Siria, futuro plurale

Siria, futuro plurale – di Vanna Pisa

Il labirinto siriano è formato da numerosi percorsi che si intrecciano nello spazio e nel tempo. Questioni religiose, geopolitiche, economiche, sociali e culturali.
Come sappiamo USA e Russia stanno spostando ingenti forze militari nello scacchiere siriano: Assad per certi versi è un pretesto, lo scontro è mosso anche da potenti fattori economici.
Da una parte Russia e Iran, ambedue sponsor del regime di Assad. Nelle alleanze che coinvolgono gli attori del medio Oriente il rapporto tra SIRIA e IRAN rimane forte, hanno in comune l’interesse a depotenziare l’influenza delle monarchie del Golfo e dell’asse arabo – sunnita formato da Giordania, Egitto, Arabia Saudita.
Dall’altra gli Usa, che devono sostenere il primato del dollaro. Secondo questo dogma, le materie prime non devono essere commerciate in valute diverse ed è per questo che gli Stati Uniti hanno tutto l’interesse a mantenere la forza in questo senso e ad evitare che i commerci diventino sempre più indipendenti dal signoraggio del dollaro.
Le petromonarchie, dopo le cosiddette “primavere arabe”, sono assai preoccupate: la possibilità, seppur remota, di una democratizzazione dei loro paesi le sconcerta e mette in pericolo il monopolio da loro esercitato sulle fonti energetiche.
Non è il caso di fornire per l’ ennesima volta l’elenco delle ragioni della crisi siriana. In questo periodo sulla carta stampata, in rete, nelle televisioni è possibile trovare innumerevoli liste che dettagliatamente, in maniera più o meno approfondita, danno informazioni in proposito. Quello che però assai spesso manca è la profondità temporale, intendendo con ciò quello che lo storico francese F. Braudel chiamava “la lunga durata “: vanno esclusi, è chiaro, gli interventi di parte, in malafede o scritti per autocompiacimento.
Quello di cui non si vuole tenere conto nell’analisi condotta nei mass-media mainstream sulla crisi siriana sono dunque i fattori strutturali legati a durate temporali di lungo periodo. Le battaglie, i re e le imprese certo contano e per noi, la cui vita comunque passa in un soffio, sono decisivi, ma, considerati per sé stessi gli avvenimenti che vorticosamente si susseguono, rischiano di accecarci e di produrre un rumore bianco nel quale nessuna linea melodica è più distinguibile.
Che ci sia o meno un’intervento armato non è certo cosa senza importanza. Lo vediamo in questi giorni di frenetica attività diplomatica, l’abile proposta russa di consegnare le armi chimiche siriane a una terza parte neutrale , il solito ONU tanto per capirci. Ma non sarà un percorso facile .
Il direttore generale dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, l’ambasciatore Ahmet Üzümcü, ha accolto come significativo l’accordo sulle armi chimiche in Siria, annunciato a seguito di colloqui a Ginevra tra il Ministro degli Esteri della Russia, Sergey V. Lavrov , e il Segretario di Stato John Kerry.
A seguito saranno adottate le misure necessarie per attuare un rapido programma per verificare la distruzione completa delle scorte di armi chimiche della Siria, impianti di produzione e altre funzionalità importanti. Della Opwc non fanno parte altri sei Paesi oltre la Siria: Israele, Birmania, Angola, Egitto, Corea del Nord, Sud Sudan (tratto da Organisation for the Prohibition of Chemical Weapons).
La proposta russa è rafforzata, poi, dall’opinione avversa alla guerra della maggioranza dei cittadini dei paesi che dovrebbero intervenire per sanzionare Assad. Ed è una cosa che conta in primis per la popolazione che, già massacrata e martoriata da entrambe le parti in lotta nella guerra civile siriana, vedrebbe aumentare le sue spaventose sofferenze. E’ utile ricordare un fatto: la resistenza siriana è quanto di più frammentato si possa immaginare.
Se per prendere una scorciatoia vogliamo suddividerla in democratica e jihadista, bisogna aver chiaro che tali termini forniscono solo delle etichette assai approssimative, comunque qualche barlume lo danno, si pensi all’appello diffuso in questi giorni da Al-Zawahiri, il capo di Al-Qaeda, alle formazioni jihadiste di non stringere assolutamente alleanze con le formazioni “miscredenti”.
Chi andrebbero a favorire allora gli USA e i suoi partner? Altri Stati stanno facendo giochi non lineari. Viene in evidenza il ruolo francese e tedesco. La Germania è in “lotta” con la Francia per la supremazia in Europa, Parigi e Berlino concorrono per diventare perno dell’UE. Sono inoltre significative le immagini apparse nei social network di soldati americani che espongono cartelli nei quali affermano di non voler combattere per far vincere Al-Qaeda. Non possiamo poi dimenticare che l’ ultimo intervento in ordine di tempo delle potenze occidentali, in Libia, si sta rivelando un vero e proprio disastro, il paese è in preda all’anarchia. Centinaia di formazioni armate basate sulle più svariare motivazioni clanite, tribali, religiose, cittadine, si combattono ogni giorno alle volte per questioni di mera sopravvivenza.
Un potere centrale ed unitario, uno Stato, non si scorge all’orizzonte.
Che dire d’altronde dei risultati ottenuti in Iraq e Afghanistan?
E perché gli Stati che giustamente prendono posizione contro un dittatore qual è, senza dubbio, Assad, non intervengono concretamente per soccorrere i milioni di profughi siriani che strabordano nei paesi limitrofi, per andare a vivere in condizioni allucinanti nei campi profughi che crescono senza sosta?
Oppure che dire del confronto tra Israele e l’ Iran? Quest’ultimo tiene sotto pressione Israele, impedendole , o almeno cercando di ritardare i programmati raid contro i suoi siti nucleari, attraverso i suoi alleati sciiti, la Siria, Hezbollah, Hamas, rifornendoli di armi, soprattutto missili.

Dunque, va ripetuto, non è indifferente se vi sarà un attacco o meno, ma, quello che rimane  indubitabile, è che non risolverà nessuna delle questioni alla base della crisi siriana, perché nelle vicende storiche, per citare il verso di Stephane Mallarmé: “giammai un colpo di dadi abolirà l’ azzardo”, ovvero assai difficilmente un’intervento modificherà nel profondo una situazione storica. I cambiamenti, ci piaccia o meno, avvengono lentamente, dolorosamente e non sono guidati da nessuna legge.

Siria, Mosca vs. Washington. E Israele prepara lo stato di guerra

Il quadro che si sta delineando sullo scenario mediorientale è decisamente poco rassicurante. Dopo la rivelazione dell’uso documentato delle armi chimiche da parte di Bashar Assad, il Congresso americano sta mettendo sotto pressione Barack Obama, il quale ha chiesto a Chuck Hagel, suo segretario alla Difesa, di preparare opzioni per tutte le situazioni possibili che si venissero a creare in Medioriente. Obama può contare sull’appoggio di David Cameron, ma anche della Francia. Lo scorso week-end, Laurent Fabius, ministro degli Esteri francese, si è incontrato con Netanyahu, il quale non ha mancato di affermare che quanto successo in Siria è solo una anticipazione di quel che accadrebbe se tali armi si diffondessero in Iran, di fatto legittimando l’intervento occidentale contro Assad.

Dall’altro lato vi è Mosca, apertamente contraria all’operazione armata di Washington. Il ministro degli Esteri russo ha detto che gli Usa non dovrebbero ripetere “gli errori del passato”: la notizia dello sterminio di 300 persone con le armi chimiche sarebbe un fake messo in circolazione dai ribelli e gli americani lo impiegherebbero al solo fine di giustificare l’opzione militare, travestendola in “intervento umanitario”. "Tutto questo dovrebbe ricordarvi gli eventi di 10 anni fa, quando, con informazioni false sul possesso da parte degli iracheni delle armi di distruzione di massa, gli Stati Uniti hanno scavalcato le Nazioni Unite ed hanno avviato un sistema le cui conseguenze sono ben noti a tutti", ha scritto il ministro in un post su Facebook. Per la verifica della veridicità del massacro, il governo siriano e rappresentanti delle Nazioni Unite si sono accordati per una visita del sito. “Ancora una volta”, ha detto il ministro russo, “dobbiamo metterli contro il ripetere degli errori del passato, contro azioni che contraddicono il diritto internazionale”. Ma Mosca, insieme a Pechino, non ha mai nascosto la sua affiliazione con Bashar Assad: ha votato contro risoluzioni di censura e condanna dell’operato del governo siriano per ben tre volte.

