#ijf14 Rosiconi! Quale giornalismo contro i frame della Politica

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No, non è finito il tempo della videocrazia. Chi parla, come è avvenuto ieri al #ijf14, durante il dibattito “Se la comunicazione politica domina la narrazione giornalistica”, speakers Jacopo Iacoboni, Francesco Nicodemo, Nicola Biondo, Elisabetta Guelmini, Giuliano Santoro, di fine della preminenza del mezzo televisivo nella comunicazione politica, sbaglia. I nuovi media, storicamente, non escludono o soppiantano i mezzi di comunicazione in uso, ma li integrano; molto spesso, i media tradizionali si sono adattati alle nuove metriche di comunicazione e ne sono diventati parte principale nella funzione della divulgazione di massa. La Televisione ha due caratteristiche che la Rete Internet non ha: la pervasività e l’immediatezza d’uso. Ed è per tali ragioni che essa persisterà e, anzi, uscirà rafforzata dall’influenza dei nuovi mezzi: la diffusione in ogni casa, in ogni camera, la sua relativa semplicità, sommate alla capacità di controllo che offre la tecnologia della Rete, trasformano il mezzo televisivo nello strumento definitivo della propaganda politica.

Non è vero, infatti, che l’ascesa di Renzi o di Grillo sia avvenuta solo e soltanto grazie alla Rete. In realtà, i due devono molta parte delle loro fortune a giornali e televisioni. Secondo Nicodemo, la crisi della politica di questi anni coincide con la crisi dei media tradizionali. Nicodemo è convinto che l’ascesa dei due nuovi protagonisti della politica può essere raccontata come una nuova narrazione che quindi influenza i media. Lamentando la scarsezza e la pochezza dei mezzi analitici, la penuria lessicale, di linguaggi e categorie per spiegare questa nuova contemporaneità, sostiene giustamente che i singoli media non siano cose fra di loro chiuse, in cui si debba essere bravi a comunicare solo televisivamente o solo via twitter. Poi chiosa: Berlusconi dominava bene la comunicazione televisiva, e solo la quella. E racconta della specificità della comunicazione renziana, la sua “ibridità”, l’ibridità dei contenuti, qualcosa che ha cambiato i modi di dire della politica.

La prima affermazione sappiamo bene che non corrisponde al vero (tanto più se si considera l’estensione del dominio editoriale berlusconiano alla carta stampata e ai libri). Ma non è altrettanto vero che la circolarità fra i media si stia instaurando solo ora, quando più e più volte giornali, radio e televisione si sono influenzati fra di loro e, anzi, sono di fatto racchiusi in un cortocircuito autoreferenziale. Lo erano già, ancor prima dell’avvento della rete. Lo sono oggi, per ragioni più o meno facili da intuire. Diversi studi hanno dimostrato, per esempio, l’interazione continua fra Twitter e televisione (in prims Twitter causation study, Nielsen). In diversi casi, i giornali pubblicano notizie costruite intorno a singoli status di Facebook: lo fanno a loro volta per capitalizzare le visualizzazioni online, poiché molto spesso sono scelti casi limite, episodi di violenza verbale, altrove censurabili ma che persistono su Facebook in virtù di quel fenomeno che passa sotto al nome di trollismo. E suscitare nel lettore sentimenti radicali quali odio, indignazione, repulsione, è il meccanismo principale mediante il quale si crea consenso sul web. Consenso equivale a visibilità, emersione dalla linea grigia. Il frame della Casta è stato creato, guarda un po’, proprio dall’archetipo dei media tradizionali, il Corriere della Sera, tramite la penna di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella, ricorda Giuliano Santoro. E’ quindi utopico pensare – come afferma lo stesso Santoro – ad un giornalismo che smonta i frame della politica? Nel caso della Kasta!!1!!, è il giornalismo a creare la narrazione che sostanzia una comunicazione politica che a sua volta alimenta un risposta giornalistica: Grillo aumenta il proprio consenso sull’indignazione e l’odio verso un costrutto giornalistico – la Casta. Il giornalismo, a sua volta, attua una sorta di politica dei due forni: da un lato seguita a indignare (grazie al materiale fornito dai politici e dai loro rimborsi fasulli), dall’altro opera per insinuare il dubbio circa la diversità ontologica dei 5 Stelle.

Questo continuo circuito di influenza fra politica e media, reso iperbolico dalla diffusione dei social network, ha il solo effetto di allontanare la realtà fattuale. I fatti non sono più l’oggetto della comunicazione giornalistica, esattamente come la politica è estraniata rispetto alla realtà sociale. C’è modo di uscire? Ma la politica è solo competizione fra narrazioni alternative, astratte? In queste narrazioni, c’è modo di prendere in considerazione la realtà? E’ proprio questo il punto politico. Non di poco conto. Permettere alla realtà di entrare nel proprio orizzonte narratologico è rischioso tanto quanto è rischiosa la vita del parresiastes. La parola autentica comporta rischi poiché essa è tutt’uno con la realtà fattuale. Chi si può assumere questo rischio fra Renzi e Grillo?

