La febbre del No al referendum elettorale agita i sogni dei politici

Sembra un conto alla rovescia. A naso, dicono simultaneamente senza saperlo Follini e Quagliarello, la Consulta dirà no al Referendum contro il Porcellum. Ci sono evidenti ragioni giuridiche, se ne parla da un pezzo ma chi ha evocato la consultazione elettorale con il milione di firme lo ha fatto ‘a tradimento’, sapendo che i quesiti proposti non avrebbero avuto futuro. L’ala maggioritaria del PD e l’IDV al completo dovevano evitare il rischio di un referendum della società civile che era poi l’iniziativa Passigli. Segato in due Passigli, si è pensato alla strategia della pistola sul tavolo (Bersani, cit.), in modo da obbligare l’allora maggioranza a prender in esame la materia, poi è finita l’era berlusconiana e del Porcellum non frega più nulla a nessuno. Questo in sintesi.

Oggi sui giornali sono comparsi tre titoli sulla questione ammissibilità, tre titoli di tenore diverso e che descrivono scenari simili.

La mozione è quella di Vannino Chiti (PD), volta a porre l’attenzione dei colleghi parlamentari verso la riforma della legge elettorale. Una cosiddetta mozione di indirizzo. Acqua fresca. E’ chiaro che davanti ad un no della Consulta, ogni impalcatura di riforma della legge Calderoli verrebbe smontata in quattro e quattrotto. Sul giudizio della Corte sono due le ipotesi più ricorrenti, inammissibilità di entrambi i quesiti, oppure parziale ammissione del secondo quesito, magari riformulato in modo da lasciare in piedi l’architettura del Porcellum, svuotandola degli aspetti più deleteri. In ultima istanza, c’è pure la possibilità che la Consulta ponga al vaglio di legittimità costituzionale alcune norme del Porcellum ma dandosi un termine di tempo molto vago e distanziato nel tempo, lasciando quindi alla Politica tempo e opportunità per un accordo. L’accordo, sia chiaro, è quella cosa che nella discussione parresiastica passa sotto il nome di inciucio: uno scambio fra le propaggini di confine di PD e PdL per un ritorno al proporzionale e ridisegnazione dei collegi in modo da favorire i due partiti più grandi. Far peggio della porcata sarà difficile, ma ci riusciranno.

Se ne è parlato anche qui:

1) Referendum elettorale, le colossali sviste di Panebianco

2) Referendum elettorale, i dubbi sull’ammissibilità

3) Legge elettorale fra referendum e inciucio. Intervista al senatore Belisario

Il referendum abrogativo del Porcellum è inammissibile. A che servono le firme?

La teoria bersaniana del referendum abrogativo del Porcellum come di “una pistola sul tavolo” rischia di essere la bufala del secolo. Fallito il tentativo di Passigli, che tendeva ad abrogare le norme del Porcellum contenenti il cosiddetto abnorme ‘premio di maggioranza’ e quindi a ripristinare un proporzionale puro con le indicazioni di preferenza, il PD ha sposato non senza tentennamenti i quesiti abrogativi – in toto e parziali – di Arturo Parisi. Peccato che la giurisprudenza costituzionale in merito implichi l’inammissibilità di quei quesiti referendari sulle leggi elettorali poiché è inammissibile la vacatio legis in materia elettorale. Lo spiega bene Cesare Salvi su Il Riformista di qualche giorno fa. Articolo che vi ripropongo qui di seguito. Una domanda, però, vorrei rivolgere a Bersani e ai “nostalgici” del Mattarellum: a che servono le firme?

Per qualche approfondimento: Sentenza corte costituzionale n. 47/1991

Il Riformista 09-09-2011

 L’inammissibilità dei referendum elettorali

di Cesare Salvi

La serietà nell’iniziativa politica, in un momento nel quale purtroppo cresce la sfiducia dei cittadini nei confronti dei partiti, è più che mai necessaria. Vorrei quindi sottoporre ai sostenitori del referendum, che dicono di voler abrogare l’attuale legge elettorale per sostituirla con la precedente legge Mattarella, se hanno riflettuto sulle conseguenze che si determineranno tra i cittadini, chiamati in questi giorni a firmare, quando la Corte Costituzionale dichiarerà inammissibili i quesiti.

