Trattativa / Berlusconi: io dalla parte di Napolitano.

Excusatio non petita, accusatio manifesta, si direbbe. Perché Berlusconi si è sentito in dovere di spiegare ai lettori de Il Foglio, in edicola domani, che lui è dalla parte del Quirinale, che sono stati messi in atto brutali tentativi di condizionare il presidente Napolitano dai quali è assolutamente estraneo.

In questi mesi tormentati il Quirinale è stato oggetto di attenzioni speciali e tentativi di condizionamento impropri ai quali sono completamente estraneo, dei quali sono un avversario deciso» «La frittata non è rovesciabile» – Berlusconi al Foglio di Ferrara secondo il Corsera.

E’ estraneo quindi ai tentativi di condizionamento effettuati da chi? A chi si riferisce? A Ingroia? Berlusconi vuol cavalcare il falso scoop di Panorama. Il quale, più che un tentativo di condizionamento, è sembrato un tentativo di vendere qualche copia in più in quanto delle intercettazioni, nelle paginette patinate del settimanale di casa Mondadori, non vi era nessuna traccia nonostante le anticipazioni del giorno prima dicessero l’esatto contrario, fatto che aveva indotto a pensare a un nuovo colpo del Caimano, come quella volta del caso Unipol e dell’esclamazione di Fassino – abbiamo una banca! – finita registrata su un nastro e consegnatagli nottetempo, come una testa mozzata in un cesto.

In realtà Berlusconi non ha alcun timore di metter becco in questa vicenda, anzi, il progetto era proprio questo. L’articolo bluff di Fasanella è un cavallo di Troia tramite il quale Berlusconi incanala il dibattito sulla “brutalità” delle intercettazioni avendo egli il fine unico di smantellare la legislazione in materia. Era tutto pianificato: il falso scoop e Silvio che si dissocia dalle colonne di un altro giornale apparendo come “amico” del Napolitano intercettato e contro i giudici bruti e violentatori. Un vecchio refrain.

Cosa non è funzionato di questa strategia? Diciamolo chiaramente: Berlusconi è un vecchio arnese. E’ lontano dalla scena politica da almeno settanta giorni e il suo partito è in uno stato comatoso. In secondo luogo, la minaccia della rivelazione del colloquio Mancino-Napolitano è come un grosso nuvolone nero, come una piaga, una maledizione, una miseria. Sapere quel che si son detti è di chiaro interesse storico-politico (fors’anche giudiziario). Ma ai fini della salvezza dello Stato e dei conti pubblici, è certamente deleterio. Mettere Napolitano sull’orlo delle dimissioni in un momento in cui già si deve decidere quando andare a nuove elezioni, se a fine legislatura o in anticipo di qualche mese, senza un leader politico degno di questo nome, senza una coalizione di governo presentabile anche all’estero, senza una legge elettorale che garantisca governabilità e rappresentanza e libertà di scelta, è un colpo mortale per questo paese.

In generale l’operazione ‘ricatto’ è stata un fiasco. Il paese non è pronto a sapere la verità sulla trattativa, sul rischio della secessione dello Stato Bordello, della guerra tutta interna al Sisde e quindi al Viminale, e in un certo qual senso sta rigettando questa politica che si guarda alle spalle, su quel passato torbido ancor tutto da decifrare. Vedere che Berlusconi si è riportato con un guizzo sulla scena solo e soltanto per questioni legate alla giustizia e all’uso delle intercettazioni da parte della stampa, mentre è rimasto ben nascosto quando si è trattato di parlare ai minatori del Sulcis o ai lavoratori dell’Alcoa, o ai terremotati dell’Emilia, è un ennesimo indizio della sua proverbiale inaffidabilità (unfit to lead) nel governo del paese.

Ci avviamo verso l’autunno con un tasso di disoccupazione giovanile di circa il 36% con un trend di crescita che in sette mesi potrebbe portarlo sopra i 40 punti percentuali. Una ipotesi drammatica. Non siamo più nel 1992.

Trattativa, l’articolo di Panorama su Mancino-Napolitano è un bluff

panorama – articolo su mancino-napolitano download

“Baggianate!”, scriverebbe Louis Ferdinand Céline. L’articolo di Panorama a firma di Fasanella è un autentico bluff. Le sbandierate “incredibili rivelazioni” sul caso delle intercettazioni delle telefonate intercorse fra Mancino e Napolitano finite nel fascicolo dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia della procura di Palermo sono un temino banalotto che potrebbe esser scritto da “un bambino di quinta elementare” (cfr. Michele Fusco, direttore de Linkiesta, Rassegna Stampa Radiotre). Non sprecate tempo a cercare il presunto scoop: semplicemente non esiste. Non c’è traccia del contenuto delle intercettazioni, si tratta soltanto di interpretazioni del giornalista che trovano conferma – dice lui – negli editoriali dei vari Ezio Mauro e co.

E in un certo senso ciò è un bene: perché se davvero queste trascrizioni possono – nonostante il segreto – esser lette e trascritte da qualsivoglia giornalista, allora si sarebbe aperto un caso politico-giudiziario – l’ennesimo – senza fine. Una manovra simile avrebbe certamente creato il presupposto per una legge bavaglio, proprio ciò che vogliono dalle parti di Arcore.

Imperdibile però il fondo di Vittorio Feltri su il Giornale. Da collezione…

Trattativa, Panorama pubblica intercettazioni e Berlusconi si vendica di Napolitano

Il settimanale Panorama domani pubblicherà una “ricostruzione” delle telefonate tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino intercettate nell’inchiesta della Procura di Palermo sulla trattativa Stato-mafia. Sì, esatto, Panorama, giornale di casa Mondadori, quindi di proprietà di Berlusconi.

“Ricatto al presidente”, questo il titolo sparato in copertina. Si tratterà comunque di una trascrizione, non delle intercettazioni vere e proprie. Molto probabilmente si tratterà soltanto di alcune brevi frasi, condite di molta dietrologia, relative a quanto interessa al direttore di Panorama, quindi a Mondadori, quindi a Berlusconi, rivelare del dialogo fra l’ex ministro degli Interni e il presidente della Repubblica. Secondo Giuliano Ferrara, si tratterebbe di una ricostruzione “molto ben fatta”. Sui giornali, in queste ore, si vocifera di giudizi imbarazzanti su Berlusconi, su Di Pietro, sui giudici di Palermo. Ma il titolo “Ricatto al presidente” indica che c’è dell’altro. I tipi di Panorama pensano che quelle intercettazioni, non rilevanti ai fini dell’inchiesta, siano state usate per ricattare Napolitano. E naturalmente la procura è colei che esercita la pressione indebita sul capo dello Stato.

L’obiettivo di Panorama, quindi di Mondadori, quindi di Berlusconi, è molteplice:

  1. pubblicare il contenuto delle intercettazioni per stimolare nel capo dello Stato e di conseguenza nel Partito Democratico l’intenzione di limitare l’uso di questo strumento di indagine se non di escogitare sistemi di censura della stampa, stile legge bavaglio;
  2. assestare un colpo secco contro la procura di Palermo che pure indaga sulle transazioni avvenute fra Dell’Utri e Berlusconi per il passaggio di proprietà di una villa il cui valore non collima con le somme scambiate, passaggi di denaro ritenuti invece frutto di una estorsione; di fatto si tratta della medesima procura che indaga sulla trattativa e sui fatti del 1993, anno di nascita del partito Forza Italia, ritenuto da una certa vulgata giornalistica, uno degli esiti del patto di scambio fra la corrente mafiosa non stragista di Provenzano, i carabinieri del Ros e le istituzioni della Repubblica allora guidate da Scalfaro/Mancino/Conso;
  3. e infine, vendicarsi di Giorgio Napolitano, l’uomo che, di nascosto, tramando con i capi di governo di Francia e di Germania, ha deposto Berlusconi.

La Trattativa Stato-Mafia secondo Radio Rai

Capita in un pomeriggio assolato di fine Giugno di ascoltare per radio, a distanza di venti anni, il racconto di una delle tragedie che hanno segnato la nascita della Seconda Repubblica. L’ombra e il mistero che rendono opaco il biennio 1992-1993 vengono a sorpresa diradati da una eccellente quanto insolita trasmissione di Radiotre. La Trattativa Stato-Mafia diventa quindi Storia. Una Storia scritta ma che per lo Stato e il suo sistema giudiziario non è vera.

Da riascoltare:

Radiotre – Cuore di Tenebra, La Trattativa

Vincenzo Scotti, l’informativa che annunciava le Stragi di Mafia

Vincenzo Scotti, ex ministro dell’Interno nel 1992, defenestrato da Andreotti nel giro di una notte – si ritrovò senza saperlo, in seguito a un rimpasto di governo “lampo”, ministro degli Esteri – intervistato oggi dal Corriere della Sera, ritorna sulla questione dell’informativa che annunciava le Stragi di Mafia, quel memoriale messo in mano ad un noto depistatore, Elio Ciolini, di cui spesso si è parlato nel corso di questi anni ma che l’indagine giornalistica ha, per così dire, dimenticato.

Su Yes, political! se ne è parlato in questi post:

La destabilizzazione, il progetto politico all’origine della trattativa.

Join the dots. Unisci i puntini. La leggenda del capitano Ultimo, la fiction come antistoria.

Nel 1992-93 l’Italia ha rischiato la secessione dello Stato Bordello

Nel 1992, prima delle stragi e prima delle elezioni, venne pure dato l’annuncio: si preparava una stagione col botto, una stagione in cui le istituzioni sarebbero state messe duramente alla prova in un tentativo di rivoltarle. L’allora ministro dell’Interno, Vincenzo Scotti, diffuse l’allarme alle prefetture e alle questure. Le voci di una imminente destabilizzazione furono messe in giro da tale Elio Ciolini, depistatore professionista. Ciolini compare nell’inchiesta di Antonino Ingroia, “Sistemi Criminali”, poi archiviata, nella quale si fa riferimento a un piano eversivo “finalizzato alla divisione dello Stato condotto dai vertici di Cosa Nostra con la complicità di un Sistema Criminale, composto da massoneria deviata – P2 – da elementi dell’eversione nera e da spezzoni deviati dei servizi segreti”.

La figura di Vincenzo Scotti è centrale in questa vicenda. Scotti è una vittima. E’ un uomo di Stato che cercava di far bene il proprio mestiere. Doveva essere messo da parte, “per il bene supremo dello Stato”. Un concetto di bene che ancor oggi il Quirinale non vuole specificare, che racchiude in sé un segreto che nessuno può riferire, che qualcuno si è portato nella tomba (Scalfaro), che ha ereditato più o meno inconsapevolmente (Ciampi), che infesta ancora gli incubi più reconditi (Mancino e altri).

