La storia del Cavaliere fregato

La storia del Cavaliere fregato dall’elezione a Capo dello Stato di Sergio Mattarella non pare essere una narrazione destinata ad esaurirsi. Berlusconi medesimo non sembra nemmeno molto intenzionato a frenare o ribaltare la vulgata mainstream del capolavoro di Renzi, che vince turlupinando il proprio avversario/alleato.

Il modello di un premier che vince politicamente letteralmente fottendo il proprio interlocutore, che è insieme ostile ed amico, è semplice ed immediato, funzionale allo scopo di rappresentare la rottura di una presunta alleanza a ‘targhe alterne’, se così si può dire. Renzi il furbo mette alle strette il principe dei furbi, ora invece relegato nel girone dei dannati del renzismo. Il Cavaliere è un ex Cavaliere, è reduce dal confino di Cesano Boscone, la sua squadra di calcio perde e subisce gol ingiusti a causa della ingiusta legge della prospettiva centrale: ed è stato fregato da Matteo. Lo spietato Matteo, irriguardoso verso il vecchio capostipite del centrodestra, vecchio e stanco e sempre sul punto di decadere da sé stesso, eppur lì, l’unico, il solo in grado di portare avanti una iniziativa politica a destra, sebbene Fitto e Salvini si stiano preparando alla successione, ognuno per il proprio segmento elettorale.

Il Cavaliere defraudato si ricompone emotivamente con quella parte del paese che si sente, o si sentirà, circuita, presa in giro dal giovane rampante che gli ha rubato il posto, il terzo premier non eletto, per giunta disonesto. E, sebbene la convenienza politica suggerirebbe di lasciar fare, il calcolo elettorale presuppone di doversi raccontare oggi nella veste del perdente per sperare domani di rimediare almeno al disfacimento totale della propria compagine. Sebbene abbia vinto la narrazione di un altro, occorre in qualche modo trarne vantaggio.

#Quirinale, la convergenza parallela

E infine ogni nube si è dissolta sul Colle del Quirinale. Mattarella verrà eletto domani, al quarto scrutinio, con una convergenza – parallela, si direbbe – fra sostenitori della prima ora e i redenti del centrodestra, vecchio o nuovo che sia. Non ci saranno imboscate, né trame occulte. Berlusconi incassa la sconfitta, che sconfitta non è. Grillo può continuare a sparare a zero su un obbiettivo, dovendo mantenere lo scopo primario della sua impresa politica, ovvero l’iniziativa editoriale. E Renzi, Renzi ha battuto gli spettri del 2013 e può proseguire l’esperienza di governo con Alfano e soci. Perché questo è l’elemento chiave. E’ cambiato solo l’inquilino al Quirinale, il resto no. La maggioranza che voterà domani Sergio Mattarella è più precaria dei contratti del jobs act. Si materializzerà per un singolo voto e quindi si inabisserà nei meandri di Montecitorio per lasciare il passo al patto d’acciaio Pd-NCD.

Il Quirinale è stato neutralizzato. Potremo tornare a discutere di riforme costituzionali come se niente fosse?

Sfiducia Alfano: Napolitano ordina, Epifani esegue, Franceschini si frega le mani

Sì, è un fotomontaggio

Sì, è un fotomontaggio

Oggi lo possiamo dire con un certo grado di sicurezza: i famosi 101 hanno un padre ispiratore, un ideatore occulto che si è inventato letteralmente il secondo mandato e ha costruito il governo delle ‘Larghe Intese’. Sì, Giorgio Napolitano.

Napolitano, oggi, si è palesato con alcune dichiarazioni fin troppo limpide: 1) non è possibile nemmeno far vacillare il governissimo; 2) chi lo fa si prende la colpa e non potrà contare sul Presidente per la formazione di un nuovo governo (ergo, se cade Letta si dimette?); 3) l’alternativa è che non c’è nessuna alternativa, pena la gogna finanziaria internazionale. Il governo del cambiamento è stato negato fin dalle origini dal Quirinale. Il Quirinale ha accolto il pavido Bersani, incapace di dire pubblicamente che il governo con il PdL era già nei programmi il giorno dopo le elezioni. Il Quirinale ha accettato una nuova candidatura per un mandato bis talmente irrituale da essere ai confini della costituzionalità. Il Quirinale è la garanzia vivente per la sopravvivenza di Letta quale presidente del consiglio del Governissimo.