Laurent Fabius, per contro, si è detto “assolutamente certo” che Assad abbia usato le armi chimiche indiscriminatamente contro la popolazione. “Posso anche dirvi”, ha aggiunto, “che quando si tratta di un crimine come questo, è inconcepibile che si possa andare avanti senza una risposta forte”, una risposta che deve essere dura e determinata, ma non ha voluto precisarne i dettagli.

Netanyahu ha detto che Israele e Francia condividono un interesse al fatto che gli eventi "tragici" in Siria abbiano una fine. "Penso che ciò che sta accadendo è un crimine commesso dal regime siriano contro il proprio popolo. E che ciò sia veramente scioccante”. Secondo Netanyahu, il regime di Assad è stato attivamente aiutato ed incoraggiato da Iran e da Hezbollah: "in effetti, il regime di Assad è diventato in pieno un cliente iraniano e la Siria è una sorta di terreno di sperimentazione per Teheran”. Il presidente Shimon Peres, a margine dell’incontro con Fabius di ieri mattina, ha detto che le urla di una ragazza siriana "verso il padre per venire a salvarla, è un grido a cui non possiamo rimanere indifferenti.”

Ecco la nostra prossima guerra.

Moscow to Washington: No “Past Mistakes” in Syria – Ria Novosti

PM: Israel’s ‘finger on the pulse’ of Syria developments, if necessary will also be ‘on the trigger’ – The Jerusalem Post

Fiscal Cliff sempre più vicino

Armageddon delle tasse e dei tagli. In Italia potremmo chiamarlo ‘Agenda Monti’. Non è altro che un quadro normativo che impone il rientro dal deficit per gli Stati Uniti; una sorta di cura da cavallo, che però ammazza il cavallo e anche chi gli sta intorno. Il Fiscal Cliff è un complesso di norme che si è attivato automaticamente. Non è però una attivazione casuale. C’è un colpevole e si tratta di una certa commissione di esperti che entro la fine di Novembre doveva fornire le soluzioni normative per la riduzione del deficit di $ 1,2 trilioni in dieci anni. Questa commissione ha fallito il suo obiettivo, e pertanto una parte del Budget Control Act del 2011 ha “preso vita”. La parte che implica questa curva di rientro (parte in rosso):

Deficit_or_Surplus_with_Alternative_Fiscal_ScenarioIl meccanismo prende anche il nome di “sequestro del budget” o “sequestration”. La riduzione della spesa pubblica interesserebbe in parti uguali sia la Difesa che la spesa interna mentre un altro provvedimento legislativo, l’Affordable Care Act impone nuova tassazione per circa 250.000 dollari all’anno. Lo scenario alternativo può essere conseguito solo in seguito alla estensione della effettività del cosiddetto Bush Tax Cuts – il provvedimento che tagliò le tassazioni ai ricchi e che venne già rinnovato nel 2010. Senza accordo politico non si otterrà nulla. Ma è evidente che il disinnesco del Fiscal Cliff lascerebbe irrisolto il problema del debito americano. Guardate il grafico sottostante (indica l’andamento del rapporto debito/PIL federale dal 1940 ad oggi, con la proiezione sino al 2022):

Historic_Federal_DebtIn rosso potete apprezzare l’andamento del rapporto debito/PIL federale con il Fiscal Cliff applicato, in azzurro in caso di estensione del Bush Tax Cuts ed altri (per un elenco esaustivo dei provvedimenti che hanno generato la rupe fiscale, vi rimando alla più estensiva nota su Wikipedia U.S., http://en.wikipedia.org/wiki/United_States_fiscal_cliff pagina dalla quale provengono i grafici soprastanti).

Harry Reid, il leader dei senatori democratici, ha detto stasera che vi sono oramai poche chance per evitare il Fiscal Cliff sono quasi nulle, mentre lo speaker della Camera, John Boener, afferma che le proposte della Casa Bianca continuano a non essere serie.

 

Intanto consiglio questo blog per seguire passo passo gli aggiornamenti della situazione:

Addio, Timbuctu

Cour de la mosquée de Djingareiber, Tombouctou

Cour de la mosquée de Djingareiber, Tombouctou (Photo credit: Wikipedia)

Ansar Dine, il gruppo islamico jihadista che controlla la città di Timbuctu, ha iniziato stamane una vasta operazione per la demolizione degli antichi santuari. Secondo la Bbc, sostenitori di Ansar Dine avrebbero danneggiato il mausoleo di Sidi Mahmoud a “colpi di vanga e piccone”. Timbuktu contiene 333 santuari, di cui 16 classificati dall’Unesco come Patrimonio Mondiale, tra cui appunto la tomba di al-Faqih Sidi Mahmoud Ben Ammar, che gode di grande prestigio tra la popolazione della città.

Intanto da Washingoton si fa sentire l’Assistente al Segretario di Stato per gli Affari africani, Johnnie Carson. Carson, durante una audizione alla Camera dei Deputati, ha affermato che la comunità internazionale deve supportare l’azione militare della Comunità Economica degli Stati Africani Occidentali – ECOWAS – ma a condizione che la sua azione stabilizzatrice sia limitata a rimettere ordine nel sud del paese e sia evitata qualsiasi “avventura” nel nord dell’Azawad secessionista.

“Non si può parlare di azione seria senza un leader legittimo nella capitale Bamamko”, ha detto Carson. E’ sbagliato, ha aggiunto, definire pericolose le forze islamiste che si sono inserite nell’area accanto al MNLA. AQMI e Andar Dine sono “povere” e non costituiscono una minaccia per gi Stati Uniti.

Fonte: http://www.saharamedia.net

Gli USA armano i droni italiani in Afghanistan

Perché armare i droni italiani? Obama, ex premio Nobel per la Pace (molto ex), a Marzo, aveva proposto al Congresso di vendere all’Italia il kit di armamento degli aerei senza pilota “made in USA”. Lo scopo? Schierarli in Afghanistan per uccidere senza farsi uccidere. Un modo come un altro per tener dentro alla palude afghana il nostro paese, che da quell’avventura ha avuto solo guai e morti.

L’Italia è stata il primo paese a disporre di aerei drone. I primi acquisti di questi robot della guerra sono datati 2001, mentre un secondo acquisto fu completato nel 2008. Si trattava di droni Reaper e Predator-A, non armati. La loro utilità in guerra è straordinaria. Sono stati impiegati dagli USA in Yemen, in questi giorni, ed hanno seminato il panico fra la popolazione (per saperne di più leggete di #NoDrones qui).
Il solo altro paese alleato degli USA che può “beneficiare” di questa tecnologia di morte e distruzione è la Gran Bretagna. La discussione in Congresso si è aperta all’insegna della estrema polarizzazione: alcuni deputati sono contro, altri a favore.
I deputati che avevano messo in discussione l’accordo previsto per la "militarizzazione" dei droni italiani affermavano che ciò potrebbe rendere più difficile per gli Stati Uniti di negare funzionalità simili ad altri alleati della NATO, e obbliga gli USA a dover re-impostare nuovamente gli sforzi per limitare la vendita da parte di altre nazioni, come Israele, che producono droni piuttosto sofisticati. I sostenitori dicono che tali vendite consentirebbero ad alleati di fiducia di condurre missioni militari in proprio; inoltre, per i produttori di droni USA potrebbero aprirsi le porte di mercati finora inaccessibili.

Il periodo di valutazione da parte del Congresso è terminato il 27 Maggio scorso senza che il Congresso medesimo facesse alcuna mossa per bloccare l’accordo. Il Congresso è ancora in grado di bloccare la vendita se approva una risoluzione congiunta di disapprovazione sia alla Camera che al Senato entro 15 giorni, anche se alcuni membri del Congresso di entrambe le parti dicono che tale mossa è improbabile.