Perché il Giornale e Libero negano la Trattativa Stato-Mafia

Come spesso accade, anche sul tema della trattativa Stato-Mafia, Il Giornale e Libero hanno titoli simili e propongono interpretazioni altrettanto simili, se non gemelle. La Procura di Caltanissetta ha disposto arresti cautelari per quattro persone e su Libero ci vanno giù duro, facendovi intendere – falsamente? – la sproporzione fra la misura cautelare e il reato, che si è compiuto vent’anni or sono. Così Davide Giacalone non vi dice che tre di queste quattro persone arrestate sono già detenute: Salvatore Madonia, secondo la Procura il mandante della strage; Vittorio Tutino, autore del furto della 126 che fu tramutata in autobomba; il presunto basista Salvatore Vitali e Calogero Pulci, ex pentito. Per Il Giornale, Salvatore Madonia è un “presunto boss”. Il curriculum vitae di questo presunto boss lo potete ascoltare su Radio Radicale:

  1. in qualità di imputato: Processo per l’omicidio dell’imprenditore Libero Grassi
  2. in qualità di testimone: Processo per l’omicidio del giudice Rocco Chinnici (Riina ed altri)
  3. in qualità di imputato: Maxiprocesso a “Cosa nostra”

Secondo Salvo Palazzolo (Repubblica.it) Salvatore o Salvino Madonia è un “capomafia pluriergastolano“, “accusato di aver partecipato nel dicembre 1991 alla riunione della Cupola in cui si decise l’avvio della strategia stragista”. Di presunto non c’è più nulla su un ergastolano, per giunta plurimo. Se vi pare poco.

Secondo Gian Mario Chiocci e Mariateresa Conti, autori del pezzo su Il Giornale, la Procura di Caltanissetta ha alle spalle venti anni di insuccessi e di “innocenti in galera”. Si riferiscono alle false dichiarazioni del pentito Scarantino, che hanno permesso all’epoca ai magistrati di chiudere in fretta e furia l’inchiesta su via D’Amelio. Scarantino viene impiegato dai due giornalisti come argomento contro l’attuale procura di Caltanissetta e non contro i magistrati del 1992, con i responsabili dell’ingiustizia, coloro che imbastirono le accuse false imbeccati da chissà quale fonte “oscura”. Il pentito Scarantino mentiva? Colpa dei magistrati di oggi che pure lo hanno scoperto.

Continua Giacalone: “partiamo dalla fine […] io non faccio indagini e non istituisco processi, ma resto convinto che Borsellino muore, dopo che era stato ammazzato Falcone, perché era un ostacolo all’insabbiamento e dell’archiviazione dell’inchiesta mafia e appalti, immediatamente distrutta dopo la sua morte”. Giacalone ha una teoria e della realtà se ne frega. Ha questa teoria e piega i fatti al servizio del suo intendimento. Tutte balle, il 41 bis non c’entra. Ora, sarà strano ma anche in questo caso l’informazione che vi ha dato il buon Giacalone è incompleta. E, manco a dirlo, è la solita vulgata che circola nei media di destra. Perché allora far saltare il magistrato con una autobomba? Se il movente erano gli appalti, non bastava una pallottola, come peraltro la mafia sapeva fare e ha fatto in tantissime altre circostanze? Ed è altrettanto lampante il disegno stragistico che dal Maggio del ’92 prosegue con le cosiddette ‘stragi sul continente’. Per Giacalone tutto questo è irrilevante. Irrilevante che il ministro dell’Interno del ’92, Vincenzo Scotti, un mese prima di Capaci, disse pubblicamente che era in atto una strategia destabilizzante. Poi, in una notte, fu misteriosamente deposto da Andreotti. Ma Giacalone spiega l’attentato in stile Beirut in via D’Amelio con il fatto isolato dell’inchiesta mafia e appalti. Poi c’è quell’intervista, l’ultima, quella in cui Borsellino parla per la prima volta dei ‘cavalli’ di Mangano e di un flusso di denari che passava dalla Sicilia in direzione Nord. Naturalmente nessuna traccia. Nessuna menzione su questo fatto. Invece Chiocci e Conti, su Il Giornale, abbozzano una teoria comportamentista su Borsellino: se Borsellino sapeva della Trattativa, allora perché non la denunciò, “perché non la tradusse in atti formali, come era suo costume?” Se dubitava del capo del Ros, Subranni – disse alla moglie che era punciutu – perché continuò a lavorare insieme a lui fianco a fianco sino all’ultimo giorno? Subranni era il comandante dei Ros ed era il diretto superiore del colonnello Mario Mori, l’ufficiale – poi diventato capo dei servizi segreti nel penultimo governo Berlusconi – che è a processo a Palermo (con il colonnello Mauro Obinu) per avere favorito Provenzano in una latitanza lunga quarantatré anni.

Secondo il testimone d’accusa, colonnello Michele Riccio, smentito e querelato dai denunciati, furono Mori e Obinu ad avergli impedito di catturare Provenzano in un casolare di Mezzojuso (PA), indicato dal mafioso suo confidente Luigi Ilardo, poi assassinato da “cosa nostra” subito dopo aver accettato di collaborare con la giustizia (cfr. Wikipedia alla voce Mario Mori).

Mentre su Il Giornale viene dato qualche credito alla vicenda dell’ammorbidimento del 41 bis, il regime di carcere duro, giustapposta per insinuare dubbi sulla condotta dell’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e sul ministro della Giustizia Giovanni Conso, certamenti non immuni da ombre – Conso ha dichiarato di aver “autonomamente” disposto nel 1993 la sospensione del 41 bis a circa quattrocento detenuti mafiosi – su Libero viene contestato apertamente al teorema del 41 bis un certo grado di illogicità. Poiché la trattativa sul carcere duro giustifica la strage di Via D’Amelio e non l’attentato di Capaci. Allora perché ammazzare Falcone e moglie con tutta la scorta, facendo esplodere una autostrada? Il carcere duro, spiega Giacalone, fu imposto dopo la morte di Falcone, e non prima. Perché intavolare una trattativa anzitempo? Giacalone difetta di inquadramento storico: siamo nel 1992, ok? E’ morto Lima, ammazzato per strada. E’ quello il casus belli fra mafia e politica. E’ la ‘goccia che fa traboccare il vaso’. Al nord si affacciava una nuova forza politica, la Lega Nord, federalista e secessionista, il peso dei partiti tradizionali stava diminuendo, Mani Pulite sarebbe iniziata da lì a poco. Al Sud era tutto un proliferare di strane Leghe meridionaliste, con dietro le quinte personaggi ambigui come Licio Gelli. L’omicidio Lima è stato un atto di guerra. La guerra Stato-Mafia presupponeva una trattativa di pace. Un trattato di non belligeranza. La sensazione che dietro quelle stragi e tentate stragi non ci fosse solo la mafia rimane sempre molto alta, al di là delle dichiarazioni dei pentiti. Ciò che sorprende è il silenzio e i “non ricordo” dei protagonisti della politica del biennio  ’92-’93. Il Giornale e Libero non si spingono più in là delle loro tesi e, a parte sospettare di Scalfaro e Ciampi, nulla dicono del sospetto che la Seconda Repubblica – la variante videocratica della Prima Repubblica – sia il frutto malato di quella trattativa – l’opera ingegneristica di un gruppo di pavidi signori scesi a compromessi con la controparte mafiosa.

Per approfondire:

http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=1BW173

http://rassegna.camera.it/chiosco_new/pagweb/immagineFrame.asp?comeFrom=rassegna&currentArticle=1BW154

Trattativa Stato-Mafia, parla Brusca e Ciancimino non serve più

Le dichiarazioni di Giovanni Brusca, lo sporco assassino del piccolo Di Matteo, decretano l’inutilità del dibattito sull’attendibilità di Ciancimino. Brusca confessa di aver contattato personalmente Dell’Utri tramite Mangano, di averlo avvertito delle bombe. Siamo a metà del 1993 e Berlusconi non è ancora “sceso in campo”: Brusca avvisa Dell’Utri che “senza revisione del maxiprocesso e del 41 bis le stragi sarebbero continuate”. Perché avvisare personaggi estranei al mondo della politica? Forse perché questi stavano preparando un progetto politico e erano in cerca di “adesioni”. Il progetto politico doveva servire a gestire la transizione dal vecchio sistema di referenze a quello nuovo, dal mondo andreottiano a quello post-DC, post Salvo Lima, eccetera. Brusca ha ricordato che Riina era colui che gestiva in prima persona la trattativa, che il papello fu consegnato già nel 1992, dopo la strage di Capaci e prima di Via D’Amelio, “mi fece il nome del committente finale”, ha detto. Il suo nome è quello dell’allora ministro dell’Interno: Nicola Mancino. C’è stato un prima e un dopo: fino a Capaci era la vendetta della Mafia contro il Maxi Processo e il suo artefice principale. Dopo è “trattativa”.

Così sul Corsera:

Brusca ha raccontato infatti che fino all’attentato di Falcone l’obiettivo di Riina era di influenzare il maxi-processo di mafia a Palermo. In seguito, sarebbero subentrati Marcello Dell’Utri e Vito Ciancimino che volevano «portare» a Riina la Lega e un altro soggetto politico. «In un primo tempo Riina era titubante e anch’io gli chiedevo se ci fossero novità -ha dichiarato Brusca-. Fino all’ultimo attentato Riina pensava di condizionare il maxi-processo». Ma poi, ha concluso, sarebbero subentrati,«dei soggetti indicati in Marcello Dell’Utri e Vito Ciancimino che gli volevano portare la Lega e un altro soggetto che non ricordo» (Corriere della Sera.it).

Ciancimino, lo scenario inquietante

Nessuno spende più una parola per Massimo Ciancimino. Nessuno dei padri dell’antimafia. Nessuno. Il fatto, la falsificazione del documento che recava il nome di De Gennaro come uno dei super poliziotti mafiosi, è dato per certo. La perizia pare non lasci spazio a dubbi. I magistrati che ne hanno disposto l’arresto sono anche coloro i quali hanno assegnato alle parole di Ciancimino un certo grado di credibilità. Hanno, su di esse, costruito teoremi accusatori. Hanno formulato – anche grazie ad esse – una teoria che è detta della ‘trattativa Stato-Mafia’. Si dice oggi che il falso e la calunnia non minano più di tanto l’impianto del teorema, che poggia invece su dichiarazioni di altri pentiti, su fatti ricostruiti seppur con difficoltà, su qualche pizzino passato dallo stesso Ciancimino e ritenuto autentico.

Li Gotti (IDV) si è così espresso: “‘La calunnia di Massimo Ciancimino in danno del prefetto Gianni De Gennaro, documentalmente costruita su un chiaro falso, apre uno scenario inquietante”. Si sospetta, e sono gli stessi magistrati a dirlo, che alcune dichiarazioni del pentito Ciancimino, e quindi anche questo documento esibito come opera del padre, siano stati ispirati da qualcuno che ha interesse a usare Ciancimino medesimo come un’arma. Lui, che si è guadagnato credibilità per le sue rivelazioni, potrebbe esser stato messo nelle condizioni di dover truccare quel foglietto. Potrebbe.