La mina del Kazakhstan, esplosa con colpevole e consapevole ritardo (tutto era noto, persino che si trattava dei familiari di un dissidente – poiché così recitò l’Ansa del 31 Maggio), ha finito per rivelare o l’incapacità della gestione Alfano, oppure la sua correità con la deportazione di Alma e Aula Shalabayeva. In ogni caso, sarebbe un ministro da dimissionare. Letta, invece, ha dapprima negato il caso (ed era il 5 Luglio, “non ho letto i giornali”, rispose al cronista de Il Fatto), poi ha emesso, tramite il Consiglio dei Ministri, un comunicato in cui assicurava la correttezza delle procedure seguite dai poliziotti; infine, dopo la lettura dell’informativa ‘urgente’ alle Camere, ha sposato in pieno la linea del ‘non c’ero, non sapevo’ del suo ministro. Di fatto, a questo punto della vicenda, diventata a pieno titolo uno scandalo internazionale, né Alfano né Letta potrebbero rimanere al proprio posto indenni. Ma al tempo delle larghe intese, questo prezzo lo pagheranno altri (tipo, per esempio, gli elettori del PD – e le anime belle).

Napolitano ha stigmatizzato anche lui il caso Shalabayeva. Parla di ‘imbarazzo’ e ‘discredito’ per il paese, ma non di grave violazione dei diritti umani.

Occorre sgombrare il campo egualmente da gravi motivi di imbarazzo e di discredito per lo Stato e dunque per il Paese, come quelli provocati dall’inaudita storia della precipitosa espulsione dall’Italia della madre Kazaka, della sua bambina, sulla base di una sedicente e distorsiva rappresentazione del caso (Il Sole 24 Ore).

“È indispensabile”, ha altresì detto, “proseguire nella realizzazione degli impegni del governo Letta, sul piano della politica economica, finanziaria, sociale, dell’iniziativa europea, e insieme del cronoprogramma di 18 mesi per le riforme istituzionali”. Ecco cos’è il governo Letta: il governo del Presidentissimo, con un programma di riforme pensate e ideate dal Quirinale. Come scrive Civati, “una riforma costituzionale l’abbiamo già fatta. Il presidenzialismo”.

Il rischio Alfano si è quindi trasferito in toto sulle spalle deboli della maggioranza di governo: quelle del PD. Già, perché dinanzi ad una sacrosanta mozione di sfiducia delle opposizioni, la segreteria, su evidente imbeccatura del Quirinale (e pronta adesione dei 101…), ha stabilito tramite il capogruppo Zanda la linea dura: “non ci saranno voti in dissenso” per cui pare evidente che, se anche ben ci saranno, il momento dopo in cui verranno espressi, quei voti non saranno più del PD, ma del gruppo Misto. L’ombra dell’espulsione è solo paventata, ma è evidente, sottotraccia, come un bastone che balena dietro le schiene di energumeni picchiatori. Franceschini, ministro per i rapporti con il Parlamento (che sembra più che altro un ministro per i rapporti del PdL con il PD) afferma:

“È ora di smetterla che quelli che non si allineano alle decisioni del partito fanno la figura delle anime belle mentre gli altri, quelli che ci mettono la faccia, sono i cattivi. Questo non è più tollerabile”.

Non è più tollerabile significa una cosa sola. C’è bisogno di spiegarlo? Il gruppo PD al Senato ha votato quasi all’unanimità per il no alla sfiducia individuale. Si sono distinti in sette, fra cui l’unico superstite fra i renziani, Marcucci (hanno resistito dietro la linea Maginot dell’astensione i soli senatori Ricchiuti, Tocci, Collina, Puppato, Marcucci, Cociancich). La linea dura di Zanda è stata rafforzata con questo passaggio logico: non è un voto di coscienza, è un voto politico (come se la coscienza fosse impolitica). Detto ciò, ha detto tutto: la politica del PD è proseguire il disegno quirinalizio delle riforme in diciotto mesi, mantenendosi al potere con e per il tramite della pletora berlusconiana. Se il governo consegna nelle mani di un dittatore la moglie e la figlia di sei anni (ripeto, sei anni!) di un dissidente, niente importa, vengon prima le miracolose riforme costituzionali.

Ci rimangono Franceschini e il suo volto duro da Sceriffo.

