La cartina d’Europa che vedete era stata pubblicata un po’ provocatoriamente qualche mese fa da The Economist. Era posta a corredo di un articolo in cui si prefigurava la futura divisione dell’Europa. Spicca la divisione dell’Italia in due paesi, uno a Nord con capitale Venezia; l’altro a sud con capitale Roma. A dividerli, i due neo-stati, addirittura un canale, non si sa se soltanto politico o addirittura geografico. Da notare che lo stato del Nord conserva il nome Italia. Significa che a Nord rimarrebbe l’autorità legittima, quella che si è creata con il referendum del 1946 e la costituzione del 1948. Per intenderci, gli espertoni dell’Economist non prevedono la secessione della Padania, bensì di quella del Meridione, nella cartina chiamato Bordello. Qualcosa di simile girava su un volantino negli anni ottanta. Qualcosa di simile era stato ipotizzato nel 1993 dalle Forze Armate. Era il 9 o l’11 di Novembre 1993, giorni di scandali, di tensione politica con la Lega Nord, di terremoti istituzionali che rischiavano di far decapitare la Repubblica con le dimissioni sfiorate di Scalfaro, bersagliato dalle rivelazioni sconvolgenti dei funzionari corrotti del Sisde, come l’ex Malpica:
in questo scenario di Italia divisa “Il Corriere della Sera” pubblica la notizia dell’esercitazione che tenne impegnati tra il 9 e l’ 11 novembre scorso prefetture e questure di Lombardia, Piemonte e Liguria e il comando della Regione militare di Nord Ovest. Poco più di un mese fa, in un clima politico arroventato, nei giorni in cui la Lega predicava ipotesi di secessione, qualcuno fra il Viminale e via XX Settembre pensò di mettere alla prova, non sul campo, ma a tavolino, una ipotesi di guerra civile. Col Nord regione ricca e stabile, attaccata dal Sud, coacervo di forze instabili e povere. Il Nord resiste all’attacco, i cattivi sono respinti oltre “confine” (Il Viminale e la Guerra Civile – Archivio Repubblica.it).
Era la prima volta che l’Esercito simulò uno scenario di guerra civile. L’evento diventò pietra d’appoggio nel teorema contenuto in un’inchiesta della Procura di Palermo, condotta dai pm Antonino Ingroia e Roberto Scarpinato, intitolata “Sistemi Criminali”. E’ l’analisi alla base dei procedimenti contro il generale Mori e il capitano De Donno dell’Arma dei Carabinieri, accusati di aver trattato con Cosa Nostra. L’ipotesi di fondo del dossier «Sistemi Criminali» è che “negli anni ’91, ’92 e ’93 sia stato messo in atto un tentativo di destabilizzare l’Italia, una sorta di «golpe» proveniente dal Sud senza carri armati, attraverso la strategia stragista di Cosa Nostra che sarebbe andata a «perfezionare» lo squasso istituzionale provocato dalle inchieste sulla corruzione del pool di Milano” (La Licata – Archivio La Stampa.it). Questo blog ha già trattato l’argomento qualche tempo fa riflettendo sulle parole dello stesso Scarpinato rilasciate a Luglio a Il Fatto Quotidiano. Successivamente in un altro post si prendeva in esame la devianza del Sisde e si definiva il quadro politico-istituzionale di quegli anni. Si accennava, in coda al post, allo scandalo dei Fondi Neri del Sisde. Sul web si trova una riduzione di un documento opera di Carlo Bonini, giornalista di La Repubblica, il quale, attaverso le parole di Francesco Misiani, magistrato e fondatore di Magistratura Democratica, morto nel 2009 a 73 anni, mette in chiaro il ruolo dei magistrati “rossi” nel salvataggio di Scalfaro e Mancino, secondo l’interpretazione che prevalse, al centro di un attacco istituzionale volto a decapitare l’ordine democratico. Ecco il documento:
Fondi Neri del Sisde, perché non si è mai fatta davvero chiarezza
Si opponeva il fronte che aveva alla sua testa Magistratura democratica e i suoi esponenti di spicco all’interno del Palazzo, come Giovanni Salvi e Pietro Saviotti. Non saprei dire se numericamente maggioritario, ma certo dal forte peso specifico ai fini della decisione. La convinzione “pregiuridica” era che i cinque del Sisde fossero iscritti a un’operazione diretta a pilotare gli esiti dell’inchiesta verso un approdo politico che avrebbe trascinato le istituzioni e il paese nel marasma e nel discredito. E che pertanto l’operazione andava soffocata sul nascere.