“Il prefetto De Gennaro, da direttore della DIA, nel 1993 manifestò contrarietà alla revoca dei 41 bis e nelle valutazioni sulle ragioni dello stragismo ipotizzo’ la sinergia dello stragismo con la ricerca di nuova interlocuzione con il soggetto politico emergente, dopo la dissoluzione dei partiti della prima repubblica”, ci ricorda Li Gotti. Se qualcuno ha pensato di costringere Ciancimino – con la minaccia – alla calunnia, perseguiva un obiettivo fondamentale, quello di screditare l’accusa. Minare la validità delle dichiarazioni di Ciancimino, colpendo un prefetto sostanzialmente integerrimo, se si escludono i fatti di Genova del 2001, per abbattere tutto il teorema della trattativa.

E’ notizia di qualche ora fa che è stato ritrovato dell’esplosivo nell’abitazione di Ciancimino. Ciancimino potrebbe essere stato messo così alle corde per mezzo del ricatto, da non dargli alcuna scelta: mentire per salvare i figli.

Ciancimino ha svelato di avere ricevuto nei giorni scorsi un pacco bomba. “L’ho sotterrato nel giardino della mia casa di Palermo – ha detto – avevo timore che questa ennesima minaccia mi si rivoltasse contro e si dicesse che l’avevo costruita io” (La Repubblica.it).

Sembra tutto studiato a tavolino. Solo qualche mese fa erano uscite intercettazioni su Ciancimino intento a riciclare denaro da un malavitoso in Veneto. Perché avrebbe dovuto farlo? Ciancimino ha già sulla testa una condanna per il medesimo reato. Aveva un così disperato bisogno di denaro? Per ultimo, ma comunque come un orologio svizzero, il tritacarne del PdL si è messo in moto:

MAFIA: GASPARRI, DOPO CIANCIMINO INIZIATIVA PDL SU USO PENTITI

MAFIA: CICCHITTO (PDL), CIANCIMINO FA GLI AFFARI SUOI

Quanto contenuto in questo post è un’ipotesi. Come ipotesi sono le ricostruzioni de Il Giornale e di Libero. Qualcuno invece pensa che l’arresto sia stato un’iniziativa personale di Ingroia al fine di sottrarre Ciancimino alla procura di Caltanissetta, che lo indaga per il medesimo reato. Ingroia conterebbe poi di riabilitare Ciancimino in un secondo momento.
Dove la verità? Lui, Massimo Ciancimino, passa alla storia con il soprannome di sfinge. In lui bene e male si confondono fino a perdere di senso. Figlio partecipe delle pratiche mafiose del padre sindaco del Sacco di Palermo, sembra guadagnare le stigmate dell’atimafia in virtù della sua collaborazione con i giudici. Ma che stillicidio di dichiarazioni e mezze dichiarazioni prima di arrivare al famoso papello. In tutta questa storia, Ciancimino sembra vittima di sé stesso, vittima del nome e del sospetto che sempre si porterà dietro.

Stragi del 1993: quando il Viminale preparava la guerra contro lo Stato Bordello

La cartina d’Europa che vedete era stata pubblicata un po’ provocatoriamente qualche mese fa da The Economist. Era posta a corredo di un articolo in cui si prefigurava la futura divisione dell’Europa. Spicca la divisione dell’Italia in due paesi, uno a Nord con capitale Venezia; l’altro a sud con capitale Roma. A dividerli, i due neo-stati, addirittura un canale, non si sa se soltanto politico o addirittura geografico. Da notare che lo stato del Nord conserva il nome Italia. Significa che a Nord rimarrebbe l’autorità legittima, quella che si è creata con il referendum del 1946 e la costituzione del 1948. Per intenderci, gli espertoni dell’Economist non prevedono la secessione della Padania, bensì di quella del Meridione, nella cartina chiamato Bordello. Qualcosa di simile girava su un volantino negli anni ottanta. Qualcosa di simile era stato ipotizzato nel 1993 dalle Forze Armate. Era il 9 o l’11 di Novembre 1993, giorni di scandali, di tensione politica con la Lega Nord, di terremoti istituzionali che rischiavano di far decapitare la Repubblica con le dimissioni sfiorate di Scalfaro, bersagliato dalle rivelazioni sconvolgenti dei funzionari corrotti del Sisde, come l’ex Malpica:

in questo scenario di Italia divisa “Il Corriere della Sera” pubblica la notizia dell’esercitazione che tenne impegnati tra il 9 e l’ 11 novembre scorso prefetture e questure di Lombardia, Piemonte e Liguria e il comando della Regione militare di Nord Ovest. Poco più di un mese fa, in un clima politico arroventato, nei giorni in cui la Lega predicava ipotesi di secessione, qualcuno fra il Viminale e via XX Settembre pensò di mettere alla prova, non sul campo, ma a tavolino, una ipotesi di guerra civile. Col Nord regione ricca e stabile, attaccata dal Sud, coacervo di forze instabili e povere. Il Nord resiste all’attacco, i cattivi sono respinti oltre “confine” (Il Viminale e la Guerra Civile – Archivio Repubblica.it).

Era la prima volta che l’Esercito simulò uno scenario di guerra civile. L’evento diventò pietra d’appoggio nel teorema contenuto in un’inchiesta della Procura di Palermo, condotta dai pm Antonino Ingroia e Roberto Scarpinato, intitolata “Sistemi Criminali”. E’ l’analisi alla base dei procedimenti contro il generale Mori e il capitano De Donno dell’Arma dei Carabinieri, accusati di aver trattato con Cosa Nostra. L’ipotesi di fondo del dossier «Sistemi Criminali» è che “negli anni ’91, ’92 e ’93 sia stato messo in atto un tentativo di destabilizzare l’Italia, una sorta di «golpe» proveniente dal Sud senza carri armati, attraverso la strategia stragista di Cosa Nostra che sarebbe andata a «perfezionare» lo squasso istituzionale provocato dalle inchieste sulla corruzione del pool di Milano” (La Licata – Archivio La Stampa.it). Questo blog ha già trattato l’argomento qualche tempo fa riflettendo sulle parole dello stesso Scarpinato rilasciate a Luglio a Il Fatto Quotidiano. Successivamente in un altro post si prendeva in esame la devianza del Sisde e si definiva il quadro politico-istituzionale di quegli anni. Si accennava, in coda al post, allo scandalo dei Fondi Neri del Sisde. Sul web si trova una riduzione di un documento opera di Carlo Bonini, giornalista di La Repubblica, il quale, attaverso le parole di  Francesco Misiani, magistrato e fondatore di Magistratura Democratica, morto nel 2009 a 73 anni, mette in chiaro il ruolo dei magistrati “rossi” nel salvataggio di Scalfaro e Mancino, secondo l’interpretazione che prevalse, al centro di un attacco istituzionale volto a decapitare l’ordine democratico. Ecco il documento:

Fondi Neri del Sisde, perché non si è mai fatta davvero chiarezza

Si opponeva il fronte che aveva alla sua testa Magistratura democratica e i suoi esponenti di spicco all’interno del Palazzo, come Giovanni Salvi e Pietro Saviotti. Non saprei dire se numericamente maggioritario, ma certo dal forte peso specifico ai fini della decisione. La convinzione “pregiuridica” era che i cinque del Sisde fossero iscritti a un’operazione diretta a pilotare gli esiti dell’inchiesta verso un approdo politico che avrebbe trascinato le istituzioni e il paese nel marasma e nel discredito. E che pertanto l’operazione andava soffocata sul nascere.

Pensate cosa sarebbe accaduto se nella procura fosse prevalso l’orientamento deciso a voler andare a fondo nell’inchiesta: Scalfaro si sarebbe dovuto dimettere, con lui Mancino; il governo Ciampi e la sua maggioranza precaria, avrebbe dovuto gestire la campagna elettorale senza un presidente della Repubblica e fra Novembre 1993 e Gennaio 1994, Cosa Nostra (così afferma Spatuzza) era in procinto di far esplodere una bomba allo stadio Olimpico di Roma, per “ammazzare un po’ di carabinieri”. A quel punto, per la mafia che era in trattativa con lo Stato, non ci sarebbe stata più alcuna controparte con cui mettersi d’accordo: di fatto, avrebbe avuto lo Stato ai suoi piedi.

Più tardi, nel 1997, Angelo Siino, conosciuto come il Ministro dei Lavori Pubblici di Cosa Nostra, viene arrestato e così comincia il suo rapporto di collaborazione con la giustizia. Le sue dichiarazioni aprono uno squarcio sull’operato del Ros del generale Mori. Il teorema che emerge dalle sue dichiarazioni può essere così riassunto:

  • I Mandanti Esterni: l’avversione di cosa nostra nei confronti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino era condivisa da politici e imprenditori che erano in contatto o avevano interessi comuni con l’associazione criminale
  • Rapporti con la Politica: alla fine degli anni ’80 il gruppo Ferruzzi-Gardini aveva rilevato tutte le imprese di cosa nostra in Sicilia che avevano difficoltà economiche o che rischiavano il sequestro giudiziale. Nel 1987 cosa nostra avrebbe deciso di convogliare i propri voti verso il PSI in ragione dell’avvicinamento con quel gruppo imprenditoriale
  • Martelli, il traditore: Claudio Martelli era considerato da cosa nostra come un traditore per il suo appoggio a Giovanni Falcone. Il trasferimento di Falcone agli uffici ministeriali era visto dai vertici di cosa nostra, come potenzialmente assai nocivo per gli interessi mafiosi
  • Cosa Nostra Secessionista: Siino riferisce inoltre di suoi colloqui con Antonino Gioè, sui nuovi assetti di cosa nostra. Gli disse che Leoluca Bagarella avrebbe dovuto incontrare Massimo Berruti, ex ufficiale della Guardia di Finanza che sarebbe stato in contatto con Totò Di Ganci (rappresentante della famiglia di Sciacca), per avviare dei contatti con Craxi […] Gioè avrebbe detto che Bagarella, che stava salendo nella gerarchia di cosa nostra dopo la cattura di Riina creando preoccupazioni anche a Bernardo Provenzano, pensava ad azioni dimostrative eclatanti, come danneggiare la Torre di Pisa. Il Bagarella si sarebbe mosso in accordo con i fratelli Graviano e mantenendo contatti e coperture con i servizi segreti. Berruti avrebbe indicato i possibili obiettivi dinamitardi al Bagarella, lo scopo sarebbe stato quello di favorire il movimento indipendentista siculo “Sicilia Libera” e indirizzare l’opinione pubblica verso la richiesta di un governo forte retto, direttamente o indirettamente, da Craxi.
  • Il cambio di politica della mafia: secondo Siino, Giovanni Brusca nel 1994 avrebbe dato inizialmente direttiva di sostenere elettoralmente “Sicilia Libera”, per poi passare ad indicare “Forza Italia”.