Il #Quirinale e l’influenza di Twitter

A corredo delle discussioni inutili sull’influenza dei social network intorno alla elezione del Presidente della Repubblica, cito ad esempio questa amabilissima discussione che Francesco Boccia ha appena avuto su Twitter:

http://twitter.com/F_Boccia/status/325559852493570049

Il problema è fin troppo chiaro. C’è una domanda, forte, che si dipana attraverso i social, di cambiamento. Se non ci fossero stati i social, saremmo già in sciopero generale o in piazza a Montecitorio a sfasciare le vetrine. Capito?

In secondo luogo, è la risposta che latita. Rivendicare, come ha fatto Boccia, il fatto di aver preso 5000 voti in primarie avvenute quattro mesi fa quando questo clima era ancora sottotraccia, e farlo con quel tono, significa sordità cognitiva. O qualcosa di simile.

I social, come detto, sono solo il mezzo. 

Il contropiede dalemiano/berlusconiano in salsa cattolica

Mi sbaglierò, ma ormai la disfatta è totale. L’intransigenza dei 5 Stelle sommata alle divisioni interne al PD, all’opportunismo montiano, al cinismo di Berlusconi, ha partorito il suo topolino: con l’asticella posta a 504 voti, domani, se il PD non riuscirà a compattarsi e a convergere unito sul nome di Rodotà, ipotesi che ha tante probabilità quanto la caduta di un asteroide, si realizzerà il piano perfetto per Silvio Berlusconi. L’elezione di Massimo D’Alema.

Prodi è stato bruciato sull’altare sacro delle Larghe Intese. E così il Partito Democratico. Che stando all’attuale situazione, vivrà certamente la stagione congressuale come l’atto finale della propria esistenza. La resistenza dell’élite dirigenziale del Partito Democratico è senza senso, nasconde una volontà di distruggere tutto pur di conservarsi. Sappiano, questi signori, che il loro tempo è scaduto e che questo inutile abbarbicamento sulla cresta del Quirinale renderà solo più veloce la caduta.

I cento che hanno tradito Prodi non sono giustificati dalla libertà di mandato. Essi hanno mentito. Hanno dichiarato pubblicamente al Capranica il voto per il fondatore dell’Ulivo. Nel segreto dell’urna, invece, si sono fatti guidare dall’interesse malevolo di distruggere per conservare. E dall’altra parte, consapevole dell’esito, Berlusconi si farà passare per un grande statista responsabile verso la Nazione. Un paradosso.

-.-.-

In serata, Berlusconi si è recato a Palazzo Chigi per incontrare Mario Monti. Il disegno, grosso modo, è questo: proporranno Anna Maria Cancellieri, ora ministro dell’Interno, la quale verrà votata in blocco dal centrodestra, dai montiani e dai popolari del PD. Il trapasso è compiuto.

Alle ore 22, la riunione del gruppo del PD. Senza Sel. Brutta abitudine.

Ma chi è Cosimo Sibilia?

E’ rientrato ingiustamente nell’elenco dei nomi curiosi votati oggi da qualche parlamentare burlone. Ma Cosimo Sibilia esiste davvero ed è un senatore.

Figlio dell’ex presidente dell’AvellinoAntonio Sibilia, è coniugato ed ha due figli. Laureato in Scienze politiche attualmente è Senatore della Repubblica.

Inizia la sua attività politica nel 1994 aderendo a Forza Italia e fondandone il primo club a Mercogliano. Dal 1995 al 1997 ricopre il ruolo di coordinatore provinciale. Nell’aprile del 1995 viene eletto al Consiglio Regionale della Campania e ricopre per 5 anni l’incarico di Presidente della Commissione Istruzione, Cultura, Politiche Sociali e Tempo Libero. Nel 2000 viene rieletto alla Regione Campania ed entra a far parte per i cinque anni successivi del Collegio dei Revisori dei Conti. Viene ulteriormente candidato alla Regione nel 2005 ed oltre a confermare il precedente incarico, diviene anche il capogruppo del partito nel consiglio regionale campano.

Nel 2008 viene candidato al Senato della Repubblica nelle file del Popolo della Libertà e risulta eletto. Viene rieletto nel 2013.

L’8 giugno2009 diventa presidente della Provincia di Avellino in seguito alla vittoria alle elezioni amministrative. Si dimette il 29 dicembre 2012. Dal 28 gennaio 2011 è coordinatore del Pdl per la provincia di Avellino. (via Wikipedia).