Il #Quirinale e l’influenza di Twitter

A corredo delle discussioni inutili sull’influenza dei social network intorno alla elezione del Presidente della Repubblica, cito ad esempio questa amabilissima discussione che Francesco Boccia ha appena avuto su Twitter:

http://twitter.com/F_Boccia/status/325559852493570049

Il problema è fin troppo chiaro. C’è una domanda, forte, che si dipana attraverso i social, di cambiamento. Se non ci fossero stati i social, saremmo già in sciopero generale o in piazza a Montecitorio a sfasciare le vetrine. Capito?

In secondo luogo, è la risposta che latita. Rivendicare, come ha fatto Boccia, il fatto di aver preso 5000 voti in primarie avvenute quattro mesi fa quando questo clima era ancora sottotraccia, e farlo con quel tono, significa sordità cognitiva. O qualcosa di simile.

I social, come detto, sono solo il mezzo. 

Riot, un software per controllare i social network

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Si chiama Raytheon ed è una società multinazionale che si occupa di ‘Difesa e sicurezza’. E’ il quinto produttore al mondo di questo genere di servizi. Il Guardian ha pubblicato un video che svela come il software prodotto da Raytheon, Riot (che sarebbe l’acronimo di Rapid Information Overlay Technology), sia in grado di scandagliare trilioni di entità attraverso i vari social network. Lo ‘strumento’ di controllo sarebbe in grado di fornire previsioni circa gli spostamenti o i comportamenti degli utenti. Guardian parla di sofisticata tecnologia che potrebbe trasformare i social media in “Google delle spie”. Chiaramente questo tipo di tracking online verrebbe messo in opera a prescindere dalle intenzioni dei proprietari delle identità sui social. Così Facebook, Twitter, Foursquare ci fanno accettare le loro policy sulla privacy online mentre questi software spia bypassano la burocrazia e registrano ogni nostro click. Riot sfrutterebbe soprattutto le fotografie pubblicate sui social, dalle quali estrarrebbe i dati della geolocalizzazione, ovvero latitudine e longitudine.

Riot è in grado di visualizzare in un diagramma le associazioni e le relazioni tra gli individui online, cercando fra quelli con cui hanno comunicato di più su Twitter. Si può anche estrarre i dati da Facebook e vagliare le informazioni sulla posizione GPS da Foursquare, i cui dati possono essere utilizzati per visualizzare, in forma grafica, i primi 10 posti visitati dai singoli individui e gli orari in cui li hanno visitati. In sostanza, sfrutta tutte le informazioni che noi pubblichiamo ignari che queste possano avere una qualche risultanza per qualcuno.

La tracciabilità dei comportamenti elimina lo spazio di incertezza che ogni individuo porta con sé: in altre parole, elimina lo spazio della libertà individuale. Se tutto può essere tracciato e controllato, anche le nostre decisioni future possono essere inglobate in un algoritmo che tutto prevede poiché può attingere da un serbatoio smisurato di profili. Sinora l’obiezione più grande verso questi software era che mai e poi mai avrebbero potuto gestire terabyte di dati di informazioni inutili. Che mai avrebbero potuto prevedere una insurrezione popolare – come la Primavera Araba – poiché il software non può distinguere la semplice opinione dalla intenzione. Cosa avrebbe di diverso Riot? L’uso dei dati pubblici di Facebook o di Twitter a scopo di ‘garantire la sicurezza di un paese‘ non è un reato. I dati sono pubblici, abbiamo scelto di renderli tali, abbiamo cliccato su ‘Mi piace’ ben consci che altri possono vederlo, anche i funzionari del servizio segreto del nostro governo. Quando questo strumento è nelle mani di un potere legittimo e democraticamente costituito, è un potere altrettanto legittimo, esattamente come quello di stabilire delle pene per dei reati, o come il potere di emettere sanzioni amministrative. C’è una indagine, si individua una fattispecie di reato,c’è un giudice che stabilisce la liceità di intercettazioni telefoniche, si scoprono le prove, si istruisce un capo d’accusa. Ma quando invece la natura del potere è illegittima, o legittima ma antidemocratica, allora questo strumento diventa l’arma letale che annienta la sfera privata dei diritti civili.

Il video pubblicato su Guardian

Primarie, volano gli stracci fra Huffington Post e Ipsos sui sondaggi

Huffington Post Italia metteva ieri in homepage una interpretazione di un sondaggio Ipsos che avrebbe dato Bersani vicino al 50%, quindi probabile vincente al primo turno. Ne è nata una diatriba assurda che va avanti ancora in queste ore. Imperdibile.