Sentenza Dell’Utri: i passi salienti sul pentito Spatuzza. Nessun diritto alla protezione

La sentenza di appello Dell’Utri ha messo in forte pregiudizio la credibilità del pentito Gaspare Spatuzza, il manovale delle stragi, l’uomo che rubò la cinquecento di Via D’Amelio e la caricò di tritolo, l’uomo che afferma di aver visto in quei frangenti, ovvero mentre imbottiva la vettura che ha ucciso Borsellino di esplosivo, un agente dei servizi segreti, individuato con estrema difficoltà nell’agente Sisde Narracci. Ebbene, i giudici della Corte di Appello di Palermo hanno tracciato uno schema argomentativo che critica l’uso delle dichiarazioni di Spatuzza e ne pone in evidenza due aspetti fondamentali che ne inficiano la veridicità:

  • la limitata se non insussistente consistenza nonché la manifesta genericità;
  • la colpevole tardività.

La genericità delle accuse di Spatuzza:

  1. [Incontro al Bar Doney di Roma con Graviano] fino a quel momento non aveva mai sentito neppure nominare Dell’Utri che pertanto era – e rimase – un perfetto sconosciuto non avendo chiesto alcunchè al suo interlocutore (pag.55: “PM: … All’epoca aveva mai sentito nominare l’odierno imputato Dell’Utri ? Spatuzza: No, no, mai. PM: E non chiese nulla a Graviano Giuseppe, <<ma chi è questo Dell’Utri>> ? Spatuzza: No, questo non lo chiesi”)
  2. anni dopo i fatti riferiti, nel 1999, mentre si trovava detenuto al carcere di Tolmezzo con i fratelli Graviano, aveva avuto modo di commentare con Filippo Graviano i discorsi che in quel periodo circolavano tra i carcerati riguardo ad una possibile dissociazione da cosa nostra […] Nell’occasione Flippo Graviano gli aveva fatto capire che la cosa non
    poteva interessare perché i magistrati non potevano dare nulla mentre “tutto deve arrivare dalla politica”
  3. richiesto di chiarire se egli avesse capito il senso di questa frase e da dove sarebbe dovuto arrivare qualcosa, Gaspare Spatuzza ha riferito che, sulla base delle parole pronunciate da Flippo Graviano, egli aveva subito capito che si riferiva a quanto egli aveva sentito dire nel colloquio del bar Doney ormai quasi 11 anni prima;
  4. frutto solo di una mera deduzione non avendo egli, dopo le poche criptiche parole di Filippo Graviano, rivolto alcuna domanda al suo interlocutore con il quale peraltro ha espressamente escluso di avere parlato, in questa o in altre occasioni, di Berlusconi o Dell’Utri, né soprattutto dell’incontro del bar Doney con il di lui fratello Giuseppe
  5. Spatuzza ha infatti dichiarato che non rivolse alcuna ulteriore domanda al Graviano, né al bar Doney, nè in auto durante il successivo viaggio da Roma a Torvaianica e ritorno, per cercare di comprendere a cosa il capomafia di Brancaccio facesse riferimento e quali fossero soprattutto i fatti che legittimavano una tale “euforica” convinzione.
  6. la pretesa euforia che animava il capomafia di Brancaccio per avere ormai “il paese nelle mani” grazie alla serietà delle persone che ciò avevano voluto e consentito, era destinata a svanire subito se proprio quello stesso Giuseppe Graviano, appena qualche giorno dopo quelle tanto entusiastiche quanto infondate previsioni, è stato arrestato a Milano assieme al fratello Filippo

La tardività delle dichiarazioni ai pm

  • oggettivo ed ingiustificato ritardo con cui i pochi fatti riferiti alla Corte erano stati dallo Spatuzza portati a conoscenza dell’A.G. nel corso delle indagini, ben oltre il termine dei 180 giorni che la legge sui collaboratori impone per riferire le notizie relative ai “fatti di maggiore gravità ed allarme sociale”
  • da quando ha formalmente manifestato l’intenzione di collaborare il 26 giugno 2008 […] Gaspare Spatuzza ha dolosamente taciuto quanto egli ha poi affermato di sapere riguardo all’incontro del bar Doney e soprattuto alla grave confidenza ricevuta da Giuseppe Graviano sul conto dell’odierno imputato e di Silvio Berlusconi
  • ha cercato in vario modo di spiegare l’evidente omissione affermando di non averne parlato volutamente in quanto si era espressamente “riservato” di farlo solo nel momento in cui gli fosse stato accordato il programma di protezione, dunque in palese violazione comunque della legge
  • lo Spatuzza vuol accreditare l’insostenibile tesi secondo cui, parlando di tabelloni pubblicitari e dei Graviano, egli aveva già effettuato un riferimento, non esplicito ma sottinteso, a Marcello Dell’Utri che sarebbe stato agevole rinvenire analizzando i pretesi “indizi” da lui “seminati”

La menzogna

  • già a novembre del 2008 lo Spatuzza aveva fatto il nome di Silvio Berlusconi, rivelandosi dunque falsa l’affermazione fatta alla Corte secondo cui egli prima del giugno 2009 non aveva voluto parlare dei politici […] Il verbale è quello del 9 luglio 2008, siamo ancora a ben … un anno quasi, prima del 16 giugno 2009, quando … pag.14 del verbale riassuntivo, a domanda risponde, parlando dell’episodio dell’incontro di Campofelice di Roccella [con i Graviano], a domada risponde: <<Né nel corso del colloquio a Campofelice di Roccella, né in altre circostanze, Graviano Giuseppe mi ha mai precisato chi o quali fossero i suoi eventuali contatti>>

Conclusioni:

  • Nel caso in esame deve ritenersi provato oltre ogni possibile dubbio che Gaspare Spatuzza ha volontariamente taciuto “notizie e informazioni processualmente utilizzabili su … fatti o situazioni … di particolare gravità” che erano a sua conoscenza attestando invece formalmente il contrario in seno al “verbale illustrativo dei contenuti della collaborazione” da lui sottoscritto, condotta da cui deriva, secondo l’inequivoco contenuto della legge sopra richiamato, il divieto di concessione delle misure di protezione ovvero, se già accordate, la loro revoca

Ma la tardività delle dichiarazioni di Spatuzza può essere presa come fattore di pregiudizio della veridicità delle stesse? Forse Spatuzza ha difettato di precisione. Si è rivelato essere poco informato, anche in virtù del fatto che era più che altro un manovale della mafia, un assassino specializzato in stragi. Tant’è che lui non conosce nemmeno Dell’Utri e deve chiedere a Graviano se quel Berlusconi fosse veramente quello di Canale 5. La vaghezza delle sue rivelazioni è legata alla sua posizione gerarchica in Cosa Nostra: egli sa, ma non conosce. L’episodio del cartello pubblicitario da abbattere, che lui verifica su indicazione di Graviano esser stato realmente abbattuto, lui lo riconduce a Dell’Utri soltanto in quanto il Dell’Utri era ai vertici di Publitalia, ergo interessato di pubblicità. Eppure analisi e retroanalisi giornalistiche avevano costruito ipotesi su quel cartellone pubblicitario che interessava Dell’Utri: si era detto che fosse il cartellone pubblicitario del primo esperimento politico di Dell’Utri medesimo, quel Forza Italia! Sicilia Libera che forse nei progetti doveva essere il referral politico di Provenzano, di chiara impronta regionalista e secessionista, l’alter ego della Lega Nord, e che invece divenne un partito nazionale destinato a governare (con alcune brevi parentesi) il paese per i susseguenti quindici anni.

E qui ritorna l’intervista, ripresa da questo blog, a Calogero Mannino: Mannino, forse per primo, negò che le stragi fossero soltanto opera della mafia – Riina non ne è capace, disse; ipotizzò l’esistenza di un piano militare e di uno politico-finanziario; legò la fase di destabilizzazione del 1992-93 all’esistenza di un vuoto politico “da riempire”. E guarda caso, già nel 1992, come spiegava Ezio Carlo Cartotto – ex manager Fininvest – ai pm Tescaroli, Gozzo e Palma in due deposizioni datate Giugno 1997:

Nel maggio-giugno 1992 sono stato contattato da Marcello Dell’Utri perché lo stesso voleva coinvolgermi in un progetto da lui caldeggiato. In particolare Dell’Utri sosteneva la necessità che, di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo Fininvest, il gruppo stesso “entrasse in politica” per evitare che una affermazione delle sinistre potesse portare prima ad un ostracismo e poi a gravi difficoltà per il gruppo Berlusconi (L’Odore dei Soldi, di Elio Veltri e Marco Travaglio, Origini e misteri delle fortune di Silvio Berlusconi, Editori Riuniti).

Dell’Utri inaugura il progetto nel maggio-giugno 1992. Il “crollo degli ordinari referenti politici del gruppo” per opera dell’inchiesta Mani Pulite era appena avviato. Nessuno allora poteva ipotizzare che la DC e il PSI sarebbero scomparsi. Fino all’aprile 1992, Mario Chiesa era un semplice “mariuolo” (definizione che fu di Craxi); Falcone sarebbe saltato in aria a Maggio, durante il voto per il Presidente della Repubblica (una congiura della mafia/massoneria contro Andreotti?); Borsellino venne ucciso a Luglio. Mentre accadeva questo, Dell’Utri operava per creare un contenitore politico a beneficio degli interessi di Fininvest, contro l’ascesa delle Sinistre, ritenute un pericolo per l’azienda. A settembre 1992 si tenne la convention dei manager Fininvest a Montecarlo, nel corso della quale Berlusconi fece il suo primo discorso politico: “I nostri amici che ci aiutavano, contano sempre di meno; i nostri nemici contano sempre di più; dobbiamo prepararci a qualsiasi evenienza per combatterli” (rivelando una indiscussa propensione per le categorie amico-nemico, ritenute dalla politologia contemporanea come il fondamento della guerra, del conflitto e della divisione, più che della politica). Poi le stragi del ’93, la guerra del Sisde che voleva decapitare lo Stato, la preparazione di nuove elezioni e il vox populi sul nuovo partito-azienda di Berlusconi. Tutto in una precisa scansione temporale che per ora è possibile solo definire come “coincidenza”.