Oggi ha preso ben sette voti. I suoi compagni di banco?

La fase nuova (Bersani non ha capito niente)

Ora si apre una fase nuova, ha detto Bersani. Dopo una riunione serale in cui ha imposto al partito una decisione assurda e irrazionale. Dopo essere stato pubblicamente sconfessato, sia dall’alleato (ex alleato?) Vendola, sia da metà dei suoi parlamentari, sia dalla base degli iscritti, specie i giovani – che occupano le sedi e i circoli – sia da tutto l’elettorato attivo, che si è pure mobilitato non solo via web.

Dire oggi che si è aperta una fase nuova significa avere seri problemi di comprendonio. La fase nuova si è aperta da mesi, o almeno dal 24-25 Febbraio. Si parla di una enorme pressione esercitata dai social network. Che se nel 2006 ci fossero stati i social network (e c’erano), Napolitano non sarebbe stato eletto. E Ciampi, pure, non sarebbe stato eletto. Se ci fossero stati i social cosi. Tutta colpa di Facebook, quindi? O di Twitter? Questa enorme pressione. Non capiscono che i social media sono solo un mezzo (da cui la parola media, eh!) facilitatore della comunicazione fra più livelli ed è naturale che, in prossimità di una fase politica così delicata in cui si decide il futuro di questo paese, ci sia attenzione da parte del popolo/pubblico/elettorato. La novità è che c’è attenzione, tantissima attenzione. E attesa. Attesa di un nome che possa finalmente archiviare anni di tetro berlusconismo.

Marini non lo vogliamo | Una parte del PD contro la scelta di Bersani

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[in aggiornamento]

Questa scelta ha un non so ché di tragico. La scelta di Franco Marini è di fatto la pietra tombale della segreteria Bersani e di quella parte di dirigenza che promana dalla tradizione marcescente del binomio DS-Margherita. E’ finita, signori. Il PD domani si spaccherà come un treno che deraglia. E’ ora persino di anticipare il congresso.

Su Facebook è una alluvione di commenti negativi. A parte Alessandra Moretti, secondo la quale “Penso che i nomi che circolano, da Prodi a Rodotà, da Marini alla Bonino, abbiano tutti un profilo adeguato. Non vedo candidati improponibili in ballo. Il nome giusto, però, sarà quello capace di attivare la maggiore condivisione tra tutte le forze politiche, perché regole e istituzioni appartengono a tutti e non ad una parte sola”. Leggere per credere:

moretti_fbMa a parte lei, tutto il PD, dico tutto, da Marianna Madia a Pippo Civati, a Giulia Morini, a Thomas Casadei, a Debora Serracchiani eccetera, è contro questa scelta. In questi istanti, Rosy Bindi in tv sta usando toni tutt’altro che definitivi, afferma che se dovessero esserci molte spaccature, il nome potrebbe anche essere diverso.

Domani si apre quindi la stagione di caccia quirinalizia. Si prevede che i franchi tiratori facciano strage di bersaniani.

Quindi, in definitiva solo i bersaniani voteranno Marini. Dalle altre correnti (o simili) ci si aspetterebbe un no senza dubbi. Da Renzi a Civati, fino ai giovani turchi, giungono dei rifuti e dei dubbi sulla scelta. A Marini servono 672 voti. Ci pensa Youtrend a fare i conti:

Quindi Bersani forzerà il suo stesso partito a spaccarsi per votare insieme al Pdl? Davvero è così incosciente?

Intanto la notizia rimbalza su Electionista, il quale afferma che Berlusconi avrebbe confermato che Franco Marini è anche il candidato di centro-destra:

E come ha detto stasera Matteo Renzi, il nome di Marini è legato ad una sconfitta elettorale, quella in Abruzzo lo scorso 24-25 Febbraio. Marini e i mariniani in Abruzzo hanno distrutto i democratici con una guerra insensata contro gli ex DS. Li chiamavano ‘i comunisti’. Come Berlusconi.

Insomma, s’io fossi foco arderei @pbersani

siofossi[Appuntamento domani ore dieci con #opencamera e #nomarini sulla homepage!!1!!]