Primarie centrosinistra, anche il sondaggio Ipsos conferma il trend negativo per Matteo Renzi. Pier Luigi Bersani vicino al 50%

Ipsos risponde con un secco comunicato che apertamente accusa i tipi dell’Huff Italia di male interpretare i loro dati:

I risultati pubblicati da Huffington Post Italia non sono coerenti con le nostre stime

Quindi la polemica si infiamma. Non più di due ore fa, su Twitter:

Da qui in poi è un assolo di Pagnoncelli. Fantastico.

Francesco Costa, dal suo canto, osserva e commenta:

Quelli dell’Huff non ci stanno e rivendicano la correttezza delle proprie interpretazioni.

Per concludere, il sondaggio era questo (e Bersani è ben lontano dalla vittoria al primo turno):

Bersani 39.9%
Renzi 32.1%
Vendola 16.3%
Puppato 2.8%
Tabacci 1.5%
Non indica 2%
Indeciso 5.4%
TOTALE 100%

#PubblicoLive: e Di Pietro diventa trending topic con l’aiutino dei Bot

Se vi fosse capitato di seguire la diretta streaming di oggi dell’intervista di Luca Telese e dei tipi di Pubblico Giornale al leader IDV Antonio Di Pietro, vi sareste imbattuti in una fittissima cronaca su Twitter che vi avrebbe indotto certamente spegnere il video. Addirittura, l’hashtag #PubblicoLive era diventato trending topic in pochi minuti. L’intervista è cominciata alle 12, ed è durata circa un’ora: poco dopo le 13 #PubblicoLive era terzo nella classifica degli argomenti del giorno su Twitter.

Naturalmente i giornalisti di Pubblico si sono dati da fare per divulgare quanto più possibile le parole di Tonino Di Pietro. E’ il loro lavoro e lo fanno pure bene.

Ma se foste stati più attenti ed aveste seguito esclusivamente il flusso di tweet aventi l’hashtag #PubblicoLive, vi sareste certamente interessati ad alcuni utenti particolarmente eccitati dalle parole di Di Pietro e nemmeno sfiorati dall’idea di lanciare lì qualche domanda scomoda. Anzi, ogni parola del Leader viene accompagnata da esclamazioni di giubilo. Ho provato a vedere di chi si trattasse. Grazie ad Hootsuite, ho potuto vedere istantaneamente che c’erano alcuni account che utilizzavano tutti indistintamente la piattaforma Sprout Social. Inoltre, le foto di questi utenti erano chiaramente foto “con il trucco”: date una occhiata ai profili Twitter di @GiuseppeSionett, @panealpane, @giomarcucci, @AnnaGardini, @AlessioDeLuca4, @mirianasantoni, @GiuliaBernini1. Questi sono alcuni dei tweet di giubilo che hanno spinto #PubblicoLive fra i primi tre TT del giorno:

Un’altra prova a suffragio della tesi che Tonino si sia portato dietro una claque fatta di Twitter-Bot proviene dal fatto che tutti questi account hanno retwittato il 25 Settembre scorso un post di Gianfranco Mascia (quello del Popolo Viola alias Bo.Bi, Boicottiamo il biscione, uno dei professionisti dell’antiberlusconismo):

 

 

 

 

 

Insomma, credo che basti. Verificate anche voi, se volete. Diciamo che l’approccio al web da parte di questi politici (che fanno di tutto per essere 2.0) è alquanto errata. Forse mal suggeriti dagli esperti del web marketing, finiscono per dopare i propri profili sui social network e a gonfiare le fila di poco frequentate discussioni in diretta streaming. Dispiace che i tipi di Pubblico Giornale siano stati coinvolti in questa triste messinscena.

Il partito Internet e la post-democrazia rappresentativa

foto @linkiesta.it

Juan Carlos De Martin scrive oggi su La Stampa (Internet la democrazia necessaria – LASTAMPA.it) che Internet non è la causa primaria dei neo movimenti politici (europei e arabi) ma è un “facilitatore”, un catalizzatore. Un elemento tecnologico che non c’era e che oggi rende meno difficoltosa l’interazione a diversi livelli fra individui. Oggettivamente Internet è un mezzo di comunicazione, ma è radicalmente diverso dai media tradizionali – radio, tv, giornali. Se i media tradizionali hanno avuto e hanno tuttora una influenza nella produzione di consenso in un sistema democratico rappresentativo, quale sarebbe allora il ruolo del Web “nel plasmare le interazioni tra Stato e cittadini?”, si chiede De Martin. Quale ruolo nel rendere possibili partiti diversi dagli attuali? Quale ruolo nello strutturare nuove e più efficaci forme di dialogo tra eletti ed elettori? Quale ruolo nel dar forma a una sfera pubblica migliore, non solo a livello locale e italiano, ma anche europeo e globale? Bisogna prendere il Partito come caso di studio e ipotizzare come strutturarlo oggi, se dovessimo costruirne uno ex-novo. “Come faremmo un partito politico se potessimo partire da zero?”.