In ultima istanza, resta estremamente critica l’interpretazione data dalla Corte d’Appello di Palermo circa la delusione dei mafiosi per le aspettative riversate nel partito Forza Italia, in virtù delle posizioni garantiste manifestate in campagna elettorale, andate invece deluse:

Deve tuttavia registrarsi, all’esito dell’esame delle dichiarazioni di Maurizio Di Gati, che comunque anche da tale collaboratore proviene la conferma del fatto che in cosa nostra, pur dopo l’impegno sostenuto a favore di Forza Italia nel 1994 (senza che il collaborante sia a conoscenza di pretese garanzie ed impegni dati in cambio del sostegno elettorale: pag.21 esame), erano diffusi alla fine degli anni ’90 i malumori degli uomini d’onore che, a fronte di sperati ed attesi interventi legislativi di favore da parte del governo di “centro-destra”, si ritrovavano invece a subire una legislazione sempre più sfavorevole come nel caso della trasformazione in legge del regime detentivo del 41 bis (pag.13 esame: “La lamentela nostra è stata, come abbiamo votato tutti per fare salire il Centro-Destra, e adesso ci stanno mettendo il 41 bis? Ce lo stanno confermando come legge ? La promessa era che il 41 bis veniva, anche se veniva confermato come legge, veniva più agevolato nel senso del regime carcerario”).
Emerge dunque con evidenza che si cominciò a diffondere tra gli appartenenti all’associazione mafiosa una crescente delusione perché le aspettative di una legislazione che si riteneva sarebbe stata più favorevole da parte di un governo di “centro-destra”, fondate o meno che fossero su pretesi ma in realtà non provati impegni specifici assunti da esponenti politici e soprattutto, per quel che qui interessa, dall’imputato Marcello Dell’Utri, risultavano del tutto smentite dalla constatazione oggettiva di un progressivo inasprimento dell’azione di contrasto alla mafia che lo Stato e le sue articolazioni istituzionali, al di là delle contingenti e mutevoli maggioranze di governo, hanno voluto e saputo complessivamente e costantemente realizzare (Sentenza d’Appello Processo Del’Utri, p. 516).

La domanda è la seguente: può un Tribunale, una Corte d’Appello dare una valutazione della politica in fatto di antimafia di un governo? la constatazione oggettiva è tale poiché proviene dall’interno di Cosa Nostra? Ma non è una mera deduzione, questa?

Stragi del 1993, quando Mannino ipotizzava la mano dei Servizi Segreti

Il 27 Maggio 1993 avvenne l’attentato di Via Dei Georgofili. Cinque furono i morti. Il giorno dopo sui giornali compaiono le dichiarazioni dei politici, del Presidente del Consiglio, Ciampi, del Presidente della Repubblica Scalfaro, del Ministro degli Interni Mancino. Il quale, in una maniera un po’ enigmatica, giunge a ipotizzare la mano della mafia dietro alla strage. Perché, incalzano i giornalisti. E lui, sibillino: “chi capisce quello che è successo qui, capisce l’Italia”.

La Stampa, 28.05.1993, prima pagina

Senza indugi, Mancino dice chiaramente, qualche ora dopo l’attentato, che si tratta dell’opera della mafia. La mafia vorrebbe sviare l’attenzione da “quanto sta accadendo a Palermo e ovunque operi la criminalità organizzata, perché la mafia è dappertutto”. Mentre invece Piero Luigi Vigna dubita di questa ricostruzione: parla di “strategia terrorizzante” più che di mafia. La strage verrà poi rivendicata dal sedicente gruppo chiamato Falange Armata. Lo stesso giorno, l’inchiesta sulla strage di Via D’Amelio fa un grosso passo in avanti: viene arrestato Pietro Scotto, il telefonista di Via D’Amelio secondo la ricostruzione fasulla della prima inchiesta dei giudici di Caltanissetta, quella realizzata con la regia occulta di Arnaldo La Barbera e forse di Giovanni Tinebra. Una coincidenza che solo oggi possiamo considerare “strana”.

Accanto alle dichiarazioni di Mancino, la Stampa pubblicò una intervista all’esponente della DC siciliana Calogero Mannino, ai tempi un pezzo forte della politica italiana, avversario della corrente andreottiana che fu di Salvo Lima. La sua e quella di Vigna erano le uniche voci discordanti rispetto alla ricostruzione ufficiale fatta dal Ministro Mancino. Il giorno dopo, Mancino già sapeva che si trattava di mafia. Oggi sappiamo della trattativa Stato-Mafia, sappiamo dell’esistenza di mandati occulti, dell’esistenza di un livello militare stragista e di un livello politico e finanziario che finora non è stato svelato. Mannino, a sua volta accusato di mafia dai pentiti e assolto solo dopo una travagliatissima battaglia giudiziaria, a quel tempo indicò prima di altri l’evidenza di una sproporzione fra le capacità di Riina e la devastazione provocata dall’esplosione in Via Dei Georgofili. Le sue parole, raccolte da un allora promettente abile cronista di nome Augusto Minzolini, acquistano oggi una valenza diversa, quasi profetica:

Mannino: ma quali boss

«Il complotto viene dall’Est Riina non ne avrebbe le capacità»

ROMA. «E adesso non mi vengano a dire che questa bomba l’ha messa la mafia di Toto Riina. Anzi, a questo punto dubito anche sulla matrice mafiosa degli omicidi di Lima, Falcone e Borsellino». Seduto su una poltrona di Montecitorio, Calogero Mannino, ex-ministro dell’Agricoltura e primo attore della DC siciliana, si lascia andare ad un serie di congetture sulla bomba di Firenze. Sarà l’emozione per quello che è avvenuto, o, il fatto, di aver tenuto in corpo per tanti mesi questo sfogo, ma Mannino parla senza pausa e dalla sua bocca, come da un fiume in piena, esce di tutto.

Lei ha davvero dubbi sul fatto che non c’entri la mafia?

«Io dietro alla bomba di Firenze vedo ben altro. E, se non sbaglio, tra le minacce ricevute all’epoca da Falcone c’era anche quella della falange armata. La verità è che gli assassinii che ci sono stati in Sicilia hanno messo in ginocchio la DC o il sistema di potere andreottiano. E non è cosa da poco conto: in Italia quello che è avvenuto può essere paragonato alla caduta del muro nei Paesi comunisti. Quindi chi l’ha fatto deve avere degli obiettivi ben più grandi di quelli della mafia. Solo che dopo aver fatto fuori i partiti di governo, nessuno si è fatto avanti per prenderne il posto».

E allora?

«Proprio per questo si possono fare solo delle ipotesi su chi muove i fili dell’intera vicenda. Può esserci in atto, ad esempio, un’utilizzazione di servizi segretti deviati, ad opera di altri Paesi. O, ancora, bisogna vedere chi si muove dietro alla Serbia. Ed ancora, si dice che in Russia i comunisti si stanno riorganizzando e la stessa cosa sta facendo l’esercito. Infine bisogna fare un discorso un po’ più complesso sulla mafia…».

Si spieghi.

«Ma lei crede davvero che un personaggio come Toto Riina possa stare dietro a tutto questo? Suvvia, al massimo quello può fare ridere o, come succede a me, può far girare le scatole. La verità, secondo me, è che esiste un apparato militare molto efficiente e, poi, una mente politico-finanziaria, che non si trova certo in Italia. E questi due livelli si incontrano raramente: o meglio, nei momenti importanti la mente finanziaria ordina all’apparato militare quello che deve fare».

Ma lei crede davvero a queste sue ipotesi, non le paiono un po’ azzardate?

«Senta, le faccio una domanda: perché Giuliano i carabinieri lo hanno trovato morto, mentre Riina è stato trovato vivo? La verità è che Riina si è sganciato. Fatto il lavoro che gli era stato commissionato si è sganciato».

Ma quale interesse potrebbe avere quell’«entità» che, secondo lei, starebbe dietro a tutto questo?

«Non vogliono avere a che fare con un governo degno di questo nome. Quello attuale è come se non ci fosse. Sono passate due settimane e vedete, non esiste. E non avere a che fare con un governo significa tante cose: ad esempio da la possibilità di comprare i beni dello Stato a pochi soldi. E se, poi, si arrivasse a provocare una divisione dell’Italia in due, qualcuno potrebbe ricavarne altri vantaggi. Potrebbe, ad esempio, disporre senza problemi, di basi militari dell’Italia meridionale di grande importanza strategica, come Fontanarossa e Comiso. Sì, potrebbe usarle come vuole, a proprio piacimento, senza rischiare incidenti diplomatici con il governo italiano come è avvenuto a Sigonella. Le mie, comunque, sono solo ipotesi che partono, però, da una convinzione».

Quale?

«Tutto quello che sta avvenendo pone una questione: qualcuno insidia la nostra sovranità nazionale».

Secondo lei siamo a questo punto?

«Ci siamo e nessuno se ne rende conto. Ad esempio, i giudici hanno fatto il loro lavoro, diciamo che la loro è stata un’operazione chirurgica, ma adesso dovrebbero lasciare di nuovo il posto alla politica. E lo stesso problema dovrebbero porsi anche i pidiessini, insieme a noi devono porsi il problema di salvare il Paese. Fatto questo potrebbero governare loro».

Ma senta non è che le sue supposizioni nascono solo dalla voglia di far dimenticare quello che è avvenuto in questi mesi? Insomma, un tentativo di azzerare il tutto nel nome dell’emergenza?

«Non scherziamo. Io la politica la lascio. Guardi io ho già fatto un patto con mia moglie: io lascio, ma lei deve accettare di lasciare la Sicilia. Io non posso rimanere lì, perché so quello che ho fatto contro la mafia. Voglio andarmene, non all’estero, magari a Roma».

[Augusto Minzolini]

Il Codice di Cosa Nostra: dalla strage di Via Palestro alla revoca del 41-bis

Il Codice di Cosa Nostra è un’inchiesta del giornalista Maurizio Torrealta di RaiNews: parla delle stragi sul continente ordite dalla Mafia nel 1993, e delle coincidenze di date, fatte rilevare anche dal Presidente della commissione Bicamerale Antimafia, Beppe Pisanu, nella sua relazione dello scorso Giugno (qui il testo integrale). Dopo gli attentati di Milano, Roma e Firenze, l’inquietante black-out di Palazzo Chigi del 28 Luglio 1993, il fallito agguato ai carabinieri del Ottobre-Novembre 1993 durante un derby Roma-Lazio, inizia il cedimento dello Stato. Il primo fu Giovanni Conso, allora Ministro della Giustizia, che decise a fine 1993 la revoca del 41-bis, il regime di carcere duro, per decine di mafiosi di piccolo-medio calibro. Uomini della mafia, manovali di Cosa Nostra, capi cosca di grado inferiore. Era un effetto della trattativa? Perché fu revocato solo per piccoli mafiosi e non per i boss? Si dice che la mafia è un’impresa e spiegatemi che cosa fa un’impresa senza i suoi operai. Era il 4 Novembre 1993, e Conso ha detto che tale decisione fu presa “per evitare altre stragi”.

La strategia terroristico-mafiosa inizia con l’omicidio Lima. E’ un atto di guerra, si dirà. Una guerra che si rese conclamata, evidente, chiara a tutti, con Capaci. Poi la fase della cosiddetta “accelerazione” che condusse dritti a Via D’Amelio. Conso successe a Martelli come Ministro della Giustizia quando questi era ormai sotto il tiro dei magistrati milanesi dell’inchiesta Mani Pulite. Giovanni Conso aveva avuto sino ad allora una carriera istituzionale di altissimo profilo (fu anche presidente della Corte Costituzionale). Passerà alla storia come l’uomo del colpo di spugna su Tangentopoli. Esordì così:

 

fonte Archivio Storico La Stampa

Era il 25 Febbraio 1993: il suo messaggio, “certe misure accrescono la tensione”, si intendeva rivolto all’uso della carcerazione preventiva e all’esibizione delle manette fatte nel corso dell’inchiesta Mani Pulite. Era solo questo il suo significato? Conso è stato ascoltato in Commissione Antimafia lo scorso 11 Novembre. Nessun media nazionale ne ha dato riscontro, a parte La Repubblica. Il giorno prima è stata la volta di Nicola Mancino, nel 1993 Ministro dell’Interno. Il suo nome è contenuto in un documento messo a disposizione da Massimo Ciancimino e attribuito a Provenzano. Mancino ha negato di esser stato messo a conoscenza della trattativa condotta dal Gen. Mario Mori con Provenzano. Mario Mori lo ha freddato con un “ne prendo atto”.