Post tratto e parzialmente riadattato da http://tolonews.com/en/afghanistan/6393-us-plans-to-arm-italys-reaper-drones-deploy-to-afghanistan

Il silenzio di Obama sui massacri a Piazza Tahir. Islamisti in testa anche al secondo turno

Da qualche ora in rete e sulle principali home page dei giornali europei potete constatare la gravità della situazione in Egitto attraverso la visione di uno sconvolgente filmato in cui una donna viene brutalmente pestata e bastonata dai militari dell’Esercito. Un atto talmente vile e efferato che dovrebbe meritare subito una condanna netta da parte della Comunità Internazionale. Invece, anche in Italia (Ministro degli Esteri, Presidente della Repubblica, perché non parlate?) vige il silenzio delle istituzioni, un silenzio che nel mondo anglosassone investe pure i giornali più importanti, in primis The Washington Post. Questo il misero trafiletto che la vicenda ha meritato sulla pagina internazionale del WP, peraltro privo di riferimenti al video che circola sul web:

D’altronde né Hillary Clinton, né Barack Obama hanno emesso note ufficiali con le quali condannano le violenze di questi giorni in Tahir. Il massimo dell’esposizione che Washington ha avuto nei giorni scorsi è stata quella di strigliare i militari con un comunicato dai toni molto delicati:

In Egitto la transizione verso la democrazia deve continuare, con elezioni in tempi brevi, e la messa in atto di tutte le misure necessarie per garantire la sicurezza e prevenire l’intimidazione. Innanzitutto noi crediamo che il passaggio dei poteri ad un governo civile debba avvenire quanto prima possibile in maniera giusta e completa per soddisfare le legittime aspirazioni del popolo egiziano (blitz quotidiano).

I militari, con la scelta di nominare capo del governo Kamal el-Ganzouri, ex primo ministro durante il regime di Hosni Mubarak, hanno apertamente sfidato la Casa Bianca. Per trent’anni gli USa hanno sostenuto e finanziato la casta dei militari in Egitto al solo scopo di difendere la pace di Camp David del 1979 fra Egitto e Israele. Se Obama eccede nelle pressioni, i militari potrebbero loro stessi, ancor prima di un eventuale governo islamico, mettere in discussione i rapporti con Gerusalemme. Obama ha riferito che gli USA continueranno a fornire supporto all’Egitto con qualsiasi governo. In realtà, gli aiuti in armi che gli USa forniscono al paese, vengono impiegati per reprimere la rivolta. E il solo affermare che gli USA chiedono al più presto la transizione a un regime democratico, stride con quanto sta emergendo dai risultati del secondo turno delle elezioni:

Egitto, partiti islamisti in testa anche al secondo turno

 

Gli islamisti, sia quelli più moderati che quelli più intransigenti, avrebbero vinto anche il secondo turno delle legislative egiziane. Con il 39% dei voti, il Partito Giustizia e Libertà, braccio politico dei Fratelli Musulmani egiziani, ha rivendicato di essere la prima formazione. Secondi, come alla prima tornata, nuovamente i salafiti del partito Al Nour, che sostiene di aver ottenuto oltre 30%. L’affluenza sarebbe stata del 67%. (Il Sole 24 ore).

Chiunque è in grado di capire che un governo fra Fratelli Musulmani e i salafiti sostenuto dagli USA con la medesima intensità degli ultimi trent’anni è cosa impossibile, tanto più che aiuti sotto forma di armamenti avranno buona probabilità di essere impiegati un giorno contro lo stesso Israele. E’ già accaduto nella storia: che i nemici in un conflitto si sparino entrambi con proiettili made in USA.

Ma per l’Italia è downgrading politico

Downgrading politico, così l’ha definito Mario Monti sul Corriere della Sera. La lettera che Trichet, presidente della BCE, ha recapitato al governo italiano fra giovedì e venerdì era di quelle perentorie: un diktat, si direbbe in circostanze meno drammatiche di queste. L’opposizione non ha calcato la mano – eccetto Di Pietro che ancor oggi, incurante della situazione, ha parlato di ‘Italia sotto tutela dell’Unione Europea‘, a voler dire che il governo non ha più alcuna autorevolezza e – di fatto – è commissariato.

La lista della spesa, opera del duo Sarkozy-Merkel, che Trichet ha consegnato a Tremonti, poi enucleata in quella magnifica conferenza stampa a tre – Tremonti, Berlusconi, Letta – di venerdì sera, a mercati rigorosamente chiusi – è il corrispettivo in legislazione che i nostri creditori – le banche di Francia e Germania! – pretendono. Cosa farà in cambio la Bce? Lunedì servirà sul piatto dei mercati dei titoli di stato, moneta sonante per rastrellare i malsani Btp decennali italiani. In gergo, si chiama ‘quantative easing‘, quantitativo di alleggerimento, un pacchetto di miliardi di euro creati dal nulla che servono a eliminare dal mercato i titoli tossici. Quelli italiani, appunto. Non spagnoli, né portoghesi, né greci. Italiani.

Non state a guardarvi in giro. La tv, la Rai, Mediaset, sono allineati al governo e perciò non percepiscono la portata della nostra situazione debitoria. La ignorano perché la negano, abituati come sono a negare la realtà. I mercati domani colpiranno duro, e colpiranno i nostri titoli, le nostre banche. La scusa che vi daranno in pasto sarà incentrata sulla seguente affermazione: “è una crisi internazionale, causata dal downgrading USA, dalla Grecia, dalla titubanza europea, da Angela Merkel e dai suoi guasti politici interni che le vietano di aderire a politiche di sostegno comune”. Tutto vero, ma parziale: colpiranno l’Italia perché il nostro paese non ha fornito alcuna risposta concreta alla riduzione del debito e allo stimolo della crescita. Perché ci si è affidati a misure non strutturali, posticipate nel tempo, spesso legate a provvedimenti cornice – leggi delega – ancor tutti da definire, o rimandanti a interventi normativi degli enti locali, quindi dall’esito incerto. I giornali italiani stamane festeggiavano il downgrading del rating USA con titoli a sei colonne, una reazione isterica volta a sottolineare che anche i ricchi piangono, quindi la crisi è globale e i governi italiani – di tutte le bandiere – sono immuni da colpe. Ovvero, a questo punto tutto è lecito, anche ridiscutere profondamente e in senso riduttivo i diritti sociali dei cittadini, dall’assistenza sanitaria alle pensioni per finire con il diritto a non essere licenziati senza giustificato motivo. Solo apparentemente diranno di voler colpire i privilegi di casta, a cominciare dalle caste professionali – avvocati, notai – per finire con quelle istituzionali.

Il downgrading politico non risiede tanto nel fatto che dobbiamo accettare la ‘cura europea’, quanto nello scivolamento verso una politica dell’opportunismo, una politica che farà a pezzi la comunità sociale e imporrà un sistema oligopolistico del privilegio. Tutto questo in nome del “risanamento”.

Senato USA blocca il piano anti default dei Democratici

Secondo la Reuters, il Senato USA avrebbe votato contro la proposta di accordo dei Democratici per l’innalzamento del tetto del debito USA. E’ una notizia arrivata ora:

The U.S. Senate defeated a Democratic proposal to raise the debt ceiling on Sunday as lawmakers closed in on a deal that would be acceptable to both parties. By a vote of 50 to 49, Senate Majority Leader Harry Reid’s plan fell short of the 60 votes needed to advance in the 100-member body. Elements of Reid’s plan are likely to surface in the bipartisan deal which could be completed this afternoon. The Senate is poised to move quickly once that deal is reached. “The arrangement that is being worked on with the Republican leader and the administration and others, is not there yet,” Reid said on the Senate floor after the vote. “We’re hopeful and confident it can be done.” Reid told lawmakers not to wander too far from the Capitol in case he calls another vote.

“I would not suggest a ballgame,” he said.  Under normal Senate rules, a final vote on any deal could be delayed until Wednesday, one day past the deadline set by the Treasury Department to ensure the United States does not default on its obligations. But any deal could include provisions to ensure that Congress acts before then, a Democratic aide said.

(France24).

Questo link vi racconta lo stato delle trattative: http://www.repubblica.it/economia/2011/07/31/news/usa_debito_slitta_voto-19834763/?ref=HREC1-1

Debito USA, Obama ha tre settimane per evitare il default

Il debito USA ha per legge un tetto massimo pari a 14.300 miliardi di dollari. Tetto che ha già superato. E’ ovvio che nessuno lo ha detto a Moody’s, tantomeno a Standard & Poor’s. Il governo USA ogni dannato mese deve finanziarsi rastrellando sul mercato 125 miliardi di dollari emettendo titoli di debito. Il 2 Agosto è la data discriminante: fino a quel giorno, infatti, il Governo ha liquidità sufficiente per rimborsare il debito in scadenza. Dopo il 2 Agosto, bye bye zio Sam. a meno che Obama non riesca nell’impresa di metter d’accordo Repubblicani e Democratici, divisi in congresso sulla scelta di aumentare il tetto massimo di debito. Ma i Repubblicani soffrono il pressing del Tea Party di Sarah Palin, contrari a un aumento della tassazione che si imporrebbe a causa delle extra emissioni di debito e tergiversano su un possibile accordo con i Democratici.