Civati alla ricerca di un dialogo con il M5S | #Cosemaiviste storify

[Con il contributo di @marcocacchioli @gruggieri @raffoblog  @70RoK @paologandolfi @Mirchen37 @CALentola @Louisebonz]

L’occasione è storica, scrive Andrea Scanzi. Le Quirinarie hanno selezionato dieci nomi per il Colle più alto che possono essere propedeutici a creare una nuova convergenza, una versione delle larghe intese che non sia giocoforza uno sfondamento a Destra, verso gli Impresentabili per antonomasia. Pippo Civati e il PD di Parma hanno provato a intavolare un dialogo con i 5 Stelle della Stalingrado grillina. Stamane, per circa due ore, dal vivo e in diretta streaming dalla sala della Corale Verdi, Civati, Marco Bosio (capogruppo M5S a Parma) e Nicola Dell’olio (capogruppo PD a Parma) hanno parlato dell’inutilità del non dialogo e del rifiuto a prescindere di qualsiasi soluzione allo stallo, creatosi dopo il voto del 24-25 Febbraio. Non si può dire che l’argomento non interessi poiché, per quanto la Corale Verdi sia piccola, la sala era affollata.

Civati ha sdrammatizzato chiamando l’evento ‘Incontri ravvicinati della terza Repubblica’, un titolo che ha un sottotesto notevole, specie se si pensa che la strategia della segreteria PD e dei capigruppo parlamentari, dell’una e dell’altra parte, è stata tutt’altro che conciliante.

In Parlamento non si dialoga, ma il dialogo in questo momento serve perché è inutile trincerarsi dietro le formule propagandistiche ‘calate’ dall’alto. Il dialogo è utile a scoprire che non si è molto diversi, dopotutto. Che se non si comincia da qualcosa, evidentemente non si potrà mai e poi mai fare una sola delle mille riforme che il M5S vuole fare. Civati comincia dal Presidente della Repubblica e ricorda la campagna per porre tetto alle retribuzioni degli Alti Papaveri della Pubblica Amministrazione, il tetto del Quirinale:

Bosi ha replicato con una precisazione che sa di ‘bizantinismo’ e una specie di sviolinata a Civati:

Eppure l’alterità del 5S rispetto al ‘sistema’ non può essere sprecata con l’arroccamento. Bosi ne è consapevole. E’ consapevole che un momento come questo non tornerà. L’occasione è storica. L’ha detto anche Andrea Scanzi.

Bersani non andava bene. Per Bosi il PD doveva fare un altro nome. In fin dei conti, quando Civati scriveva del Piano C, chiedeva proprio questo. Ma il Capo Comico ha portato avanti la linea del no a prescindere. No anche alle ‘foglie di fico’.

Civati spiega perché le larghe intese possono essere meglio di come le ricordiamo. Se non altro, un governissimo con Ignazio La Russa sarebbe la fine del PD per come lo conosciamo.

Venti anni di occasioni perdute e dovremmo aspettare ancora? A quando il governo del cambiamento? Dall’Olio torna sulla critica storica dei Democratici verso i 5 Stelle.  Chi decide nel Movimento? Bosi si è un po’ arrabbiato, ed è stato così tutte le volte che Dall’Olio ha preso parola. Il dibattito è subito scemato dalle cose da fare alle corrispettive contestazioni.

Civati non coglie la provocazione e rilancia sul finanziamento pubblico ai partiti. La proposta Tocci, che con il sistema del 5 per mille metterebbe d’accordo la volontà di eliminare i rimborsi e dall’altro regolerebbe i finanziamenti privati:

A fine dibattito, una domanda di un militante a 5 Stelle scalda di nuovo gli animi.

Il 5 Stelle afferma che Bersani ha sbagliato tutto. Il PD dovrebbe dimissionarlo. Dall’Olio smette per un attimo i panni del moderatore e attacca il 5 Stelle. Bersani ha ricevuto un milione e settecentomila voti! Metà platea applaude.

La rosa quirinalizia a 5 Stelle

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I 5 Stelle hanno selezionato dieci nomi per il Quirinale. A prescindere dai difetti del mezzo (la prima votazione è stata annullata per irregolarità), la notizia è che le preferenze degli iscritti non sono tanto diverse, per esempio, da quelle dei lettori de Il Corriere.it. Anche nella rosa a 5 Stelle c’è il nome di Emma Bonino, quello di Stefano Rodotà, quello di Gustavo Zagrebelsky, di Gino Strada e così via. L’idea che mi sono fatto è che, in fondo, le due platee di votanti si somiglino molto fra di loro, o per meglio dire le due votazioni chiamino a sé il medesimo ‘sentimento’, che è un sentimento di dignità. La domanda che emergerebbe da queste consultazioni più o meno affidabili sarebbe una domanda di dignità. La gente, sia essa parte della platea ristretta del Movimento 5 Stelle, sia invece quella più volatile dei frequentatori di un giornale online, si aspetta dalle operazioni di voto del Parlamento un nome di una personalità politica presentabile.