Audizione di Nicola Mancino in Commissione Antimafia, 8 Novembre 2010

Audizione di Giovanni Conso in Commissione Antimafia, 11 novembre 2010

Eppure il voler spiegare la strategia terroristico-mafiosa messa in atto fra il 1992-1993 solo con la volontà di costringere la politica a ritornare sui suoi passi e a togliere l’ergastolo e il carcere duro non è sufficiente. Non si spiega la presenza di uomini dello Stato sulla scena di Via D’Amelio, per esempio. Non spiega tutto il fiorire dell’indipendentismo siciliano di inizio anni ’90. Anche De Gennaro, nel 1993, allora capo della DIA, ammise in una intervista a La Stampa – nella quale pur ci tenne a precisare che non vi erano uomini dello Stato in Via D’Amelio – che Cosa Nostra aveva già avuto intenti separatisti:

Ma un’organizzazione che, come lei dice, ha capacità di elaborazione strategica e anche, per così dire, di iniziativa politica, non potrebbe scegliere una politica diversa dal terrorismo? In fondo, la mafia siciliana ha una tradizione di convivenza con le aspirazioni separatiste. E ora che dal Nord arriva il vento leghista, la mafia potrebbe cercare di trame vantaggi?

«Non so dire se in termini politici Cosa Nostra possa arrivare ad avere questo tipo di strategie. Io credo, però, che Cosa Nostra abbia la possibilità di mterloquire, di interferire, contrattare e contattare componenti crimmali o politiche che possano tramare piani destabilizzanti per la nostra democrazia. E’ avvenuto in passato: basta andare con la memoria a fatti processualmente acquisiti come il tentativo di golpe Borghese. A Cosa Nostra fu chiesto l’intervento dei suoi uomini a fianco dei golpisti, in cambio dell’impunità giudiziaria».Quindi se in Italia nascesse una forza golpista, o comunque una forza che cercasse di minare l’unità nazionale, avrebbe nella mafia un naturale alleato?

«Non ho elementi per affermare che Cosa Nostra potrebbe essere un referente naturale, dico che Cosa Nostra ha già avuto l’occasione di esserlo».

E se invece si facesse più forte la spinta per la secessione – del resto teorizzata apertamente sia da parte leghista sia da nuovi movimenti che si preparano al Sud – alla prossima campagna elettorale?

«Ecco, mi viene in mente, ancora, il tentativo separatista di Michele Sindona. Gli esempi non mancano. Ripeto, non ho elementi ben precisi, ma posso solo ribadire che la mafia, e ripeto che mi riferisco a Cosa Nostra siciliana, non è solo un’organizzazione criminale. Cosa Nostra è una forza capace di intervenire per modificare anche le realtà sociali e politiche» (fonte La Stampa, Archivio Storico, 08/01/1993).

Pertanto si può dire che la questione della revoca del 41-bis spiega solo in parte le stragi. O per meglio dire, è solo uno dei successi ottenuti dalla mafia nella guerra contro la politica. Poiché il 41-bis si può dire sia rimasto lettera morta. Oggetto di continue discussioni, di revisioni. Come quella del 2001 (durante il governo Berlusconi II):

Carcere duro addio. Quattro colloqui al mese, il fornello a gas per scaldarsi i cibi. Piccole cose nel mondo dei normali, ma non tra i dannati del 41 bis. Conquiste in sordina che sembrano dei bonus concessi da pezzi delle istituzioni che confermano un atteggiamento più morbido e vanificano il regime duro previsto dall’ ordinamento penitenziario per chi si è macchiato di crimini orrendi: torture, sequestri di persona, stragi, omicidi di bambini (Addio al 41 bis così è partita la trattativa con la mafia, la Repubblica, 27 dicembre 2001, pagina 1, sezione: PALERMO).

Nell’inchiesta di Torrealta avrete ascoltato la lunga intervista a Nicolò Amato. Fu lui ad insistere con Giovanni Conso affinché il ministro revocasse il 41-bis ai mafiosi, poiché si trattava di “decreti emergenziali” chiaramente lesivi della dignità della persona. Amato era direttore generale del DPA, il dipartimento di amministrazione penitenziaria. Dopo Amato, si verificarono altre revoche del carcere duro. Nel 2003 le revoche furono 73, 14 nel 2004. Presidente del DPA era Giovanni Tinebra, ex procuratore generale di Caltanissetta. Tinebra è il magistrato che condusse in tutta fretta le indagini su Via D’Amelio. E’ colui che prende le rivelazioni di Scarantino per buone; è colui che attribuisce a Profeta, mafioso coinvolto nell’uccisione di Libero Grassi, un ruolo nell’attentato a Borsellino:

fonte Archivio Storico La Stampa - 2004

fonte Archivio Storico La Stampa, 10 Ottobre 1993

Ma Tinebra è anche colui il quale delegittima il pm Luca Tescaroli nell’indagine sui mandanti occulti a Via D’Amelio, indagine che venne archiviata da Tinebra con una formula che negava alcun coinvolgimento di Berlusconi e Dell’Utri nella vicenda, allora chiamati in causa da alcuni pentiti (oggi anche da Spatuzza).

Alle 10,30 di ieri mattina (…) il giudice per le indagini preliminari di Caltanissetta, Giovambattista Tona, ha depositato in cancelleria il decreto di archiviazione che segna la definitiva uscita del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e di Marcello Dell’ Utri dall’inchiesta sui “mandanti occulti” delle stragi di Capaci e di via D’ Amelio. (…) Il giudice analizza le accuse dei numerosi collaboratori di giustizia che avevano chiamato in causa i due leader di Forza Italia sostenendo che «erano nelle mani del capo di Cosa nostra, Totò Riina» e che le stragi dell’ estate del ’92, in cui furono uccisi il giudice Falcone, la moglie, il giudice Paolo Borsellino e gli agenti delle loro scorte, furono “accelerate” per dare un colpo ai vecchi referenti politici della mafia e dare una mano al nascente partito di Forza Italia. Altri collaboratori parlarono di incontri tra i boss ed i due esponenti politici che avrebbero assicurato provvedimenti legislativi favorevoli a Cosa nostra. Ma il gip, pur non bollando i pentiti come inattendibili, ha ritenuto che gli elementi raccolti in due anni di indagini sono «insufficienti» a sostenere l’ accusa in un eventuale giudizio. Insomma niente prove. Il giudice Tona ha quindi condiviso la richiesta di archiviazione della Procura presentata il 19 febbraio dello scorso anno e firmata dall’allora procuratore Gianni Tinebra (…) e dall’aggiunto, Francesco Paolo Giordano (Stragi mafiose,il gip archivia, la Repubblica, 4 maggio 2002, pagina 20).

E’ amareggiato e incredulo Luca Tescaroli, il pm della strage di Capaci e di via D’ Amelio che fino a pochi mesi fa aveva coordinato l’ inchiesta sui mandanti occulti delle stragi dov’ erano indagati Silvio Berlusconi e Marcello Dell’ Utri. Un inchiesta che ha provocato divergenze di vedute tra il giovane magistrato ed i suoi superiori, il capo della Procura, Giovanni Tinebra e l’aggiunto, Paolo Giordano. Tescaroli aveva preparato una richiesta di archiviazione che è stata cestinata dai suoi superiori perché il magistrato avrebbe sostenuto che l’ ipotesi del coinvolgimento di Berlusconi e Dell’ Utri nel progetto stragista di Cosa nostra, pur plausibile, non aveva trovato nei due anni di indagini previsti dalla legge una decisiva conferma. Una tesi che è stata completamente ribaltata dalla richiesta di archiviazione presentata nel marzo scorso da Tinebra, Giordano e dal sostituto Leopardi (Io magistrato delegittimato nell’inchiesta sulle stragi, la Repubblica, 27 marzo 2001, pagina 25).

Tinebra è diventato direttore del DAP su nomina del governo Berlusconi II (anni 2001-2004).

Il Sisde parallelo: super-poliziotti antimafia o spie?

Ma come è potuto accadere? Guardando a quegli anni, al 1992, al 1993, ai morti lasciati sull’asfalto, all’asfalto sollevato per aria come un tappeto. Ma come è potuto accadere, ci si può soltanto chiedere. E la desolazione aumenta percependo pienamente che la verità non sarà mai raggiunta, se non fra molti anni. Scoperto un nome, smascherato un volto, un altro nell’ombra si staglia e la caccia ai mandanti occulti diventa un gioco a somma zero in cui chi è chiamato ad investigare si ritrova impietosamente al punto di partenza.

I magistrati di Caltanissetta, il pool di investigatori chiamato a rifare le indagini sulla strage di Via D’Amelio, avendo accertato le falsità del pentito Scarantino, autoaccusatosi del furto della 126, hanno ipotizzato una sorta di trama nera, un anti-Stato che operava militarmente prima, politicamente poi, per imprimere alla politica italiana un segno profondo. Da ciò ne è nato un teorema giornalistico che ha uno dei suoi assiomi nella volontà mafio-massonica di impedire l’elezione a presidente della Repubblica di Giulio Andreotti. In quel preciso istante, che è l’anno 1992, ebbe inizio il conflitto fra Stato e anti-Stato: l’omicidio Lima. Ed è come se per il Nord e il Sud del paese fossero stati previsti destini diversi. Al Sud si operò per impedire l’azione giudiziaria. Al Nord si lasciò fare a quello zelante pool di magistrati di Milano che aprì l’inchiesta Mani Pulite. In mezzo, nell’ombra della normalità, con le vesti di insospettabili collaboratori e di super poliziotti fedelissimi alla causa, si nascondevano uomini dalla doppia identità, Giano bifronte che tessevano le fila del nemico da combattere, la Mafia.

Si suppone ci fossero agenti del Sisde nella polizia palermitana, nelle istituzioni, fra i mafiosi medesimi. Una triangolazione fatale, dentro la quale non fuoriusciva un bel nulla. Da un lato vi era l’opera depistatoria di Arnaldo La Barbera; dall’altro, i trattativisti facenti capo al generale dei Ros Mario Mori. E poi i vertici della Polizia, del Viminale.

  • La Barbera

La Barbera è stato capo della Squadra Mobile di Venezia, poi di Palermo, ex questore di Palermo, poi di Roma, infine messo al vertice di Ucigos e indagato nell’inchiesta sulla mattanza della Scuola Diaz durante il G8 di Genova, dove forse ispirò l’irruzione nell’edificio e la messinscena delle molotov. Morto per cancro nel 2002, soltanto durante lo scorso mese di Giugno è stato scoperto essere a libro paga del Sisde per almeno due anni, a cavallo fra il 1986 e il 1987.