Il vantaggio del Web è insito nella riduzione del costo della interazione fra “militanti e dirigenti, eletti ed elettori, simpatizzanti e iscritti, partito e altri partiti, partito e istituzioni”. “Otteniamo la parola oggi in un modo che è così automatico e senza sforzo che è diventato invisibile”, scrive Cory Doctorow sul The Guardian. Il costo della transazione è minimizzato in un sistema che ha la tecnologia di internet, del web e dei social network come elemento catalizzatore dello scambio e della condivisione delle informazioni e della conoscenza. Se fino ad oggi la tecnologia in letteratura è sempre stata raffigurata con le sembianze di uno strumento del potere, uno strumento che trasforma il potere totalitario in iper-totalitario (George Orwell, 1984), secondo Doctorow, la tecnologia riduce i costi della interazione fra gli individui in maniera orizzontale, per tutti, non solo per “i meglio organizzati”. Anzi, oggi, per la prima volta nella storia, la tecnologia non implica organizzazione. Il Web rende efficaci ed efficienti gli scambi di informazione anche fra quei gruppi che non sono organizzati. O per meglio dire, il Web presuppone disorganizzazione e liquidità delle forme della interazione. Non richiede posizioni gerarchiche poiché la parola fluisce liberamente in un contesto stratificato a più livelli comunicativi.

“Disorganised, effective” is groups like Anonymous and Occupy, groups that have no command structure at all, not even an articulated set of goals, no formal membership structure, and in Anonymous’s case, no formal deliberative process (Disorganizzati ma efficaci sono quei gruppi come Anonymous e Occupy, gruppi che non hanno alcuna struttura di comando, nemmeno un set articolato di obiettivi, senza una struttura associativa formale, e nel caso di Anonymous, nessun procedura formale deliberativa), Cory Doctorow, Disorganised but effective: how technology lowers transaction costs | Technology | guardian.co.uk.

Da un lato quindi, la riduzione dei costi di transazione implica la possibilità di aggregazione senza struttura, dall’altra fornisce al potere la possibilità di rafforzarsi e di amplificare il controllo dei comportamenti. La tecnologia del Web si stratifica sul sistema politico della democrazia rappresentativa oramai affetta da un surplus di potere dei gruppi di interesse che hanno cooptato i corpi intermedi – partiti, sindacati, associazioni – trasformandoli in strutture volte alla riproduzione del consenso, anche attraverso la manipolazione mass-mediatica. Dahrendorf, come Crouch (2009) parla appunto di post-democrazia indicando una serie di processi di degenerazione del modello rappresentativo della democrazia, a cominciare dalla dissoluzione della partecipazione. Il cittadino chiede di poter essere partecipe del meccanismo decisionale, mentre lo Stato-Nazione è messo in soggezione da organismi sovra statuali – non democratici – che ne erodono la sovranità interna. Così la sfera pubblica conosce una deriva personalistica e autoritaria. Il freno a questa deriva, secondo Dahrendorf, non può che essere la società civile, tramite le associazioni di volontariato, le ONG, il terzo settore. Ma,

[l’]Antidoto alla caduta della mediazione nei luoghi istituzionali della delega politica, come della presa di potere e del ruolo autocrate di media e tv, la cosiddetta società civile e le organizzazioni non governative rischiano di abdicare al loro tradizionale ruolo borghese di critica sociale e controllo delle decisioni del governo, divenendo artefici di una “governance” in nome della quale sono cancellate alternative e differenze di opinione (Dahrendorf, Ralf, Dopo la democrazia).

La confusione del ruolo fra società civile e sistema politico avviene in un contesto in cui il controllo dei governati sui governanti si è rovesciato nel controllo dei governanti sui governati. Il meccanismo della produzione di consenso e del suo mantenimento “sono oggi assolutamente distorti, in quanto il metodo della consultazione diretta ed esasperata, come il sondaggio permanente sul gradimento dell’azione di governo, è pratica non politica bensì aziendale, tecnocratica, imposta da media e premier sul terreno della rappresentanza” (Dahrendorf, Ralf, Dopo la democrazia). Possono allora i gruppi “disorganizzati ma efficaci” che nascono in rete sottrarsi a questa pericolosa sovrapposizione di ruoli fra società civile e sistema politico, laddove quest’ultimo ha in mano le tecnologie per riprodurre il consenso? Non somiglia questa a una battaglia di successione di tecnologie?

