessa formula politica e giuridica. I dati sulle violazioni dei diritti umani perpetrate sotto i regimi dittatoriali, quale sia stata l’ideologia, hanno dimostrato che il tipo di sistema politico all’interno di un paese è lungi dall’essere irrilevante per lo standard dei diritti umani goduti dai suoi cittadini. Da questo punto di vista, pertanto, solo la democrazia è il sistema di governo più idoneo a difendere i diritti umani, dal momento che i principi basilari su cui essa poggia garantiscono, per definizione, il pieno sviluppo di quei diritti che noi chiamiamo “civili” e “politici”. Le nuove sfide derivanti dalla “età dei diritti” denotano, tuttavia, una irresistibile inclinazione dei diritti fondamentali ad espandersi oltre i confini dei singoli ordinamenti democratici. Il fenomeno non è nuovo: dopo la seconda guerra mondiale un’intera stagione politica è stata caratterizzata dal moltiplicarsi degli strumenti internazionali dei diritti umani, dalla Dichiarazione universale dei diritti umani dell’Onu del 1948, alla Convenzione europea dei diritti e delle libertà fondamentali del 1950, ai Patti sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali degli anni ’60, alla Carta – infine – dei diritti fondamentali dell’Unione europea approvata nel 2000. Eppure, negli anni più recenti, i diritti fondamentali sono stati sottoposti a nuove e, in parte, contraddittorie sfide. Da un lato, infatti, vi è una forte accelerazione verso l’universalizzazione dei diritti fondamentali nel cui nome si discutono questioni come la crescita demografica, l’immigrazione, le nuove forme di povertà, la tutela dell’infanzia, la condizione femminile, le scelte di fine vita tra etica e diritto, la moratoria sulla pena di morte, l’emergenza ambientale, fino ad arrivare alle più disparate forme di rivendicazione individualistica. Dall’altro lato, invece, paradossalmente, mai come oggi l’idea stessa dei diritti umani è stata posta radicalmente in discussione dalle critiche filosofiche post-moderne e relativiste. L’avanzare dei diritti umani è stato accompagnato dal dubbio sulla loro universalità, un dubbio che li colpisce alla radice, mettendo in discussione il fatto che essi possano essere riconosciuti ed applicati ovunque. È interessante notare come lo stesso Norberto Bobbio, che auspicava l’avanzare dell'”età dei diritti” sul piano universale, denunziasse poi, nel contempo, «l’illusione del fondamento assoluto» dei diritti fondamentali, dal momento che, cito testualmente, «non si vede come si possa dare un fondamento assoluto a diritti storicamente relativi, variabili di luogo in luogo e di tempo in tempo». Nel pensiero di Bobbio è, dunque, racchiusa tutta la profonda tensione interna che spinge per l’effettivo riconoscimento di diritti universali, ma che, allo stesso tempo, dubita del loro fondamento assoluto. Ben altra cosa, ovviamente, sono le critiche al cosiddetto “pseudo-universalismo” dei diritti umani alimentate da alcune tendenze individualiste che, tradendo lo spirito della Dichiarazione universale, hanno iniziato a promuovere una visione dei diritti umani solo parziale, espressione di una cultura incentrata su un individuo isolato ed astratto dalla società, un individuo concentrato su se stesso e totalmente autodeterminato. Al riguardo, se è vero che il ragionamento di fondo del relativismo culturale ruota intorno all’affermazione della inconfrontabilità delle culture, non si deve dimenticare che la prospettiva del relativismo culturale si intreccia profondamente con la pretesa dell’Occidente di essere la cultura dominante e di incarnare il “telos” della cultura universale. Quali possono essere allora le strade per ricomporre questa tensione tra universalità e storicità dei diritti umani? Di fronte alle sfide del multiculturalismo contemporaneo, in cui si incontrano per convivere culture basate su valori a volte inconciliabili, dobbiamo forse arrenderci alla rassegnazione relativista, ampiamente diffusa, che ostacola il riconoscimento dei diritti universali della persona, oppure dobbiamo adoperarci per favorire l’incontro fra le culture così da costruire un patrimonio umano universale che accomuna tutti gli uomini? La storia, dal canto suo, ha già fornito alcune importanti risposte: il potenziamento del ruolo internazionale dei diritti umani, la transmigrazione dei concetti costituzionali da un paese all’altro e da un continente