Dovete sapere che La Barbera diventò capo della Squadra Mobile di Palermo nel 1988, ma lo fu anche per un breve periodo, nel 1985. La Barbera era una sorta di solver-man, un uomo che risolve i guai, che riporta l’ordine. Nel ’85 la Mobile di Palermo era allo sbando: i suoi predecessori, o erano coinvolti nella P2, oppure finirono ammazzati (vi suonerà strano, ma la mafia lasciò stare il piduista). Quando arrivò lui, la Squadra Mobile di Palermo divenne la “Mobile di Ferro”. Nessuno poteva pensare che La Barbera nascondesse una doppia identità, nome in codice “Catullo”. Il suo vice era Guido Longo:

Guido Nicolò Longo era uno dei due sbirri che il Viminale paracadutò nell’infermo di Palermo nella seconda metà degli anni Ottanta. L’altro si chiamava Arnaldo La Barbera. Insieme dovevano ricostruire una Squadra mobile colpita al cuore da veleni, sospetti ma, soprattutto, omicidi. Sì perché la mafia aveva assassinato, uno dopo l’altro, i migliori investigatori siciliani […] La Barbera capo della nuova Mobile, Longo vice […] Giovanni Falcone si fidava di loro. Loro ammiravano Falcone […]  E toccò anche a Longo, nel frattempo alla Dia di Palermo, indagare su quei massacri e contribuire alla cattura dei macellai di Capaci […] Guido Longo lo mandano a Napoli. A capo della Dia (L’ultimo cacciatore di mafiosi Longo, da Cosa nostra a Gomorra – Napoli – Repubblica.it).

Di questo passo mi ha colpito la frase: “Falcone si fidava di loro”. Insieme a La Barbera e Longo vi erano poliziotti del calibro di  Manganelli e De Gennaro. De Gennaro diventò poi capo della Polizia, il suo successore è stato proprio Manganelli. Fu De Gennaro a inviare La Barbera a Genova, quel sabato, al G8 di Genova. La Barbera e Longo indagarono su Capaci. E La Barbera incappò in quel bigliettino, quello in cui vi era il numero di cellulare di un agente del Sisde, perso proprio lassù, sulla collinetta di Capaci. Quel numero corrispondeva all’utenza di tale Lorenzo Narracci, vice di Bruno Contrada. Una prova così importante che non condusse ad alcun risultato. Venne poi arrestato Giovanni Brusca, indicato come l’uomo che schiacciò il pulsante del telecomando che fece esplodere l’ordigno sotto l’autostrada. Il mostro che sciolse il piccolo Di Matteo nell’acido. Gran merito a La Barbera, eroe dell’antimafia.

  • Bruno Contrada

Perché mai La Barbera avrebbe dovuto indagare Narracci? Quando si trattò di testimoniare al processo Contrada, La Barbera difese l’operato del collega:

E’ stato lui [La Barbera] ad ammettere di avere trovato l’ anno scorso a Roma una lettera anonima del 1985, un appunto “non protocollato”, scritto “verosimilmente in ambienti interni alla questura di Palermo” per accusare Contrada di rapporti con boss come Riccobono e Badalamenti e di avere dei “possedimenti” in Sardegna […] Avvocato Gioacchino Sbacchi: “Ha accertato qualcosa su Contrada in esito alla delega dei giudici di Caltanissetta?”. La Barbera: “No”. Sbacchi: “Lei e’ stato dirigente della Mobile di Palermo per tanto tempo. Ha acquisito elementi di collusione su Contrada?”. Sbacchi: “Contrada ha mai interferito nelle indagini? Ha mostrato attenzioni particolari, e’ stato indiscreto?”. La Barbera: “Assolutamente no. Ci siamo parlati 4, 5 volte…”. Sbacchi: “Le sono mai stati riferiti sospetti su Contrada?”. Sbacchi: “Lei ha mai avuto rapporti con Contrada nella qualita’ di funzionario del Sisde?”. La Barbera: “Ho partecipato ad una riunione con lui dopo la strage Borsellino”. Sbacchi: “Ritenne il contributo di Contrada positivo o deviante?”. La Barbera: “Deviante proprio no. Fu un contributo fornito da un addetto ai lavori”. Avvocato Piero Milio: “Conosce il rapporto di Contrada contro Badalamenti?”. La Barbera: “Non lo ricordo, ma ho letto diversi rapporti di Contrada fatti con estrema perizia”. Presidente Francesco Ingargiola: “Quell’ anonimo trovato all’ Alto commissariato era stato protocollato o lasciato li’ come un pezzo di carta?”. La Barbera: “Non era protocollato”. Presidente: “Per quanto riguarda i possedimenti in Sardegna?”. La Barbera: “La Procura di Palermo nel 1985 non aveva avviato nessuna indagine patrimoniale” (l’ Antimafia perquisita per Contrada).

  • I depistaggi

Bruno Contrada fu arrestato il 24 Novembre 1992 con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, la stessa del Gen. Mori. Su di lui pesavano le dichiarazioni dei pentiti Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese, Salvatore Cancemi. Condannato a 10 anni in primo grado, fu assolto con formula piena in Appello. Una assoluzione sospetta. Infatti il giudizio di legittimità della Cassazione annullò la sentenza di secondo grado e dispose la ripetizione del giudizio d’appello presso una diversa sezione della Corte d’Appello di Palermo. La sentenza definitiva è giunta nel 2007, dopo dodici anni di dibattimenti, quando la Cassazione ha confermato la seconda sentenza d’Appello e la condanna a 10 anni per l’ex poliziotto e ex dirigente della Polizia di Stato (Wikipedia). La vicenda Contrada inizia alla fine del 1992: ha qualcosa a che vedere con la trattativa? contrada viene scaricato dal Sisde? Oppure quelli del servizio segreto si trovano improvvisamente impreparati dinanzi a questa offensiva mafiosa per mano dei pentiti? Di fatto la prima sentenza d’Appello può essere configurata come il tentativo estremo di salvare Contrada. Ma di più il Sisde non poteva fare. Avrebbe messo a rischio l’intera operazione di depistaggio, forse. Poiché proprio alla fine del 1992, La Barbera fu nominato dal Viminale (Mancino) al vertice del pool investigativo stragi “Falcone e Borsellino”. In quella veste, La Barbera organizzò il depistaggio sulle indagini per la morte di Borsellino:

Vincenzo Ricciardi, Salvatore La Barbera e Mario Bo sono tre esimi rappresentanti delle forze dell’ordine italiane. Il primo questore di Novara, il secondo in servizio alla polizia postale di Milano, il terzo capo della squadra mobile di Triste  […] Tre uomini, pluridecorati, all’apice delle loro carriere, si sono ritrovati tutti in Procura, per essere interrogati su fatti avvenuti più di 18 anni fa. Perché loro formavano il gruppo investigativo “Falcone-Borsellino”, incaricato di far luce sulle stragi del 1992. Il loro capo era il superpoliziotto Arnaldo La Barbera, ex capo della squadra mobile di Palermo e questore della stessa città, deceduto nel 2002 […] L’accusa, per i tre funzionari, è di quelle pesanti:  calunnia aggravata, perché “in concorso con il dottor Arnaldo La Barbera, nonché con altri allo stato da individuare”, inducevano, mediante minacce e percosse, Salvatore Candura, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino a mentire in merito alle stragi del ‘92 (I tre poliziotti di La Barbera fanno scena muta | Docmafie).

  • La Barbera vs. Genchi

Un’altra testimonianza sui fatti che condussero all’arresto di Scarantino e soci ci proviene da Gioacchino Genchi, il quale ebbe a collaborare spesso con Arnaldo La Barbera nella sua veste di consulente informatico. All’epoca – 1992-93 – la tecnologia dei telefoni cellulari era scarsamente diffusa. Così la pratica investigativa dell’analisi dei tabulati era cosa nuova. Genchi aveva in mano elementi che sconfessavano l’indirizzo preso per le indagini di Caltanissetta, opera di La Barbera e del procuratore aggiunto Giordano. Genchi, fra il 4-5 maggio 1993, ruppe con La Barbera, con il quale ebbe un furioso litigio: la ragione era la fretta del poliziotto di arrestare Pietro Scotto (il possibile telefonista di Via D’amelio individuato dallo stesso Genchi) e chiudere le indagini. Secondo Genchi, invece, Scotto avrebbe potuto portare al “livello superiore”. Poi è stata una escalation di eventi:

Il 14 un’autobomba esplode a Roma, in via Fauro. L’attentato pare diretto al giornalista Maurizio Costanzo, che ci stava passando, ma che al momento dello scoppio era ancora fuori bersaglio. Sulla stessa via, a una manciata di metri, c’è parcheggiata la Y10 di Lorenzo Narracci, vice di Contrada al Sisde, che abita lì. C’è chi si chiede se il vero obiettivo fosse lui. La strategia della tensione si sposta poi a nord. Il 27 tocca a Firenze, via dei Georgofili, agli Uffizi: cinque morti e trentasette feriti. Il giorno dopo, Pietro Scotto viene arrestato. L’11 luglio, il ministro dell’Interno Nicola Mancino promuove La Barbera dirigente superiore e col grado di questore lo assegna alla direzione centrale della polizia criminale di Roma. L’anno successivo diventerà il nuovo questore di Palermo (L’agente Catullo, Gioacchino Genchi e quella porta sbattuta).

L’arresto di Scotto è quello che si direbbe un arresto ad orologeria. Ma se dalle parole di Genchi si intuisce che La Barbera aveva affrettato i tempi perché desideroso di fare carriera (infatti scoppiò in lacrime davanti a Genchi dicendogli che sarebbe diventato questore e che per lui era in vista una promozione), il fatto che il medesimo fosse al soldo del Sisde cambia le carte in tavola: La Barbera agiva per la propria personale ambizione o invece era sotto mandato del Sisde? La fretta nel chiudere le indagini era dettata dalle bombe oppure si approfittò del caos generato dagli attentati sul continente per far passare la notizia dell’arresto di Scotto in maniera superficiale ai media e all’opinione pubblica?

  • L’Addaura

Il revisionismo giudiziario di quest’epoca ha investito anche il caso del fallito attentato dell’Addaura a Giovanni Falcone. La storia è nota, così come è nota la misteriosa fine dei due poliziotti, Agostino e Piazza, che sventarono l’attentato. Emerge anche in questo caso il ruolo nell’ombra di Arnaldo La Barbera. L’agente Catullo si avvalse forse dell’opera di un ispettore di polizia di Pescara, tale Guido Paolilli:

Dopo un mese e mezzo l’agente Agostino fu ucciso (Emanuele Piazza fu strangolato nove mesi dopo) e la squadra mobile di Palermo seguì per anni un’improbabile “pista passionale”. Un altro depistaggio. Cominciato la stessa notte dell’omicidio con una perquisizione a casa del poliziotto ucciso. Qualcuno entrò nella sua casa e portò via dall’armadio alcune carte che Agostino nascondeva […] Quel qualcuno era l’ispettore di polizia Guido Paolilli, ufficialmente in servizio alla questura di Pescara ma spesso “distaccato” a Palermo e “a disposizione” di La Barbera (Il superpoliziotto La Barbera era un agente dei Servizi – Repubblica.it).