Il problema della neutralità della Rete non è affatto secondario. L’idea di uno “spazio internettiano libero e autoregolato si confronta con la pratica dell’influenza sempre più chiara degli Stati nella struttura della rete” (La maturazione del rapporto tra internet e democrazia | Luca De Biase). Questa epoca di mutamento, che è anche epoca di crisi economica, richiede un cambio di paradigma. Internet prelude alla condivisione di informazioni, interazione non prettamente economica in senso capitalistico, ovvero non è uno scambio “merce contro moneta”. Internet rende possibile su scala globale questa interazione, che non è mai scomparsa nel tessuto connettivo relazionale viso-a-viso. Da ciò la necessità di controllo, di filtrare i contenuti, di privilegiare o punire i flussi. Il potere precostituito nel mondo post-democratico opera per ridurre Internet al solo ruolo di rafforzamento del potere medesimo, alla stregua dei media mainstream, come meccanismo di riproduzione del consenso. La tecnologia di Internet non è completamente open-source: ciò implica il fatto che determinati algoritmi, deputati alla selezione delle informazione nei motori di ricerca e nei social network, siano completamente sconosciuti agli utenti. Anzi, sono proprietà privata. Tanto che anche i contenuti prodotti dagli utenti-cittadini diventano proprietà della Corporation che presiede alla formulazione degli algoritmi (vedi Twitter).

Come poter costruire quindi un nuovo partito, se il presupposto è questo? Come possono la tecnologia del Web e i gruppi “disorganizzati ma efficaci” che sorgono tramite essa, superare la Legge ferrea dell’oligarchia (Robert Michels – per una summa, vedi Wikipedia)? Secondo Robert Michels la democrazia presuppone organizzazione. Tutti i partiti politici si evolvono da una struttura democratica, aperta alla base, in una struttura dominata da una oligarchia, ovvero da un numero ristretto di dirigenti; ciò deriva dalla necessità della specializzazione, la quale fa sì che un partito si strutturi in modo burocratico, creando dei capi sempre più svincolati dal controllo dei militanti di base. Senza organizzazione, senza struttura, ovvero senza le regole che presiedono alla discussione e alla deliberazione, come potrebbe ancora esserci democrazia?

Il codice segreto di #Radiolondres: come twittare le presidenziali francesi

[Dalle ore 20 exit poll su twitter con hashtag #Radiolondres]

In Francia non si può parlare delle elezioni presidenziali su Twitter e in generale sui social network. Lo stabilisce una legge che vieta espressamente di divulgare informazioni circa i risultati del primo turno elettorale prima della chiusura dei seggi, posto alle ore 20 di questa sera. La legge in questione esiste già da qualche anno e non è corretto parlare di censura. Le autorità preposte per vigilare sulla regolarità del voto come faranno a prevenire la diffusione incontrollata e prematura degli exit poll? Semplice. Gli exit poll sono commissionati alle agenzie di sondaggio. Se venissero divulgati i dati prima delle otto, le agenzie rischiano multe salatissime; i francesi l’annullamento del voto.

Pensate che ciò basti mettere il bavaglio a Twitter? C’è chi ha inventato il codice di  #Radiolondres: come durante la seconda guerra mondiale, quando la radio clandestina parlava in codice alle forze resistenti al nazismo, così i francesi si scambieranno le informazioni sugli exit poll anche prima della chiusura dei seggi. Il codice #Radiolondres è stato inventato da @BouLoulouduu77:

Se vuoi fuggire da Facebook, c’è Diaspora*, il primo social network open source

Tratto da Liberarchia [per gentile concessione di Daniele Florian].

Segui Yes, political! su Diaspora*

Il mondo virtuale di Internet rispecchia in pieno ogni pregio e difetto del mondo reale.
Al giorno d’oggi il Web permette di svolgere quasi ogni attività, dalla compravendita di prodotti alla condivisione di filmati e documenti, oppure può divenire luogo di incontro tra utenti di diverse realtà, permettendo scambio reciproco e diffusione di notizie.