Pensate cosa sarebbe accaduto se nella procura fosse prevalso l’orientamento deciso a voler andare a fondo nell’inchiesta: Scalfaro si sarebbe dovuto dimettere, con lui Mancino; il governo Ciampi e la sua maggioranza precaria, avrebbe dovuto gestire la campagna elettorale senza un presidente della Repubblica e fra Novembre 1993 e Gennaio 1994, Cosa Nostra (così afferma Spatuzza) era in procinto di far esplodere una bomba allo stadio Olimpico di Roma, per “ammazzare un po’ di carabinieri”. A quel punto, per la mafia che era in trattativa con lo Stato, non ci sarebbe stata più alcuna controparte con cui mettersi d’accordo: di fatto, avrebbe avuto lo Stato ai suoi piedi.
Più tardi, nel 1997, Angelo Siino, conosciuto come il Ministro dei Lavori Pubblici di Cosa Nostra, viene arrestato e così comincia il suo rapporto di collaborazione con la giustizia. Le sue dichiarazioni aprono uno squarcio sull’operato del Ros del generale Mori. Il teorema che emerge dalle sue dichiarazioni può essere così riassunto:
- I Mandanti Esterni: l’avversione di cosa nostra nei confronti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino era condivisa da politici e imprenditori che erano in contatto o avevano interessi comuni con l’associazione criminale
- Rapporti con la Politica: alla fine degli anni ’80 il gruppo Ferruzzi-Gardini aveva rilevato tutte le imprese di cosa nostra in Sicilia che avevano difficoltà economiche o che rischiavano il sequestro giudiziale. Nel 1987 cosa nostra avrebbe deciso di convogliare i propri voti verso il PSI in ragione dell’avvicinamento con quel gruppo imprenditoriale
- Martelli, il traditore: Claudio Martelli era considerato da cosa nostra come un traditore per il suo appoggio a Giovanni Falcone. Il trasferimento di Falcone agli uffici ministeriali era visto dai vertici di cosa nostra, come potenzialmente assai nocivo per gli interessi mafiosi
- Cosa Nostra Secessionista: Siino riferisce inoltre di suoi colloqui con Antonino Gioè, sui nuovi assetti di cosa nostra. Gli disse che Leoluca Bagarella avrebbe dovuto incontrare Massimo Berruti, ex ufficiale della Guardia di Finanza che sarebbe stato in contatto con Totò Di Ganci (rappresentante della famiglia di Sciacca), per avviare dei contatti con Craxi […] Gioè avrebbe detto che Bagarella, che stava salendo nella gerarchia di cosa nostra dopo la cattura di Riina creando preoccupazioni anche a Bernardo Provenzano, pensava ad azioni dimostrative eclatanti, come danneggiare la Torre di Pisa. Il Bagarella si sarebbe mosso in accordo con i fratelli Graviano e mantenendo contatti e coperture con i servizi segreti. Berruti avrebbe indicato i possibili obiettivi dinamitardi al Bagarella, lo scopo sarebbe stato quello di favorire il movimento indipendentista siculo “Sicilia Libera” e indirizzare l’opinione pubblica verso la richiesta di un governo forte retto, direttamente o indirettamente, da Craxi.
- Il cambio di politica della mafia: secondo Siino, Giovanni Brusca nel 1994 avrebbe dato inizialmente direttiva di sostenere elettoralmente “Sicilia Libera”, per poi passare ad indicare “Forza Italia”.