all’altro, la funzione di garanzia svolta dalle Corti, nazionali ed europee, dimostrano come vi sia una spinta verso il giusto riconoscimento del valore della persona e della sua libertà di autodeterminarsi. Sotto quest’ultimo aspetto, è sempre più frequente leggere espressioni come “i diritti delle generazioni future”, “i diritti riproduttivi”, “il diritto a morire”, “il diritto ad ammalarsi”, “il diritto ad avere un figlio” e così via. Se nei decenni passati il terreno più fertile per lo sviluppo dei nuovi diritti era quello economico-sociale, oggi i “nuovi diritti fondamentali” nascono dall’esigenza di garantire il diritto al rispetto della vita privata che, a volte, però, tende a trasformarsi in una assoluta “pretesa” all’autodeterminazione e alla libertà individuale. Se, infatti, all’origine, tale diritto si configurava come uno spazio privato nei cui confronti non poteva fare irruzione il potere pubblico, attualmente esso esige, invece, che l’autorità pubblica assicuri il soddisfacimento di desideri ed aspirazioni riguardanti la sfera più personale, riservata ed intima. L’esito di questa evoluzione è che si è generata nel tempo una forte confusione, se non addirittura una rischiosa sovrapposizione, tra l’affermazione dei desideri privati e il riconoscimento dei diritti fondamentali. Quale punto di equilibrio dobbiamo allora cercare di raggiungere? A questo interrogativo, che racchiude in sé la questione dei limiti cui è soggetta la libertà di autodeterminazione, cercherò di rispondere constatando, in primo luogo, come uno degli aspetti da sempre più problematici per la tutela dei diritti fondamentali sia rappresentato proprio dal rapporto che intercorre tra il ruolo del potere giudiziario e il ruolo delle istituzioni politiche. Il progressivo ampliamento del campo di azione del giudice e l’affermazione di modelli di definizione del diritto in via giurisdizionale diretti a colmare lacune legislative hanno portato, soprattutto nel nostro paese, sia ad identificare nel diritto giurisprudenziale una nuova via, un “diritto mite”, “flessibile”, maggiormente in grado di soddisfare le esigenze di tutela dei diritti individuali, sia, al contrario, a denunciare una stagione di latitanza della politica con conseguente abbandono di questioni delicate e cruciali nelle mani degli stessi giudici. D’altronde, se il legislatore non riesce ad intervenire nelle cosiddette materie “eticamente sensibili” non può che spettare al giudice la ricerca della soluzione ragionevole applicabile al caso di specie, alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale d’insieme. Tra le questioni più complesse che ci troviamo, quindi, ad affrontare oggi vi è la crisi degli strumenti tradizionali delle libertà, dei diritti fondamentali e dei diritti umani. La legge, che è stata a lungo lo strumento non solo tecnico, ma anche istituzionale, di progressiva tutela sempre più ampia ed effettiva delle libertà e dei diritti, deve recuperare la sua funzione centrale perché è soltanto attraverso il libero e ampio confronto parlamentare che si può raggiungere un alto livello di mediazione politica e sociale tra le legittime visioni contrapposte. Va da sé, ad esempio, per venire all’attualità dei nostri giorni, che ogni decisione sulla vita deve essere rigorosamente assunta sulla base dei princìpi costituzionali, tenendo presente però che l’autodeterminazione non vive in una dimensione astratta e che le condizioni materiali incidono profondamente sui modi di scegliere, di autodeterminarsi delle persone. Per questo, a mio avviso, il ruolo delle istituzioni deve avere come finalità quella di rendere la decisione effettivamente libera, vale a dire una finalità opposta a quella di espropriare qualcuno della sua sovranità sulla propria vita. Una componente essenziale dell’azione pubblica è infatti quella di costruire le condizioni perché l’autodeterminazione viva nell’ambiente sociale che la rende libera e che consente poi il pieno esercizio di questo diritto. Questo è un terreno su cui il Parlamento, se vi riesce, può sensatamente riaffermare una sua centralità qualitativa. Questo è quello che chiedono con forza tutti gli italiani al di là di ogni distinzione di parte.

  • Gianfranco Fini, Presidente della Camera. Intervento pronunciato in occasione della Conferenza sui Diritti umani, Roma, 20 novembre 2009

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