Se La Barbera fosse ancora vivo, l’accusa che lo investirebbe sarebbe gravissima: aver agito in modo da cancellare le prove sull’attentato a Falcone. Falcone collaborava con La Barbera, che era a capo della Mobile. Falcone si fidava di lui. Ed è pur vero che la stagione di La Barbera a Palermo coincide con la stagione dei veleni per il pool antimafia: dopo la conclusione del Maxi-processo (1987), avviene la nomina a capo dell’Ufficio istruzione, in luogo di Caponnetto che aveva voluto lasciare l’incarico, del consigliere Antonino Meli, in quale agì in contrasto a Falcone e Borsellino; poi nel 1989 l’Addaura; poi ancora le lettere del Corvo di Palermo.

Naturalmente La Barbera, Contrada, Narracci, non agivano per conto proprio. Agivano in maniera coordinata, perseguendo il medesimo – destabilizzante – progetto. Si può affermare che obbedissero agli ordini provenienti dall’alto? Ovvero dal quadro istituzionale compromesso con il Sisde deviato? E’ proprio questo, il quadro istituzionale, che mette i brividi. Poiché all’epoca, ai vertici della Polizia di Stato vi era Vincenzo Parisi, già direttore del Sisde fra il 1984 e il 1987; il Sisde, fra il 1987 e il 1994 cambiò quattro diversi Direttori (Malpica, Voci, Finocchiaro, Salazar), segno di una certa instabilità che era poi lo specchio dell’instabilità politica; Malpica fu al centro dello scandalo dei fondi neri del Sisde; presidente della Repubblica, nel 1992, divenne, al posto di Andreotti, Oscar Luigi Scalfaro, padre costituente e strenuo difensore della Costituzione, che però ebbe un passato di Ministro dell’Interno nel governo Craxi fra il 1983 e il 1987; insieme a Nicola Mancino, venne coinvolto anch’esso nello scandalo Fondi Neri-Sisde (famoso il suo discorso alla tv, “Io non ci sto!”); Nicola Mancino, che divenne ministro dell’Interno nel 1992, dal giorno alla notte, spodestando Vincenzo Scotti ad insaputa del medesimo, in uno dei più strani rimpasti di governo che la storia repubblicana abbia mai conosciuto.

Sitografia:

 

Don Vito, un libro all’Indice

Don Vito. Le relazioni segrete tra Stato e mafia nel racconto di un testimone d’eccezione

Un viaggio senza ritorno nei gironi infernali della storia italiana più recente. Quarant’anni di relazioni segrete e inconfessabili, tra politica e criminalità mafiosa, tra Stato e Cosa nostra. Perno della narrazione è la vicenda di Vito Ciancimino, “don Vito da Corleone”, uno dei protagonisti della vita pubblica siciliana e nazionale del secondo dopoguerra, personaggio discutibile e discusso, amico personale di Bernardo Provenzano, potentissimo assessore ai Lavori pubblici di Palermo, per una breve stagione sindaco della città, per decenni snodo cruciale di tutte le trame nascoste a cavallo tra mafia, istituzioni, affari e servizi segreti. A squarciare il velo sui misteri di “don Vito” è oggi un testimone d’eccezione: Massimo, il penultimo dei suoi cinque figli, che per anni gli è stato più vicino e lo ha accompagnato attraverso innumerevoli traversie e situazioni pericolose. Il suo racconto riscrive pagine fondamentali della nostra storia: il “sacco di Palermo”, la nascita di Milano 2, Calvi e lo Ior, Salvo Lima e la corrente andreottiana in Sicilia, le stragi del ’92, la “Trattativa” tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, la cattura di Totò Riina, le protezioni godute da Provenzano, la fondazione di Forza Italia e il ruolo di Marcello Dell’Utri.

Questo è uno di quei libri che procura la dannazione eterna per chi l’ha scritto, in special modo per uno dei due indicati come autori, ovvero il testimone oculare, Massimo Ciancimino. Con la lettera di minacce al figlio di 5 anni, Ciancimino ha chiesto a Feltrinelli di ritirare il libro dal commercio. Feltrinelli ha deciso per ora di annullare tutte le presentazioni al pubblico che sarebbero state fatte nei prossimi mesi. Niente promozione. C’è da giurarci che ‘Don Vito’ diventi una rarità, uno di queli libri che per trovarlo servono giorni interi a scartabellare negli archivi delle biblioteche. Sarà così? Vincerà ancora una volta la parola di minaccia sulla parola di verità (ammesso che Massimo Ciancimino l’abbia detta e scritta)? La lunga storia degli interrogatori di Ciancimino jr. nelle procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze è una storia di parziali ammissioni e reticenze, di documenti tenuti segreti e di pizzini che recano nomi improbabili di misteriosi oo7 deviati. Dove risiede la verità? Un libro come questo può aiutare a comprenderla? Don Vito è messo all’Indice dei libri proibiti poiché si fanno nomi e cognomi, perché si sconfina paurosamente nel ‘non detto’. Perché osa fare i nomi degli innominabili, che persino la procura di Firenze, nell’indagine poi archiviata sui mandati occulti dell’attentato di Via Dei Georgofili, chiama con lo pseudonimo di ‘Autore Uno’ e ‘Autore Due’, come se anche solo ipotizzare la loro reale identità, anche solo pensarlo,  possa in qualche modo compromettere la propria esistenza per sempre.

Eeppure è vero, insieme a quelle identità misteriose, che avallarono l’escalation stragista del 1993 delle “bombe sul continente”, trattando con esse, si è costruito un quadro politico che è passato alla storia con il nome di “Seconda Repubblica”. Nata con il sangue di giudici e di innocenti.

Don Vito. Le relazioni segrete tra Stato e mafia nel racconto di un testimone d’eccezione – Informazioni sul prodotto

Un viaggio senza ritorno nei gironi infernali della storia italiana più recente. Quarant’anni di relazioni segrete e inconfessabili, tra politica e criminalità mafiosa, tra Stato e Cosa nostra. Perno della narrazione è la vicenda di Vito Ciancimino, “don Vito da Corleone”, uno dei protagonisti della vita pubblica siciliana e nazionale del secondo dopoguerra, personaggio discutibile e discusso, amico personale di Bernardo Provenzano, potentissimo assessore ai Lavori pubblici di Palermo, per una breve stagione sindaco della città, per decenni snodo cruciale di tutte le trame nascoste a cavallo tra mafia, istituzioni, affari e servizi segreti. A squarciare il velo sui misteri di “don Vito” è oggi un testimone d’eccezione: Massimo, il penultimo dei suoi cinque figli, che per anni gli è stato più vicino e lo ha accompagnato attraverso innumerevoli traversie e situazioni pericolose. Il suo racconto riscrive pagine fondamentali della nostra storia: il “sacco di Palermo”, la nascita di Milano 2, Calvi e lo Ior, Salvo Lima e la corrente andreottiana in Sicilia, le stragi del ’92, la “Trattativa” tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, la cattura di Totò Riina, le protezioni godute da Provenzano, la fondazione di Forza Italia e il ruolo di Marcello Dell’Utri. Attualmente la testimonianza di Massimo Ciancimino è vagliata con la massima attenzione da cinque Procure italiane e non è possibile anticipare sentenze. Una vera e propria epopea politico-criminale per troppo tempo tenuta nascosta.
Editore: Feltrinelli
Autore: Ciancimino Massimo, La Licata Francesco
Argomento: Problemi e servizi sociali
Anno: 2010
Collana: Serie bianca
Informazioni: pg. 311
Codice EAN: 9788807171925

La legge del bastone anche per Ciancimino

Il proiettile indirizzato al figlioletto di 5 anni non è che una macabra notifica. Il ‘bastone’ arriverà. Per gli infami traditori, i figli e la famiglia tutta di Massimo Ciancimino. E’ una legge di mafia. Se pensate a tutto ciò trasponendolo alla vicenda di Fini e Il Giornale con la sua campagna diffamatoria, pare invero una terribile coincidenza. Ricordate il Corvo di Parlemo? Prima che con le bombe, la mafia agisce con il discredito. Con Ciancimino si è passati dalle parole ai fatti.

Ci si sarebbe aspettati, poi, una levata di scudi in difesa del testimone Ciancimino, e del suo figlioletto, il quale porta solo un cognome e colpe non ne ha. Il mondo politico, invece, si è girato dall’altra parte. Ciancimino è un infame e non merita rispetto nemmeno dai non-affiliati. Gli eroi sono ben altri: gli stallieri che muoiono senza aver fatti i “nomi”, per esempio. Una delle poche voci nel silenzio collettivo, è quella del sen. Lumia (PD):

La lettera minatoria al figlio di Masimo Ciancimino è un fatto grave, si sta superando ogni limite […] Adesso lo Stato deve dimostrare che fa sul serio: bloccare ogni tentativo di intimidazione e mettere nelle condizioni Ciancimino di andare fino in fondo. La ricerca della verità non può essere ostacolata. Bisogna avere il coraggio di scoprire le collusioni tra mafia ed esponenti della politica, delle istituzioni e degli apparati […] In questo momento così delicato occorrono messaggi chiari e inequivocabili. Invece, il governo non fa altro che screditare giudici, collaboratori di giustizia ed approvare provvedimenti che indeboliscono la lotta alla mafia, come il ddl sulle intercettazioni e il taglio di fondi alla magistratura e alle forze dell’ordine (IrisPress).

Per Il Giornale, la notizia non merita spazio né nella prima pagina di oggi – interamente dedicata al Fini-Tulliani Gate – né sulla home del sito web. Cercate su tutto il loro sito: per la notizia della lettera di minacce neanche un trafiletto, neanche la riproposizione del lancio di agenzia.

Ciancimino, certamente, ha avuto i suoi difetti: le dichiarazioni a orologeria di certo non aiutano a comprendere la sua buona fede. Ma c’è una parte dello Stato, una parte consistente e maggioritaria, che non vuole le verità di Ciancimino. Le rifiuta e le stigmatizza. Ciancimino non è un pentito. E’ considerato, tutt’al più, un diffamatore. Non gli è stata data nemmeno una protezione seria. Ciancimino è un uomo morto che cammina. Il libro “Don Vito. Le relazioni segrete tra Stato e Mafia”, scritto con Francesco La Licata ed edito da Feltrinelli, verrà forse ritirato dal commercio su sua richiesta. La verità, indimostrabile per i magistrati, che reca al suo interno, sparirà dalla circolazione, come è accaduto a tanti libri ‘scomodi’. Ma forse non si può perdere così velocemente il coraggio della parola.