Risultato? Obama ha a disposizione tre scelte:

la prima è che l’amministrazione rinvii alcuni pagamenti. La seconda è che il presidente si appelli a un articolo della Costituzione (14esimo emendamento) per ignorare il Congresso e continuare ad emettere debito oltre il tetto consentito. La terza opzione prevede l’autorizzazione all’amministrazione di considerare alcuni pagamenti in via prioritaria (rassegna.it).

Recentemente il congresso ha bocciato un aumento del tetto del debito per 2.400 miliardi di dollari. Le ragioni dei Repubblicani erano chiare: niente aumento senza un piano di rientro dal deficit, che viaggia intorno all’11% (ah, se fossero in Europa scatterebbero le sanzioni per violazione del Patto di Stabilità…), una percentuale non dissimile da quello di Spagna e Gran Bretagna a fine 2009. Il provvedimento legislativo ha bisogno del voto a maggioranza qualificata dei due terzi. Senza un intervento del Congresso, gli USA vanno incontro al destino della Grecia: dovranno dichiarare lo stato di insolvenza, ovvero il Default finanziario. Una catastrofe, secondo Timothy Geithner, titolare del dipartimento del Tesoro.

Se c’era una certezza al mondo, questa era rappresentata dai Treasure, i titoli di stato federali. Lontano dal diventare spazzatura, poiché le varie agenzie di rating usualmente dormono sul tetto di un vulcano attivo, certamente i Treasure e il dollaro non sono più il faro della finanza mondiale. Un’altra faccia della crisi dell’Impero USA.

La Guerra del Futuro e la ricerca del nemico

La morte di Osama non smette di occupare le pagine dei giornali. Ho già detto delle “due” morti di Osama: quella del corpo e quella dell’ologramma. Ieri i video rilasciati dal Pentagono, a loro dire sequestrati nel “compound” di Abbottabad, hanno mostrato un Osama invecchiato e intento a rimirarsi nei video messaggi preparati per i suoi seguaci. Una visione paradossale del misero ometto che osserva se stesso, “icona” del male, rapito dallo schermo e trasformato in questa mimesis del Capo della jihad.

Osama non era un nemico diretto degli Stati Uniti. L’intento suo ultimo era quello di rovesciare la monarchia saudita. L’Occidente doveva essere cacciato dalla Terra Santa, e Terra Santa era la terra dell’Islam. Ben prima delle Torri Gemelle, sul finire degli anni novanta, il lungo conflitto del terrore era già ampiamente teorizzato dall’amministrazione americana come conflitto del futuro: così disse Madeleine Albright, allora segretario di stato del Presidente Clinton, secondo la quale per tramite di quella guerra si sarebbe deciso il “nostro declino o la nostra sopravvivenza politica”. Non aveva torto: oggi sappiamo che dopo l’11 Settembre gli Stati Uniti non sono più riusciti a realizzare il pareggio di bilancio, che il debito pubblico americano ha un “destino greco” scritto addosso e il dollaro presto o tardi subirà una svalutazione che peserà sull’intero sistema commerciale mondiale. Se di sopravvivenza politica si tratta, sarà necessariamente connotata dal declino nella potenza globale quale essi sono stati fino a questo momento. E se al tempo di Clinton gli USA necessitavano di un nemico – selezionato e individuato in Osama Bin Laden e nella sua rete terroristica – l’odierno è fatto di masse in agitazione che rovesciano regimi corrotti al potere da trent’anni. E l’America, terra della libertà, non può stare dalla parte di quegli attempati dittatori. Gli USA non possono ricercare il nuovo nemico nelle masse arabe. Pertanto, il sistema dualistico che dal dopoguerra ha regolato i rapporti internazionali (dalla spartizione di Yalta al bushiano “o con noi o contro di noi”) non trova più alcuna applicazione nel nuovo scenario. Obama forse questo lo sa; forse ne è stato il primo teorico con il concetto della multilateralità. La sopravvivenza politica degli USA passa oggi per il ritorno a una democratizzazione dei rapporti fra le nazioni. Passa per forza di cose per il modello europeo della multigovernance (seppur con notevoli difetti). Poiché lasciare l’ordine mondiale alla mercé delle contrattazioni fra le nuove potenze commerciali, significa di nuovo caos, dazi doganali, guerre per il mercato.

L’apocalisse giapponese spingerà gli USA alla guerra in Libia?

Per qualche ragione, due mari lontanissimi, il Mediterraneo e l’Oceano Pacifico, diventano stranamente “comunicanti” e non già perché si possa navigare da uno all’altro senza passare per terra, bensì perché la storia e la geologia hanno deciso così. E tutto per colpa della necessità degli uomini di avere energia a buon prezzo per le proprie attività e per le proprie abitazioni. Sì, diciamolo, per colpa del petrolio.

Da un lato, il Giappone con la sua inimmaginabile apocalisse, la distruzione di intere città e di industrie, in primis quella energetica che sta portando al melt down due o tre reattori della centrale di Fukushima. Domani è annunciato il razionamento dell’energia elettrica: per Tokyo sarà il black out. Parliamo di una città di 13 milioni di abitanti. In tutta l’area metropolitana vivono circa 35 milioni di persone. Ergo, il governo giapponese dovrà rivedere la propria politica energetica con misure emergenziali, la prima delle quali sarà incrementare la produzione di elettricità attraverso quella parte di infrastruttura che impiega combustibile non nucleare, ovvero gas e petrolio. Ma mentre per il gas è difficile incrementare la produzione in tempi brevi – sono necessari nuovi gasdotti, nuovi rigassificatori – per il petrolio il problema non sussiste: faranno arrivare qualche petroliera in più. L’energia elettrica di provenienza nucleare in Giappone è circa il 30% di quella prodotta. Considerando che gli impianti coinvolti dal sisma-tsunami sono circa sette, in funzione ne restano almeno undici delle diciotto attualmente funzionanti. Ne consegue – e questo è certo un calcolo spannometrico poiché non conosco la potenzialità degli impianti né il numero di reattori spenti – circa il 10-15% di energia in meno.

Alla riapertura dei mercati sapremo se il rally del prezzo del petrolio di questi giorni si tramuterà in una tendenza chiara al rialzo. L’incremento di fabbisogno di oro nero del Giappone produrrà una scossa sui listini dei mercati. E di riflesso avremo uno shock petrolifero in piena regola. Il sistema produttivo è in grado di reagire alla nuova domanda? I paesi OPEC incrementeranno le attività estrattive? Gli USA metteranno mano alle famigerate riserve?

Qui entra in campo il ‘problema Libia’. L’Europa se n’è lavata le mani, con Italia e Germania su una linea prudente mentre Sarkozy spingeva già per la guerra totale (o Total) al dittatore libico. Gli Stati Uniti sono divisi fra amministrazione Obama desiderosa di cacciare il brutale Gheddafi e gerarchie militari tiepide sull’ipotesi di aprire un terzo gravoso conflitto. In mezzo gli interessi petroliferi degli inglesi – Bp e le sue dannate trivelle – già a far da grancassa agli insorti, speranzosi di trovare il nuovo link per inserirsi nel paese, mentre russi e cinesi, pronti a sostituire i ‘traditori italiani’ con le loro imprese e i loro soldi, restano freddini essendo in buoni rapporti con il Raiss. Questo scenario di blocco potrebbe essere risolto in un batter d’ali se domani i mercati dovessero aprire con il barile sopra i 105 dollari:


A fine Febbraio, infatti, all’apice della crisi libica, quando sembrava che Gheddafi dovesse abbandonare il paese da un momento all’altro, il greggio è volato sopra i 100 dollari. In un solo giorno era aumentato di dodici dollari. E allora la catastrofe giapponese potrebbe far rivedere i piani degli americani: il greggio dell’Arabia Saudita potrebbe non essere sufficiente. Le truppe mercenarie di Gheddafi stanno marciando su Bengasi senza trovare resistenza. Sta a vedere che ora andrà bene anche una No Fly Zone, fatta anche male.

Maghreb, in crisi il potere dei vecchi

Catena Umana degli Studenti davanti ai musei egizi

A cercare delle analogie fra le rivolte di Algeria, Tunisia ed Egitto ci si imbatte invece in una marea di differenze. E se volessimo estendere il campo d’analisi all’altra sponda del Mediterraneo, a Grecia, Albania, Spagna, Portogallo e Italia, dovremmo intensificare il nostro sforzo di immaginazione.

