A different place: Beppe Grillo va sul Washington Post

Cominciamo dalla conclusione, ovvero dalle parole – tradotte in inglese – di Giovanni Favia: “The figure of Beppe Grillo is a necessity if Italy is going to be a different place”. Grillo come una necessità, se l’Italia vuol essere un paese diverso. Ma l’impressione che se ne ricava, se nulla ne sapessimo, leggendo le tre pagine che il Washington Post dedica al fenomeno 5 Stelle, sarebbe una brutta – bruttissima – impressione.

La questione della partecipazione dal basso emerge solo ed esclusivamente per il famoso fuorionda di Favia a Piazzapulita. Del resto, si intuisce appena che il M5S sia un movimento a sé stante, mentre la figura di Grillo campeggia quasi come quella di un nuovo Berlusconi, ed è pericolosa come Berlusconi. Nel testo, Grillo è accostato a leader populisti europei, come Le Pen in Francia, Stronach in Austria e Geert Wilders in Olanda. Il personalismo, in questa ricostruzione, è preminente. La vulgata a 5 Stelle dirà che è un articolo pagato da qualche partito italiano o opera del complotto mondiale delle Banche che sostiene il Monti-bis. Più probabilmente questo articolo è molto più fedele di quanto non lo siamo noi, che ci vediamo con i nostri troppo generosi occhi. Forse non ci siamo accorti che stiamo sostituendo un personalismo televisivo con un personalismo a mezzo blog. Per essere effettivamente un “different place” dovremmo avere la “fiducia e il coraggio” (prendo in presto queste parole di Civati) di riformare il sistema partitico in senso maggiormente partecipativo e inclusivo e trasparente, esattamente ciò che la politica non fa e che Grillo dice di voler fare ma è il primo a non praticare.

Grillo raccoglie il sentimento antieuropeista dalla estrema sinistra. Con il consolidato argomento che l’Unione Europea è una macchina costruita dalle plutocrazie europee allo scopo di scippare il popolo della sua sovranità, Grillo aggiunge e fonde ad esso la retorica anti moneta unica e anti austerità, temi di forte presa sul “pubblico” alle prese con la più forte recessione dal 2009 (cosiddetta double-dip). Le medesime argomentazioni sono impiegate da Paolo Ferrero, FdS. E da Berlusconi, seppur con accenti diversi. L’idea di Europa come unione pacifica di stati, come superamento del dogma della sovranità assoluta e della forma della Nazione-Potenza, non viene nemmeno lontanamente sfiorato. L’Europa è un nemico burocratico, che ci tratta come numeri, che cancella posti di lavoro tracciando righe su fogli di carta. Un nemico che non ha volto ma che il leader populista agita come uno spettro. Non è del tutto sbagliata la dichiarazione del giornalista Massimo Franco al Washington Post: “Grillo represents a sort of blurring of the far left and far right” (Grillo rappresenta una sorta di con-fusione dell’estrema sinistra e dell’estrema destra). Da un lato si depreca l’uso di denaro pubblico per alimentare il sistema politico, dall’altro si chiede che la mano pubblica gestisca le utilities municipali, in un sorta di riedizione dello Stato sociale degli Settanta in un’epoca in cui i bilanci pubblici sono soggetti a forti cure dimagranti.

Il collante vero, ed è ciò che sfugge all’auto dell’articolo del WP, ciò che coagula questa massa critica che è ormai divenuto il “pubblico” dei 5 Stelle, è l’ideologia della democrazia diretta, una forma di governo che gestisce il rapporto cittadino-stato attraverso i new media e quindi lo meccanizza attraverso il software. L’idea è totalizzante: l’individuo è sussunto in una sorta di plebiscito quotidiano, in una deliberazione perpetua, che comunque non potrà mai essere immediata, ma è gestita, guidata, anticipata dal marketing politico e dai software di gestione dei flussi di informazione. Il grande inganno risiede nel fatto che la rete non è libera. Grillo dice che la rete è invincibile, che è autocorrettiva, ma egli stesso è un campione del marketing politico. E usa la rete come un media alternativo, avendo egli perso le chiavi di accesso al media di massa per eccellenza, la televisione. Il suo linguaggio è un linguaggio diverso da quello di Wilders. Non è un linguaggio causale, ma agisce sempre attraverso ripetizioni, attraverso l’uso dei nomi distorti, attraverso la retorica anticasta, alimentando la corrente dell’indignazione. Ed è attraverso il motore dell’indignazione che Grillo a sua volta alimenta il proprio bacino elettorale potenziale. Di ciò non c’è traccia nell’articolo del Washington Post e, se mi permettete, questa è infine la vera novità del fenomeno del “the funny man”.

Grillo apre la via della Politica 2.0? E’ effettivamente una rivoluzione profonda la sua, anche rispetto ai più avanzati progetti di marketing virale applicati al campo politico, come poteva esserlo la campagna Obama-Biden del 2008. Grazie al M5S, una nuova generazione di cittadini viene socializzata alla politica. Ma – a mio avviso – il suo progetto rischia già di essere vecchio. Grillo dinanzi alla esplosione dei social-media è fondamentalmente disarmato (Facebook nel 2008 in Italia contava 700.000 profili, oggi 21 milioni). Grillo non è un attore nel mondo del tweeting. Lui e il suo staff curano la diffusione dei contenuti anche sulla rete di contatti che si dipana da Twitter o da Facebook, ma le interazioni sono quasi nulle. Potrei definire il rapporto di Grillo con il web come uno-molti. Ed è anche unidirezionale. Esattamente l’opposto di ciò che propaganda. Qui si cela l’inganno. Ma sulla stampa estera spicca la figura del leader populista. Per questa ragione, e non altre, si può dire che l’analisi del WP è superficiale. L’anomalia Grillo non è semplicemente una anomalia partitica, ma costituisce l’apertura del mondo politico a un tipo di interazione che è mediata dalla macchina software. E si tratta solo di metà della rivoluzione. Che avverrà pienamente soltanto quando il flusso informativo avverrà in ambedue le direzioni, da e verso il leader/rappresentante/eletto. L’inquadramento dato dal WP a Grillo è per queste ragioni deficitario.