Per questi ed altri motivi possiamo considerare il Web una vera innovazione sociale oltre che tecnologica che, se sfruttata al meglio, può davvero diventare strumento utile per lo sviluppo sociale. Tuttavia, così come nel mondo fisico, dove vi è la possibilità di rivolgersi ad un vasto e vario pubblico, la macchina dell’economia non perde l’ occasione di scendere in piazza, rendendo così anche la rete soggetta alle dure leggi del capitalismo e del business.
Ed è così che sono venute a sorgere le prime discussioni in merito di diritti d’autore, software proprietario, e tutte quelle pratiche giuridiche-economiche in ambito informatico nate per scopi lucrativi e che finiscono per danneggiare la macchina culturale che è Internet.
A dimostrazione di ciò basti pensare al recente acquisto di Skype da parte della Microsoft Corporation, che molti pensano potrebbe portare all’ estinzione della versione Linux del famoso software per la comunicazione VOIP.
Di soluzioni a questi problemi ne conosciamo tante, come appunto il sistema operativo Linux gratuito e open source o i nuovi progetti in termini di copyleft e libertà digitali; ma ciò che forse sono ancora sconosciute ai più e poco divulgate, sono le problematiche recenti nate nel mondo dei Social Network.

Facebook è – secondo le stime – il secondo sito più visitato al mondo dopo Google e può vantare la bellezza di 500 milioni di utenti iscritti (se fosse un Paese sarebbe il terzo per popolazione dopo India e Cina).
Come ben sappiamo la famosa azienda fondata da Mark Zuckerberg offre un servizio di iscrizione gratuita e la possibilità di gestire un profilo con foto, video e fattorie di animali senza spendere neanche un soldo; la domanda quindi sorge spontanea: come fa Facebook a finanziare gli enormi costi dovuti innanzitutto alla manuntenzione dei galattici server contenenti quasi 3 miliardi di foto e a pagare tanti impiegati quanti la metà della popolazione italiana, considerando che il fatturato registrato l’ anno scorso è stato di ben 1.1 miliardi di dollari?
La risposta sta in un accordo stipulato tra il colosso informatico e le aziende di marketing, alle quali vengono venduti i nostri dati personali e altre informazioni su di noi per utilizzarli nella creazione di campagne pubblicitarie a seconda del target.
Pochi sanno infatti che, secondo i termini del contratto di iscrizione al servizio, all’accettarlo l’utente dà a Facebook l’ esclusiva proprietà di tutte le informazioni e le immagini che vengono pubblicate; inoltre Facebook viene autorizzato non solo all’uso ma anche al trasferimento a terzi dei nostri dati sensibili; e dato che il 90% della popolazione al momento di un’iscrizione online non legge il contratto, Facebook può vendere questi dati senza nessun altro nostro consenso.
Oltre ai dati personali inoltre, più volte è stato riscontrato che alcune applicazioni quali sondaggi o simili sono create dalle stesse aziende allo scopo di ottenere l’ informazione da loro richiesta. Ovviamente la maggior parte delle volte Facebook ha ribadito che non era a conoscenza del caso, scaricando la colpa sulle aziende.
Da notare è anche il fatto che una volta iscritti non abbiamo modo di re-impadronirci dei nostri dati, nemmeno con la cancellazione dell’account, perchè questo non permette l’eliminazione totale dei dati: rimarranno immagazzinati per sempre sui server di Facebook fin quando essi lo riterranno necessario.

Per far fronte a questi problemi è nato Diaspora*, un nuovo social network ideato da studenti della New York University, il cui obiettivo è creare un sistema decentrato e sicuro, contribuendo a proteggere la privacy degli utenti e con un software libero e open source.
L’ innovazione di Diaspora sta proprio nel suo funzionamento, infatti ogni computer su cui Diaspora sarà installato diventerà un “pod” indipendente, e il nostro profilo con le nostre informazioni personali rimarranno sulla nostra macchina senza venir divulgate ad altri senza il nostro consenso.
Inoltre se vogliamo o se non abbiamo la possibilità di creare un server nostro potremo fare affidamento a server terzi di nostra “fiducia” su cui installare i nostri profili.
Ora però Diaspora è ancora in fase di test, perciò non disponibile a tutti gli utenti; almeno fino a quando questa fase si concluderà non sarà disponibile per tutti.

In Italia alcuni ragazzi dell’Università di Pisa stanno contribuendo a questo progetto, per esempio nell’implementazione di servizio VOIP sul social network (tra l’altro non presente su Facebook). Per chi volesse provare questa fase alfa di Diaspora può farlo registrandosi a http://diaspora.eigenlab.org/.

Contribuire a questi progetti (con la semplice iscrizione o partecipando attivamente) significa sostenere quello sviluppo sociale e tecnologico che è lontano dai riflettori della moda e del business, ma nel quale, non essendo sottoposti alle politiche di mercato, si può lavorare per il semplice scopo che è la ricerca di conoscenza dedita al progresso scientifico, morale ed umano.

Giorgio Bocca, “hanno perso la testa”

Un articolo del 1992, quando Giorgio Bocca definì per sempre la miserrima classe dirigente leghista. Un pezzo esemplare e lungimirante. Per superare l’inutile polemica del Giorgio Bocca “omofobo e razzista”.