Cominciamo dall’Algeria: il paese non è certo nel gorgo della crisi del debito, tanto più che negli scorsi anni il governo, capeggiato dall’anziano Bouteflika, ha risanato i conti grazie all’aumento dei prezzi degli idrocarburi – l’Algeria è ottava nel mondo come produttrice di petrolio ed esporta gas verso l’Europa, soprattutto verso l’Italia. Eppure, ad inizio anno i prezzi degli alimentari sono cresciuti del 20%. Ed è esplosa la rivolta. Fra l’altro l’algeria è reduce da una sanguinosissima guerra civile, svoltasi nell’indifferenza europea durante gli anni novanta, per la quale Bouteflika si è sempre presentato come pacificatore e “salvatore della Patria”. I disordini dei giorni scorsi non sono attribuibili all’opposizione interna: il FIS, il Fronte Nazionale di Salute, formazione islamica, è stato messo al bando. La rivolta è dovuta alla fame, alla disperazione dei giovani, i più senza lavoro e senza alcuna prospettiva di averlo. L’emigrazione non funziona più come valvola di sfogo, i disperati sono diventati massa ed è difficile che un popolo intero emigri.

Diverso il discorso per la Tunisia, laddove la crisi non ha sfiorato la pur debole economia legata al turismo, al commercio, all’industria chimica e di trasformazione delle materie petrolifere (importate dall’Algeria). Il regime di Ben alì, uno dei più longevi – durava infatti da 24 anni – ha garantito un sostanziale benessere a scapito delle libertà civili e politiche. Se ne deduce che la rivolta è in questo caso legata alla impermeabilità del sistema politico verso la società. Mentre in Algeria è l’incapacità di fornire risposte alla crisi la causa scatenante della rabbia popolare, in Tunisia è la censura e la repressione politica. Ma anche in questo caso è una rivolta di giovani contro un regime di vecchi: giovani senza futuro contro una gerontocrazia abbarbicata al potere. Ben Alì ha pensato bene di mettere in salvo sé stesso e la famiglia. Ha intuito che gli uomini dello Stato, polizia ed esercito in primis, non erano disposti a seguirlo sino in fondo nella difesa del privilegio di casta.

La stessa cosa la starà pensando Mubarak, in queste ore rifugiato a Sharm El Sheik consapevole che l’esercito non è con lui e il popolo vuole la sua testa. L’Egitto forse riassume in sé entrambe le peculiarità degli altri due paesi: la repressione politica e la fame. In più su di esso convergono le attenzioni degli USA e di Israele per questioni di equilibri geopolitici: fra l’altro in Egitto esiste un pulviscolo di formazioni islamiche dedite alla lotta armata che potrebbero far scivolare il paese veros una forma di stato di tipo confessionale, alla stregua dell’Iran. In queste ore appare sempre più evidente il lavoro degli USa per condizionare la transizione: l’oganizzazione islamica storica, i Fratelli Musulmani, fondata nel 1928, propende per un governo guidato dal El Baradei. Costituire un governo con i Fratelli Musulmani significa – per gli USA – sottrarre il paese all’estremismo alquaedista. Qualcuno sussurra che si tratti di una strategia studiata da tempo. Addirittura si sostiene che la rivolta sia stata suggerita da Washington al fine di agevolare la transizione di un leader oramai ottanduenne:

Un documento diplomatico segreto pubblicato da Wikileaks rivela che gli Stati Uniti, pur appoggiando in Egitto il governo  di Mubarak, da almeno tre anni sostengono segretamente alcuni dei dissidenti che sarebbero dietro la rivolta di piazza di questi giorni. Secondo il dispaccio, la decisione farebbe parte di un piano per favorire un “cambio di regime” in senso democratico al Cairo, nel 2011. Dal 2008, gli Usa lavorerebbero quindi in segreto alla deposizione del presidente egiziano (La Repubblica.it).

Che la rivolta in Egitto sia pilotata o meno, anche in questo caso si ripete il medesimo schema: giovani contro vecchi. Giovani senza futuro contro anziani presidenti inamovibili da decenni. non saprei dire se gli USA abbiamo preconizzato anche questo. Ma l’impegno politico dei giovani nei sovvertimenti di regime è un elemento costante che si ripropone sempre: così è accaduto anche nella Germania Est contro l’anziano Honecker; così in Serbia con Milosevic.

Di questo terzetto manca solo la Libia e il suo caudillo Gheddafi, classe 1942: qualcuno ha parlato di effetto domino. E del Mediterraneo come della cassa di risonanza dell’onda di rivolta del Maghreb. Un’onda anomala che potrebbe investire anche l’Italia, governata da tal Silvio Berlusconi, classe 1936.

 

Noam Chomsky e la delusione Obama: un presidente dimezzato

Il testo che segue è opera del famos scrittore ed economista noam Chomsky, pubblicato in Italia per la prima volta da Il Manifesto lo scorso 18 Novembre: è un’analisi spiazzante, che inchioda Barack Obama ai legni della sua strategia compromissoria.

“Un bilancio in rosso per Obama”
di Noam Chomsky

L’azione più importante di Barack Obama prima di assumere la carica è la scelta dello staff dirigente e dei consiglieri. La prima scelta è stata per la vice-presidenza: Joe Biden, uno dei sostenitori più tenaci dell’invasione in Iraq tra i senatori democratici, da lungo tempo addentro al mondo di Washington, che vota coerentemente come i compagni democratici – sebbene non sempre, come quando ha portato allegria negli istituti finanziari appoggiando un provvedimento per rendere più difficile agli individui cancellare i debiti dichiarando la propria condizione di insolvenza.
Il primo incarico post-elettorale è stata la nomina cruciale del capo di gabinetto: Rahm Emanuel, anch’egli uno dei più strenui sostenitori dell’invasione in Iraq tra i deputati democratici e, come Biden, buon conoscitore di Washington. Emanuel è anche uno dei maggiori beneficiari dei contributi di Wall Street alla campagna elettorale. Il Center for responsive politics riferisce che «è stato il massimo beneficiario, tra i rappresentanti, dei contributi per la campagna del 2008 provenienti da fondi a rischio, società private con capitale di rischio e le maggiori società finanziarie e di assicurazione». Da quando è stato eletto al Congresso nel 2002, «ha ricevuto più soldi da singoli e da comitati di sostegno elettorale nel mondo degli investimenti e delle assicurazioni che da altri settori dell’industria»; che sono anche quelli che hanno dato i contributi più consistenti ad Obama. Il suo compito era quello di controllare il modo in cui Obama affrontava la peggiore crisi finanziaria mai verificatasi dagli anni ’30, per la quale i suoi finanziatori e quelli di Obama condividono ampie responsabilità.
La sinistra ai margini

In un’intervista di un editorialista del Wall Street Journal ad Emanuel fu chiesto che cosa avrebbe fatto la nuova amministrazione Obama riguardo alla «leadership democratica al Congresso, piena di baroni di sinistra con il loro proprio programma»; che contempla il taglio delle spese per la difesa e le «manovre per applicare esorbitanti tasse sull’energia per combattere il riscaldamento globale»; per non parlare dei pazzi totali che in Congresso si trastullano con i risarcimenti per la schiavitù e simpatizzano anche con gli europei che vogliono mettere sotto processo l’amministrazione Bush per crimini di guerra. «Barack Obama si opporrà», ha assicurato Emanuel al giornalista. L’amministrazione sarà «pragmatica», schiverà i colpi degli estremisti di sinistra.
L’esperto di diritto del lavoro e giornalista Steve Early ha scritto che «durante la campagna elettorale, Obama ha detto che appoggiava fermamente l’Employee free choice act, una riforma legislativa sul lavoro, a lungo attesa, che dovrebbe essere parte integrante del piano che ha promesso per stimolare l’economia». Tuttavia, quando Obama presentò i suoi massimi consiglieri economici al momento dell’insediamento «e parlò dei passi da fare per dare una “scossa” all’economia (…) la legge di riforma non faceva parte del pacchetto».