Allo stato attuale della giurisprudenza della Consulta, questo esito negativo sarà infatti inevitabile.

Fin dalla sua prima sentenza (29/1987), che riguardava la legge elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura, la Corte Costituzionale affermò che «l’organo, a composizione elettiva formalmente richiesta dalla Costituzione, non può essere privato, neppure temporaneamente, del complesso delle norme elettorali contenute nella propria legge di attuazione. Tali norme elettorali potranno essere abrogate nel loro insieme esclusivamente per sostituzione con una nuova disciplina, compito che solo il legislatore rappresentativo è in grado di svolgere».

Questo principio è ribadito da tutta la giurisprudenza successiva.

Il primo dei due quesiti sottoposto in questi giorni alle firme dei cittadini, che prevede l’abrogazione in toto della legge Calderoli, dunque palesemente inammissibile. Né si può sostenere, come pure ho avuto purtroppo occasione di leggere, che l’abrogazione dell’attuale legge fa rivivere quella precedente. Come dovrebbe essere noto, «la natura del referendum abrogativo nel nostro sistema costituzionale è quello di atto-fonte dell’ ordinamento dello stesso rango della legge ordinaria». E, come si insegna al primo anno di giurisprudenza, «l’abrogazione di una norma, che a sua volta aveva abrogato una norma precedente, non fa rivivere quest’ultima» (cito dal noto manuale che adotto per i miei studenti, il Torrente-Schlesinger).

Naturalmente, se uno studente rispondesse all’esame sostenendo il contrario, sarebbe subito bocciato.

Probabilmente non ignari di ciò, i promotori hanno proposto anche un secondo quesito, che abroga solo parzialmente la Legge Calderoli. La Corte costituzionale ha affermato, infatti, che il referendum in materia elettorale è ammissibile se dal “ritaglio” della legge vigente emerge una normativa immediatamente applicabile: se cioè si può andare a votare senza bisogno di ulteriori interventi legislativi. In passato, proprio perché questo esito non era garantito dal quesito, la Corte costituzionale (sent. 47/1991) dichiarò inammissibile il referendum sulla legge elettorale del Senato; mentre, avendo i promotori riformulato il quesito, la Corte lo ritenne questa volta ammissibile (sent. 32/1993) appunto perché la normativa di risulta avrebbe consentito l’operatività del sistema elettorale, senza alcun ulteriore intervento del legislatore.

Per cercare di infilarsi in questo spiraglio, i promotori hanno provato a ritagliare la legge Calderoli, per far emergere una normativa direttamente applicabile.

Ma non ci sono riusciti. Diversi punti del quesito numero 2, infatti, contengono abrogazioni di legge abrogate (mi si scusi il bisticcio). Il quesito prevede in particolare l’abrogazione delle norme della legge vigente, che a loro volta avevano abrogato i decreti legislativi sulla determinazione dei collegi uninominali della Camera e del Senato. Ma, come si ricordava, l’abrogazione non può far rivivere norme abrogate, e quindi l’eventuale approvazione del quesito produrrebbe una legge priva della normativa che riguarda il suo punto centrale, cioè l’adozione dei collegi uninominali. Ne risulterebbe una legge non immediatamente operativa, in contrasto con quanto richiesto dalla Corte costituzionale.

Chiedo scusa per i tecnicismi. Sono anch’io contrario al “porcellum”, e comprendo le ragioni di un’iniziativa referendaria. Per esempio, quella promossa da Passigli (il quesito sull’abolizione del premio di maggioranza è sicuramente ammissibile). Ma, come dicevo all’inizio, il problema è un altro: quando nei talk show televisivi sento promettere che con i referendum si tornerà alla legge elettorale Mattarella, mi indigno, come si dice adesso. Da giurista e da politico di altri tempi.