HANNO PERSO LA TESTA

09 ottobre 1992 —   pagina 1

LA LEGA avanza, dicono a Milano, “come il coltello nello stracchino”. Basta lasci fare agli altri che fanno a gara per aiutarla. Questo Nicola Mancino, ministro degli Interni, che nella crisi dirompente della partitocrazia, nella fine pietosa delle sue arroganze, cerca di togliere ai cittadini di Varese e di Monza il diritto di votare. Questo Giuseppe Gargani, noto per le partite a tresette con De Mita, che propone di mandare in galera i giornalisti che danno notizie su Tangentopoli, proprio lui nato e cresciuto alla politica nel bel mezzo della colossale dissipazione e corruzione del terremoto e della illegalità legalizzata di cui a quanto pare non si è mai accorto, pur essendo presidente della commissione giustizia della Camera. Questi cinquanta deputati che scrivono al ministro della Giustizia, Martelli, perché freni i giudici che si occupano della corruzione e se scorri i loro nomi scopri che metà sono in attesa o in timore di una comparizione giudiziaria e l’ altra metà sono stati eletti con i voti della Camorra o della Mafia. QUESTI leader dei partiti sordi a ogni richiamo della ragione, impudentemente testardi: il Bettino Craxi che vuole rifondare e moralizzare il Psi come se non fosse notoriamente il signore di piazza del Duomo 19, degli uffici dove quelli del suo stato maggiore ritiravano le tangenti e questo De Michelis che Craxi ha voluto, con violenza provocatrice, vice segretario del partito, che a parte le faccende giudiziarie risulta persona irresponsabile – cretino no, perché cretino non è – al punto di aver dichiarato alla stampa sul finire del 1990 a bancarotta finanziaria incombente “ci stanno davanti quindici e forse venti anni di una espansione economica e di un benessere senza precedenti”. In nobile gara con gli Andreotti e i Cirino Pomicino che continuavano a falsificare i bilanci dello Stato pur di rimanere al potere. Questo Francesco Cossiga che, forse per solidarietà massonica, rende pubbliche lodi al giudice Carnevale, ne parla come di un perseguitato, ignorando che con le sue trecento o quattrocento sentenze cassate ha reso praticamente impossibile per più di un decennio la persecuzione giudiziaria dei mafiosi. E Cossiga era il Presidente della Repubblica, colui che avrebbe dovuto proteggere i diritti degli italiani deboli, degli italiani umili taglieggiati, minacciati, uccisi dai mafiosi che Carnevale mandava liberi per i più ridicoli, anzi irridenti difetti di forma. Questi ministri della Giustizia e degli Interni che solo ora mettono taglie sui grandi latitanti e fanno fare retate a Gela, ma prima hanno affossato il pool antimafia e non si sono accorti che a Gela il prefetto era il boss Joccolano. E anche questi sindacati, questo Pds, che continuano a anteporre i loro interessi organizzativi, consociativi o politici a quello ormai dominante della nazione in pericolo. Ma purtroppo, o per fortuna, la Lega non si accontenta di stare sulla riva del fiume in attesa che passi il cadavere della partitocrazia. La Lega si è messa a sentenziare, a proporre, a sproloquiare, a fare la terrorista come se fosse un gioco eccitante, non solo per bocca del suo grande comunicatore Umberto Bossi o del suo mattocchio intellettuale Gianfranco Miglio, ma anche con i suoi quadri medi e inferiori che si avvicendano alle tribune messe a loro disposizione da una informazione attenta al nuovo per gridare “ci siamo anche noi”. La signorina Pivetti che si toglie il gusto di trattare da complice dei partiti e dei ladri il cardinale di Milano Martini; il capogruppo alla Camera Marco Formentini, che come se fosse una innocua boutade propone di far crollare sul paese la montagna del debito pubblico; lo Speroni e gli altri che al seguito di Bossi e di Miglio parlano nel vago di una riforma federalista ma nel concreto secessionista, come se rovesciare l’ orologio della storia italiana, tornare indietro di duecento anni ai primi moti unitari, fosse una bella festa paesana da andarci vestiti da Alberto da Giussano con spadoni e elmi di cartapesta, come al carnevale di Ivrea. L’ impressione è che i dirigenti della Lega si siano lasciati plagiare e quasi drogare da questo “coltello che affonda nello stracchino”, da questo successo facile e travolgente. Che si siano veramente convinti che i milioni di padani che gli danno il voto glielo danno veramente per le quattro scemenze localistiche e federalistiche con cui cercano di supplire un programma che non c’ è? Che non abbiano capito che gran parte di questo voto gli è dato da chi pensa alla Lega come l’ ariete, come il grimaldello che può rompere il pack dei partiti? Si prova persino imbarazzo nel ricordare ai dirigenti della Lega quelle che sono acquisizioni ormai sedimentate, consolidate nella coscienza della nazione. E non dico i legami economici, finanziari, strutturali dello Stato unitario, non dico i cataclismi e i pandemoni che affronterebbe chiunque si provasse a rompere quel po’ di stato di diritto, quel po’ di stato europeo che siamo riusciti a mettere assieme in centotrentadue anni. Non dico neppure le osservazioni più ovvie in materia economica, come chiedere ai Bossi e ai Formentini di spiegarci come verrebbe ripartita in una divisione dell’ Italia la montagna del debito pubblico. Al nord per quanto spetta agli acquirenti di Bot e Cct? L’ ottantuno per cento, come è stato calcolato, del prodotto lordo della Padania? E l’ economia padana, secondo Bossi, sopravvivrebbe sotto una simile valanga? Ma non sono ripeto questi argomenti economici, questi discorsi a non finire sul do ut des fra l’ Italia ricca e la povera, che pure c’ è e che una cultura meridionalistica onirica e piagnona sbaglia a rifiutare a contestare, gli argomenti decisivi; ma qualcosa di molto più importante, di molto più conficcato nella coscienza della nazione. Che non c’ è, non ci sarebbe delitto peggiore che abbandonare milioni di meridionali onesti, di concittadini onesti a un destino libanese; che lasciare inermi di fronte alla nomenklatura armata e ricca della malavita organizzata e del ceto politico corrotto i milioni di siciliani, di calabresi, di campani, di pugliesi che chiedono di vivere in un paese civile e ordinato. Sarebbe la morte, con vergogna, della società civile del settentrione. – di GIORGIO BOCCA