Continuando a passare in rassegna le nomine di Obama, il suo Transition board, l’équipe che si occupa di introdurre i nuovi incaricati nel governo, fu guidato da John Podesta, capo di gabinetto di Clinton. Le figure di punta della sua équipe erano Robert Rubin e Lawrence Summers, entrambi entusiasti della deregolamentazione, il principale fattore scatenante della crisi finanziaria attuale. Come segretario del tesoro Rubin ha lavorato duramente per abolire la legge Glass-Steagall, che aveva separato le banche commerciali dagli istituti finanziari esposti ad alto rischio.
Conflitto di interessi nello staff

La stampa economica esaminò i documenti del Transition economic advisory board di Obama, che si riunì il 7 novembre 2008 per definire le linee di intervento sulla crisi finanziaria. L’editorialista di Bloomberg News, Jonathan Weil concluse che «molti di loro dovrebbero ricevere immediatamente una convocazione in tribunale come persone informate sui fatti, non un posto nel circolo ristretto di Obama». Circa metà «ha avuto incarichi fiduciari in società che, in qualche misura, o hanno bruciato i loro bilanci o hanno contribuito a portare il mondo al collasso economico, o entrambe le cose». È plausibile pensare che «non scambieranno i bisogni della nazione per gli interessi dei loro consoci?» Weil ha anche precisato che il Capo di gabinetto Emanuel «era amministratore alla Freddie mac nel 2000 e 2001, mentre la finanziaria commetteva frodi in bilancio».

La preoccupazione primaria dell’amministrazione è stato il tentativo di arrestare la crisi finanziaria e la parallela recessione nell’economia reale. Ma c’è anche un mostro nell’armadio: un sistema sanitario privatizzato notoriamente inefficiente e scarsamente regolato, che minaccia di mettere in difficoltà il bilancio federale se la crisi persiste. La maggioranza della gente è da lungo tempo a favore di un servizio sanitario nazionale, che dovrebbe essere molto meno costoso e più efficace, come prove comparative (e molti studi) dimostrano.

Appena nel 2004, qualunque intervento del governo nel sistema sanitario era descritto sulla stampa come «politicamente impossibile» e «privo di sostegno politico» – che vuol dire: contrastato dalle compagnie di assicurazione, dalle grandi aziende farmaceutiche e da altri che contano, qualunque cosa ne pensi la popolazione, del tutto irrilevante. Nel 2008, tuttavia, prima John Edwards, poi Obama e Hillary Clinton, hanno avanzato proposte che si avvicinavano a quello che la gente ha a lungo desiderato. Queste idee ora hanno un «sostegno politico». Che cosa è cambiato? Non l’opinione pubblica, che resta come era prima. Ma nel 2008 i settori di potere più potenti, in prima fila l’industria, era arrivata a riconoscere che subivano gravi danni dal sistema sanitario privatizzato. Di conseguenza, la volontà popolare comincia ad avere «sostegno politico». Lo spostamento ci dice qualcosa sulle disfunzioni della democrazia e sulle lotte che si prospettano.

Quello che è accaduto dopo dice ancora di più.
Obama ha abbandonato subito l’opzione popolare e sensata dell’assistenza medica da parte di un unico ente, che aveva detto di voler appoggiare. Ha anche raggiunto un accordo segreto con le aziende farmaceutiche secondo il quale il governo non avrebbe «negoziato il prezzo dei medicinali e non avrebbe richiesto rimborsi addizionali» a seguito delle pressioni delle lobby e contro l’opinione di un netto 85 per cento della popolazione. Una «opzione pubblica» – nella sostanza l’opzione di «medicare per tutti» – rimase, ma fu sottoposta ad un intenso attacco in base alla motivazione, interessante, che gli assicuratori privati non sarebbero stati in grado di competere con un piano governativo efficiente (pretesti più sofisticati non erano meno bizzarri). Nel giugno 2009 il 70 per cento della popolazione era a favore del piano, nonostante l’instancabile e spesso isterica opposizione di gran parte del settore assicurativo.

Due mesi dopo, l’articolo di fondo di Business Week era titolato: «Le assicurazioni sulla salute hanno già vinto: come United health e Rival carriers, manovrando dietro le quinte a Washington, hanno modellato la riforma sanitaria a loro beneficio». Il settore assicurativo «è riuscito a ridefinire i termini della discussione sulla riforma in misura tale che non contano i dettagli del voluminoso progetto di legge che il Congresso manderà al presidente Obama l’autunno prossimo, il settore riemergerà ancora più redditizio (…) i manager delle assicurazioni dovrebbero sorridere di piacere».
A metà settembre, quando i progetti di legge stavano arrivando sul tavolo del Congresso, il mondo degli affari manifestò il suo appoggio alla versione della Commissione finanze del senatore Max Baucus, che aveva lavorato «in stretto contatto con i gruppi imprenditoriali», più che con altri, si dice con approvazione. Le proposte della Camera furono respinte perché non sufficientemente a favore dei gruppi affaristici. Il presidente della Business Roundtable definì la proposta della Commissione finanze del Senato «molto in linea» con i suoi principi, specialmente per il fatto che «non richiede la creazione di un piano pubblico».
Una riforma dimezzata

Naturalmente nessuna vittoria basta di per sé. Perciò, mentre la lotta per la riforma del sistema sanitario paralizzò virtualmente il Congresso alla fine del 2009, le lobby affaristiche iniziarono una grande campagna per ottenere ancora di più, e ci riuscirono. L’opzione pubblica fu alla fine «fatta naufragare» insieme con un connesso «medicare buy-in» che avrebbe permesso alle persone di 55 o più anni di avere il servizio sanitario nazionale. A quel punto la gente era a favore dell’opzione pubblica dal 56 al 38 per cento e il Medicare buy-in in percentuale anche maggiore, tra il 64 e 30 per cento. Il sondaggio che mostrava questi risultati fu reso pubblico, ma i fatti furono omessi: il titolo diceva «Sondaggi: la maggioranza non approva le leggi per il servizio sanitario». L’articolo lascia l’impressione che la popolazione si unisca all’attacco della destra contro il coinvolgimento del governo nell’assistenza sanitaria, assalto condotto dagli interessi affaristici, contrari a quello che proprio il sondaggio rivela e che altri sondaggi mostrano da decenni.
E che hanno continuato a mostrare nel 2010. Un sondaggio della Cbs reso pubblico l’11 gennaio ha rilevato che il 60 per cento degli americani non approvava il modo in cui il Congresso stava affrontando il problema del sistema sanitario. Le cifre dettagliate mostrano che, tra quelli che sono contro il modo in cui la proposta regola il rapporto con le compagnie di assicurazione, la grande maggioranza pensa che non si spinga abbastanza avanti (il 43 per cento di «non abbastanza», contro il 27 per cento di «troppo»). L’assistenza sanitaria è stata una questione cruciale nelle elezioni al senato nel Massachusetts nel gennaio 2010, in cui ha vinto il repubblicano Scott Brown. Tra i Democratici che si sono astenuti o hanno votato per Brown, il 60 per cento pensava che il programma sanitario non si spingeva abbastanza avanti (l’85 per cento di quelli che si astennero). Tra gli astenuti e i democratici che hanno votato per Brown, circa l’85 per cento era a favore dell’opzione pubblica.

In breve, l’evidenza mostra che in realtà cresceva la rabbia popolare contro il progetto di legge sulla sanità di Obama, prima di tutto perché era troppo limitato.
Mentre il settore finanziario aveva tutte le ragioni per sentirsi soddisfatto dei risultati ottenuti dopo gli sforzi per far eleggere il suo uomo, Obama, la storia d’amore ha cominciato a volgere alla fine nel gennaio 2010, quando Obama ha deciso di reagire al montare della rabbia popolare contro gli «stipendi d’oro» per i finanzieri, mentre altri erano impantanati in una «triste strada tutta in salita per i lavoratori». Ha dunque adottato una «retorica populista», criticando le enormi gratifiche per chi era stato salvato dall’intervento pubblico, e proponendo anche delle misure per limitare gli eccessi delle grandi banche (inclusa la «regola Volcker», che avrebbe in parte ristabilito la legge Glass-Steagall, impedendo alle banche commerciali con garanzia governativa di usare i depositi per investimenti a rischio). La punizione per la sua deviazione è stata rapida.
In nome del libero mercato

Le grandi banche hanno annunciato con rilievo che avrebbero spostato i finanziamenti verso i repubblicani, se Obama avesse insistito con i discorsi sulla regolazione e la retorica contro i finanzieri.
Obama ha capito il messaggio. In pochi giorni ha informato la stampa economica che i banchieri sono bei «tipi», scegliendo Dimon e il presidente Lloyd Blankfein della Goldman Sachs come persone degne di lode e, per rassicurare il mondo degli affari, ha spiegato: «Io, come la maggior parte del popolo americano, non provo invidia per chi ha successo e ricchezza», nella forma delle enormi gratifiche e profitti che fanno infuriare la gente. «Fanno parte del sistema di libero mercato», ha continuato Obama; e non sbagliava, considerato il modo in cui il «libero mercato» è interpretato nella dottrina del capitalismo di stato.

