La balcanizzazione delle primarie

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Il “campo” progressista si è fatto pesante, anzi un pantano. C’è chi – come Nichi Vendola – ha il fango fino alle caviglie e, non riuscendo a muoversi, ha deciso di defilarsi o forse si sta soltanto riposizionando. Chi può dirlo. D’altronde l’uscita di Renzi ha destabilizzato il quadretto patetico della foto di Vasto, anche se strappata da un lato, quello di Di Pietro. Vendola soffre gli argomenti anticastisti di Renzi, soffre il metodo prettamente mediatico e obamiano (sinora il miglior imitatore qui da noi, secondo Giovanna Cosenza). Questo perché Vendola è zavorrato: Sinistra e Libertà è ciò che resta del bizzarro esperimento del 2008 che passò alla storia con il nome di Sinistra Arcobaleno. Addirittura Nichi è stato recentemente immortalato insieme agli ex di Rifondazione Comunista, Ferrero e Diliberto, e altri dei comitati referendari, proprio davanti al Palazzaccio della Cassazione, al momento della consegna delle firme contro l’articolo 18 nella versione Fornero-Monti. Nella foto comparivano almeno dieci persone, tutte indistinguibili e al medesimo momento parlanti ognuno una lingua diversa. Lo spettro dell’Unione di Prodi aleggiava nell’aria. Direbbe Renzi che la storia ha già emesso la sua sentenza su Vendola-Ferrero-Diliberto-Di Pietro e compagnia. Senza dubbio una verità che è difficile negare. Tutte le chiassose contraddizioni della sinistra erano ancora lì, soltanto sottaciute e riallineate momentaneamente dalla madre di tutte le guerre, quella dell’articolo 18.

Lo scenario delle primarie si è quindi improvvisamente ristretto e, salvo alcune impalpabili controfigure come Valdo Spini e Nencini, personaggi sopravvissuti a tutte le sciagure della prima e della seconda repubblica ma irrimediabilmente “appartenenti al secolo scorso” (cfr. Renzi o Civati), la battaglia si può circoscrivere dentro al Partito Democratico. Sì, queste primarie anticipano di un anno il congresso. E’ bene dirlo, a scanso di equivoci. Chi perde (Bersani?) rimane al proprio posto ma sarà certamente commissariato. Chi vince governa ma non è chiaro se con la coalizione che conosciamo, ovvero quella PD-Sel. Vendola oggi ha affermato che se dovesse partecipare alle primarie, lo farebbe per vincere. E che assolutamente non sosterrà mai un candidato del PD. Viene da chiedersi se potrà mai sedere in un governo guidato da Matteo Renzi.

Lui, il sindaco della discordia, ha in questo momento la capacità di definire l’agenda della campagna elettorale. Per i media il binomio Bersani-Renzi è comodo e sbrigativo. Hanno trovato la coppia  antinomica tipica di una competizione elettorale in un sistema bipolare (le primarie in America tendono sempre a ridurre lo scontro a due sole candidature, come accadde per Obama e Hillary Clinton nel 2008). C’è spazio per una terza candidatura? Se guardiamo a Vendola, potremmo rispondere subito di no. La ragione è molto semplice: Vendola non è in grado di sussumere in sé, e quindi di superare in una sintesi, la coppia Bersani-Renzi. Ne consegue che il Partito Democratico, per non soccombere nella divisione, deve produrre (letteralmente) una terza candidatura. Che potrebbe essere formalizzata in chiaro nei prossimi giorni, quando verrà chiarito se gli annunci di partecipazione di Laura Puppato, Debora Serracchiani, Stefano Boeri resteranno tali o potranno piuttosto essere reindirizzati sotto la figura di Pippo Civati. Evitando di sfociare in un terzomozionismo inefficace (come fu per Ignazio Marino), la candidatura di Civati potrebbe essere concorrenziale nei confronti di Renzi solo e soltanto se riesce a superare la retorica renziana della rottamazione. Spostarsi su un altro livello di argomentazioni, immediatamente incrinerebbe il castello di carta di Renzi. Renzi si è definito in perfetta dicotomia su Bersani – e in un certo senso nei confronti di tutto l’arco parlamentare attuale. Renzi ha preso da Civati quanto  gli serviva per costruire una identità forte. La rottamazione è la parola che descrive tutto ciò. E’ terribilmente efficace. Fa presa. Forse più di Grillo. Forse perché è argomento di Grillo e stimola un certo revanscismo nei confronti della Casta, un revanscismo che serpeggia un po’ dappertutto, finanche nell’elettorato dei democratici. L’operazione di Civati sarà vincente solo se riuscirà a smontare questo formidabile argomento. Ci riuscirà?

Civati ha preparato ben sei referendum di partito. I Referendum PD sono forse l’atto più forte e destabilizzante che lui e il suo gruppo sono riusciti a portare alla dirigenza del partito, immobile e ripiegata su sé stessa da ormai più di venti anni. Lo stanno facendo impiegando le regole dello Statuto. E non solo tramite il web: Civati può contare su una vasta rete di sostenitori, forse ancor più estesa di quella di Renzi, che invece ha pescato molto fuori del partito per realizzare il proprio staff. Civati, forse non lo sa, ma è la più importante chance di sopravvivenza del partito medesimo. Questo il segretario Bersani (non il candidato) dovrebbe considerarlo. Tramite i referendum, se mai verrà raggiunto il numero minimo di firme richiesto, Civati obbliga il PD alla partecipazione dell’elettorato nelle decisioni, fatto che viene visto come fumo negli occhi da Bersani/Bindi e che Renzi si guarda bene dal nominarlo.

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