Ma la realtà vinse sul videomessaggio

Finisce com’è cominciata, con un videomessaggio, l’età della videocrazia. Berlusconi ha sentito l’urgenza di parlare a tutti noi, inviando molto probabilmente un vhs, un nastro, al massimo un cd, alle principali testate giornalistiche televisive. Anche se si è dimesso. Con uno sgarbo istituzionale senza precedenti, ha impiegato lo scenario di Palazzo Chigi che in realtà non sarà più il suo scenario.

Ma, badate bene, è arrivato in ritardo. Ieri sera, la festa davanti al Quirinale l’ha scosso. Gli ha fatto percepire, forse per la prima volta, la distanza siderale che si è creata fra sé e la gente. Soprattutto, un evento imprevisto, che si è auto-organizzato con mezzi che non sono la televisione, ha spodestato la rappresentazione del reale operata dai media berlusconiani e ha rotto – direi squarciato, proprio con un taglio, come le tele di Lucio Fontana, come la barca di Truman che si incaglia contro la scenografia dello show – l’ideale perfezione della narrazione videocratica.

Il “nobile gesto” di Berlusconi, le dimissioni, è oggetto di fischi e insulti. Come non abbiamo potuto prevederlo? Non c’erano sondaggi sul tavolo a testimoniare questo scarto, questo cambiamento dell’opinione pubblica. E allora occorre rimediare? Organizzando una adunata di sostenitori sotto casa e inviando un videomessaggio. Già, il limite è proprio questo, il dover allestire, inscenare rappresentazioni da far passare per il tubo catodico e l’inconsistenza di qualsiasi altra strategia comunicativa che non passi per la tv generalista.

Ecco allora la possibile intuizione:il berlusconismo finisce quando finisce il monopolio dell’immagine da parte di Berlusconi medesimo. Egli non è più padrone della sua icona, quindi non è più padrone della sua storia. Come scrive Sartori:”Nella nostra società regna infatti sovrano il primato dell’immagine: il visibile prevale sull’intelligibile; la capacità di astrarre, di capire e dunque di distinguere tra vero e falso è oramai atrofizzata. Questa agghiacciante realtà ha un unico ed apparentemente insospettabile artefice: la televisione”  (Homo Videns, Barei,Laterza, 2000). Ora il primato dell’immagine è in crisi e il suo principale controllore è detronizzato. La tv è messa in crisi da Twitter, da Facebook, social network dove il controllo potrebbe essere ancora più stringente e totale, ma che per ora spezzano il predominio imagologico del sistema Mediaset sulla società.

I nuovi media hanno creato la possibilità di comunicare orizzontalmente e di creare contenuto, di partecipare e condividere con estrema facilità. C’è una politica che non si fa nelle istituzioni, né nei partiti. Questa nuova Politica è fatta nei forum e sui blog; è la discussione continua e multilivello che fluisce in rete. Questa è politica. E’ formazione di opinione pubblica che non è più controllabile con la televisione.

Non c’è più un pubblico che applaude, no. Niente più applausi. Ma twet e post e ticchettio di tastiera. Che è poi il preludio a far ticchettare le scarpe nelle piazze.