Osservazioni come queste suggeriscono un interessante esperimento mentale. Che cosa sarebbe il contenuto del «marchio Obama» se la popolazione dovesse diventare «partecipe» piuttosto che semplice «spettatrice dell’azione»? È un esperimento degno di essere tentato, non solo in questo caso, e c’è qualche ragione per supporre che il risultati potrebbero indicare la via per un mondo più sensato e decente.

Israele in cerca del ‘casus belli’

Niente di quello che è accaduto sulle navi della Freedom Flotilla per mano delle teste di cuoio israeliane è accaduto per caso. Certo, di fondo vi è un certo grado di stupidità politica, che risiede nel concetto novecentesco – quindi generatore di violenza – dello stato-patria-nazione-religione (che nel caso israeliano si acquisisce per nascita, nel senso che vi è assoluta identità fra religione e nazionalità). Ma Israele ha agito scientemente, con ragionato calcolo:

  • in primis, con lo scopo di far saltare fin dal principio la strategia di Obama di un nuovo percorso di riappacificazione con la Palestina;
  • secondo, mostrando al loro vecchio alleato a stelle e strisce che possono fare anche da soli;
  • infine, per avvalorare la tesi politica di Israele superpotenza regionale dotata di arma atomica come unica formula risolutoria dell’eterno conflitto con gli arabi: una pax terroris, fondata cioè sul terrore dell’olocausto nucleare.

Una prova? Vittorio Arrigoni scrive sul blog Guerrilla Radio:

Oggi al Diane Rehm show, un popolare talk show di una radio statunitente, Michael Oren, ambasciatore israeliano negli USA ha dichiarato che la Mavi Marmara era “troppo grande per essere fermata con mezzi non violenti”. Queste sono state le sue precise parole.

“”too large to stop with nonviolent means.” .

Tutto ciò significa una sola cosa, che l’attacco alle navi della Freedom Flotilla, e l’uccisione di 9-20 civili, era PREMEDITATO (Guerrilla Radio).

L’Italia, all’ONU, ha votato allineandosi agli USA, negando cioè un’inchiesta internazionale. Gli USA hanno imposto che dalla prima bozza della risoluzione venisse tolto l’aggettivo ‘indipendente’, poiché “il termine suggeriva che l’inchiesta non dovesse essere fatta da Israele” (Onu: sì ad una missione d’inchiesta Abu Mazen sul blitz: “E’ terrorismo” – LASTAMPA.it)

Di fatto, non si può contraddire l’affermazione secondo la quale Israele abbia dato luogo ad una reazione sproporzionata. Anche la delegazione diplomatica USA non ha potuto nascondere una certa insofferenza verso l’arroganza di Israele. I precedenti storici, poi, non giocano di certo a favore di Netanyahu:

  • La notte del 15 febbraio 1988 un’imbarcazione esplodeva nel porto cipriota di Limassol. Si trattava dell’Al Awda (“il ritorno”) ed era carica di aiuti umanitari destinati ai profughi in Palestina. Il Mossad che collocava una bomba sul quello scafo qualche ora prima aveva ucciso i tre membri dell’OLP incaricati della missione
  • Ispirati da quel primo tentavo tragicamente fallito di rompere l’occupazione via mare, il 23 agosto 2008 una quarantina di attivisti provenienti da ogni angolo del pianeta navigando su due fragili pescherecci riuscirono nell’impresa di sbarcare a Gaza, infrangendo un assedio che durava dal 1967. In seguito a quell’epica missione, di cui ebbi l’onere e l’onore di far parte, altre 4 volte gli attivisti del Free Gaza Movement riuscirono a condurre barche cariche di aiuti e attivisti all’interno della Striscia. Durante e dopo il massacro israeliano del gennaio 2009, tre ulteriori sbarchi furono violentemente impediti dalla marina israeliana: i pacifisti attaccati in acque internazionali come da pirati fuoriusciti dalla più fantasiosa delle pagine di un moderno Salgari (Guerrilla radio).

Come una sorta di nemesi, la storia sembra ritorcersi contro Israele. Da popolo senza patria, da popolo della diaspora e dell’olocuasto, riveste oggi il ruolo che fu dei suoi torturatori. Qualcuno ha ricordato l’episodio di un’altra nave, che seguì un destino non dissimile dalla cronaca dell’attacco alle navi della Flotilla. Una nave che dalla Germania prese la rotta della ‘Terra Promessa’, la stessa terra di oggi, contesa, intrisa di sangue, divisa da confini illogici e filo spinato:

    • La Exodus, salpata dal porto italiano della Spezia, trasportava di 4.515 profughi ebrei scampati ai campi di concentramento che tentarono di sbarcare in Palestina e trovare rifugio nella comunità ebraica. Tuttavia l’esercito inglese, in modo assolutamente legale come era sua responsabilità in base al mandato di protettorato della Palestina, stabilito dall’ONU, che sarebbe scaduto l’anno successivo, bloccò la nave e le impedì di sbarcare i profughi. Il governo inglese infatti era intenzionato a bloccare l’immigrazioe ebraica in seguito ai disordini in atto fra arabi ed ebrei.

      La nave fu persino speronata nelle acque davanti Haifa dai cacciatorpediniere inglesi, che causò delle vittime a bordo. L’Exodus dopo un lungo giro nel Mediterraneo fu costretta a tornare in Germania, ad Amburgo dove i profughi furono rinchiusi in un ex-lager nazista convertito in un campo di prigionia per ebrei.

Se ne parla anche:

Crisi UE: Il debito che non ti aspetti

Venerdì, il blog di Beppe Grillo pubblicava questo post, Il Debito dei Maiali (e oggi ci riprova con ‘La crisi piovuta dal cielo’), in cui con tanto di video si evidenziavano i rapporti di debito fra i paesi europei e i cinque cosiddetti P.I.I.G.S., i maiali d’Europa, appunto, che prosperano accumulando debito. Si dà il caso che il grafico impiegato e l’impianto argomentativo fossero ripresi da un articolo del The New York Times:

Il grafico naturalmente viene impiegato dal sito di Grillo per riaffermare la tesi secondo cui ‘adesso tocca alla Grecia, ma i veri maiali siamo noi italiani e prima o poi subiremo la stessa sorte’, cavallo di battaglia del Grillo economista. Ma l’analisi di Nelson D. Schwartz, il vero autore, difetta di ‘americanocentrismo’ poiché nel quadro così delineato si è ben guardato da includere le “bolle” del debito a stelle e strisce, nonché quella britannica, certamente non così piccola come si potrebbe immaginare:

Il debito pubblico degli Stati Uniti, nel 2009, rappresentava il 70% del Pil [il nostro nel 2009 è salito a 122.9%] mentre il deficit di bilancio ha toccato la stratosferica cifra di 1.400 miliardi di dollari che, secondo il budget della Casa Bianca, nell’esercizio in corso diventeranno 1.556 miliardi: cioè, il 10,6% del Prodotto interno lordo [il nostro è circa il 6% nel 2009]; il rapporto debito/Pil dell’Inghilterra si è attestato, nel 2009, a quota 68,5 per cento. E le stime sono per una veloce crescita: il 79,5% nel 2010 e l’88,5% per il 2011. (I debiti di Usa e UK non sono puniti dai mercati. Ecco perchè, Vittorio Carlini).
I conti degli inglesi sono migliori dei nostri? Si direbbe, ancora per poco. Per esempio, un’agenzia di rating che dovesse valutare il debito inglese dovrebbe certamente considerare il fatto che le stime per gli anni a seguire sono di crescita. In seguito a questa semplice constatazione, dovrebbe esprimersi con un giudizio previsionale, il cosddetto outlook, negativo o parzialmente negativo; almeno dovrebbe esprimere dei rilievi al governo inglese. Rispetto agli USA, un’agenzia di rating ne avrebbe già declassato i titoli di Stato. Si consideri anche che la condizione finanziaria dei singoli stati della federazione statunitense non è migliore di quella della Grecia (caso della California, sull’orlo del default da circa un anno e mezzo). Perché ciò non avviene? Perché i vari Moody’s e S&P si ostinano a assegnare la tripla A con outlook stabile ai bond “Tresaury” USA?
Qualcuno (non Grillo) ha avanzato alcune ipotesi:
  1. “le solite big investment bank di Wall Street usano i soldi prestati dalla Fed per acquistare i Treasury, alzando così i prezzi e tenendo schiacciati i rendimenti” [rendimenti bassi garantiscono rating ottimi] quegli stessi Treasury che poi, attraverso il quantitative easing [l’alleggerimento quantitativo], la Banca centrale americana si ricompra”;
  2. “Se si applicassero i criteri dei paesi emergenti – articola maggiormente Luca Mezzomo, responsabile dell’ufficio studi di Intesa Sanpaolo – la tripla “A” non ci sarebbe già da un pezzo […] non può dimenticarsi un altro aspetto importantissimo». Vale a dire? «Con la loro moneta fanno signoraggio. Le banche centrali acquistano enormi quantità di asset in dollari, usando il bliglietto verde come attività di riserva” (I debiti di Usa e UK non sono puniti dai mercati. Ecco perchè, Vittorio Carlini).

I banksters, ancora loro, che tramano nell’ombra: prima fanno quasi fallire il sistema bancario statunitense, poi ricevono gli aiuti dal Tesoro di Washington e con questi denari freschi tornano sul mercato e fanno incetta di Treasury, facendone così alzare il valore. Al resto ci pensa la Federal Reserve, che stampa carta moneta e con questa ratrella i titoli USA. Capito? Sì, si tratta del signoraggio, quel particolare benefit che riceve chi è investito del diritto di stampare carta moneta. Negli USA, la Fed; in Unione Europea, la BCE. Qui sta l’inghippo:

Nei paesi dell’area euro, il reddito da signoraggio viene incassato dai paesi membri per il conio delle monete metalliche, e dalla Banca centrale europea (BCE) per la stampa delle banconote, che emette in condizioni di monopolio. Tali redditi sono poi ridistribuiti dalla BCE alle banche centrali nazionali in ragione della rispettiva quota partecipazione (per la Banca d’Italia ad esempio il 12,5% […] i singoli stati nazionali provvedono in seguito a prelevare gran parte di tali redditi dalle banche centrali tramite il prelievo fiscale. In taluni casi, come per la Bank of England, essendo la banca centrale completamente di proprietà statale, il reddito derivato dall’emissione delle banconote viene indirettamente incamerato interamente dallo stato (Signoraggio – Wikipedia).
Va da sé che il reddito di signoraggio per produzione delle monete – a carico del singolo stato nazionale – è parecchio modesto per l’alto costo della ‘materia prima’ (metallo). Secondo aspetto: con le monetine non si possono acquistare i titoli del proprio debito (pensate al costo di stampare miliardi di euro in monete da due euro). Ne consegue che gli USA, pur essendo in condizioni debitorie non dissimili dalla Grecia, mantengono inalterata la propria sovranità e possono così spingere la Fed a intervenire sul mercato dei Treasury quando ve ne è la necessità, con l’effetto opposto di aumentare il capitale circolante e svalutare la moneta. La Grecia? Non può stampare carta moneta. Non può recuperare i propri titoli di debito attraverso il quantative easing. Lo può fare la BCE, ma la BCE non risponde ad alcun governo nazionale. Risponde solo a sé medesima. Questo è il problema.
Alcuni governi hanno fatto pressing per superare le ritrosie della Bce ad acquistare titoli di Stato dei paesi in difficoltà (Quattro mosse a difesa dell’Euro – CorSera).
Il vertice di ieri del Consiglio Europeo, presideuto dall’uomo ombra Van Rompuy, non è servito a chiarire se e come la BCE interverrà con il quantitative easing. Non è chiaro cioè se la BCE interverrà sui mercati in difesa dei paesi dell’Eurogruppo qualora uno di questi avesse difficoltà con il quantitativo debitorio in circolo. La BCE non ha alcuna guida politica, né pertanto potrebbe allo stato delle cose, senza una precisa presa di posizione dei governi europei, operare in tal senso. Di fatto la Grecia è sull’orlo del default non solo perché attua politiche finanziarie poco rigorose ed ha una spesa pubblica fuori controllo. Non ha potuto far leva sulla moneta, ed è ricorsa giocoforza al credito bancario, finendo nella spirale debitoria in cui si trova ora. Una politica di riduzione del debito non è sufficiente senza una copertura strategica da parte della BCE.
Che le vie del debito siano incrociate è quanto di più ovvio si potesse scrivere. Se il debito dell’Italia è in mano francese, è pur vero che quello americano è in gran parte in mano cinese. E se un debito può voler significare un certo grado di controllo di un paese sull’altro, è pur vero che il paese creditore dipende dalle scelte finanziarie del paese debitore poiché scelte sbagliate potrebbero metter a pregiudizio il proprio “investimento”.
La questione del debito incrociato non risolve la domanda ‘perché i titoli USA hanno la tripla A con outlook stabile?’
[Secondo] Joel Naroff, noto economista Usa indipendente – [Una revisione del giudizio di outlook stabile] vorrebbe dire, giocoforza, che si pensa ad una revisione del rating. Cui potrebbe seguire l’ipotesi che gli Stati Uniti, seppur in un’ipotesi lontanissina, potrebbero diventare insolventi sul qualche emissione. Un vero e proprio non sense. In realtà – dice Naroff – gli Stati Uniti sono un caso a parte, e come tale devono essere valutati.
Gli USA sono, per le agenzie di rating, un “caso a parte”. E’ implicito in questa affermazione una valutazione di tipo patriottistico. Tant’è vero che i PIIGS d’Europa sono i paesi ‘meridionali’ più gli irlandesi. Forse che le valutazioni di Moody’s del debito inglese siano diverse? Si dice che per la revisione del rating attendano l’esito delle elezioni, che guarda caso non hanno avuto esito certo. Un calcolo molto semplice però può aiutare a capire che la mancata revisione del giudizio di outlook è stato per USA e UK un aiutino concreto. Guardiamo ai dati. Questo il rapporto debito/pil di Italia, USA, UK, Francia e Germania, anni 2005-2010 proiezione (dati OECD). La seconda tabella ci mostra gli incrementi relativi. Va da sé che il rapporto debito/pil del biennio riflette il cattivo andamento economico, però di fatto si può così comprendere che la prestazione peggiore non l’ha avuta l’Italia, ma UK nell’anno 2009; quindi a seguire USA, Francia, Germania e Italia, pur avendo avuto subito quest’ultima decrementi significativi del PIL. Infatti, gli USA, a fronte di un incremento del rapporto debito/pil del 22.93%, mantengono nel 2009 un tasso di crescita del 1%: significa che il debito a stelle e strisce è esploso. Medesimo discorso per UK che nel 2009 cresce dello 0.7%. Senza sottovalutare che il rapporto deficit/pil – l’altra croce di Maastricht – degli USA salirà quest’anno al 12%, lo stesso della Grecia; che il forte indebitamento privato fa salire il rapporto debito/pil al 300%. Chi è più PIIGS?
Nessuno crederà mai ad un paese in cui i cittadini vivono a credito, disse Uriel. Tranne se possiedi una agenzia di rating.
2005 2006 2007 2008 2009 2010
Italy 119,9 117,2 112,5 114,5 122,9 127,3
US 62,3 61,7 62,9 71,1 87,4 97,5
UK 46,1 46,0 46,9 57,0 75,3 89,3
Germany 71,1 69,4 65,5 69,0 78,2 84,1
France 75,7 70,9 69,9 76,1 86,4 94,2
Eurozone 75,10 75,90 77,00 74,50 71,20 73,40
2006 2007 2008 2009 2010
Italy −2,25% −4,01% 1,78% 7,34% 3,58%
US −0,96% 1,94% 13,04% 22,93% 11,56%
UK −0,22% 1,96% 21,54% 32,11% 18,59%
Germany −2,39% −5,62% 5,34% 13,33% 7,54%
France −6,34% −1,41% 8,87% 13,53% 9,03%
Eurozone 1,07% 1,45% −3,25% −4,43% 3,09%

Incrementi rapporto debito/pil anni 2006-2010 (fonte OECD)

Conclusione? Non è tutto debito quel che fanno i maiali. E forse una lettura più attenta dei numeri sarebbe necessaria. La verità è che il copia-incolla non insegna nulla.

Per approfondire: Gli USA stanno peggio della Grecia http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=32189

Gli unici incontestabili giudici sulla qualità del debito continuano a essere tre società inaffidabili. Detengono un potere enorme, ingiustificato. Agiscono in una zona grigia, senza contrappesi, senza concorrenza. E in queste ore contribuiscono in modo decisivo a indebolire l’euro, moltiplicare i dubbi sulla sua tenuta, e dunque rivalutare miracolosamente l’indebitatissima America. Di fronte a un’Europa che potrebbe esplodere, molti investitori sono indotti a pensare che tutto sommato siano meglio i Treasury bonds Usa.