Sono arciconvinto che se anche il PD mettesse in opera un meccanismo del genere, il risultato sarebbe quanto di più simile a quelli presentati dai 5 Stelle o dal Corriere.

Romano Prodi si è chiamato fuori dalla competizione. E’ chiaro che la sua dichiarazione sia più che altro un rifiuto della candidatura pentastellata. Ma la sua presenza nel listino è propedeutica alla strategia dei 5 Stelle. Che sarà quella di arrivare in aula e sostenere un candidato non eleggibile almeno sino alla quarta votazione, quando sarà sufficiente la maggioranza assoluta delle Camere (505 voti). Sarà in quel preciso momento che uscirà il nome del Professore. Non è uno scenario tanto remoto. Ciò è dimostrato dai toni feroci che Berlusconi ha riservato oggi, dal palco allestito in piazza a Bari, all’ex Presidente della Commissione Europea. Lui attacca Prodi avendolo disarcionato nel 2008 con una compravendita indecente, la cosiddetta Spallata, che si tradusse con l’acquisto di De Gregorio e altri peones. Da un lato, le parole di Berlusconi, volte a minacciare il voto, apparire vincente in una piazza stracolma. Ha voluto spaventare la destra del PD, i popolari di Fioroni, la corrente di Franceschini, più propense al governissimo. Parafrasando: attenti, se non vi accordate con me, voteremo a Giugno e io sarò candidato premier. Dall’altro lato, Bersani, chiuso all’interno di un circolo PD, senza pubblico, con una mimica lamentosa, perso nell’autoreferenzialità e incapace di concludere una sola frase. Sarà un caso, ma l’assistenza a 5 Stelle potrebbe arrivare quando le chance del segretario sono oramai ridotte al minimo.

Governo Monti: ecco la lista dei ministri

Giurano stasera. E domani si comincia dal Senato.

Da Il Fatto Quotidiano Read more

Mario Monti (Economia), Anna Maria Cancellieri (Interni), Paola Severino (Giustizia), Giulio Maria Terzi di Sant’Agata (Esteri), Giampaolo Di Paola (Difesa), Corrado Passera (Sviluppo Economica), Mario Catania (Agricoltura), Corrado Clini (Ambiente), Elsa Fornero (Lavoro e Pari Opportunità), Renato Balduzzi (Salute), Francesco Profumo (Istruzione), Lorenzo Ornaghi (Cultura). Oltre a questi, il presidente Mario Monti ha nominato anche 5 ministri senza portafoglio, ovvero Enzo Moavero, Piero Gnudi, Fabrizio Barca, Piero Giarda e Andrea Riccardi.

Anna Maria Cancellieri – Interni67 anni, romana, ex commissario prefettizio a Bologna (dopo il ‘Cinziagate’ in cui è stato coinvolto Del Bono) e appena nominata commissario a Parma. Il suo è un curriculum di tutto rispetto. Appena maggiorenne inizia a lavorare alla presidenza del Consiglio, poi si laurea in Scienze politiche a Roma e nel ’72, a Milano, inizia la carriera apicale al ministero dell’Interno. Nel 1993 è nominata prefetto. Da qui in poi, una sfilza di impegni: sub-commissario a Milano, commissario a Parma e poi prefetto a Vicenza, Bergamo, Brescia, Catania e Genova. Da segnalare anche il ruolo ricoperto come commissario del teatro Bellini di Catania.

Lorenzo Ornaghi – Cultura63 anni, di Villasanta (Monza), è attuale rettore (al terzo mandato consecutivo) dell’università Cattolica di Milano, dove si è laureato in Scienze politiche nel 1972 ed è stato ricercatore fino al 1987, quando è diventato professore associato all’università di Teramo. Nel 1990 il ritorno a casa, come cattedratico di scienza politica nell’omonima facoltà. Già prorettore, diventa rettore nel 2002. Saggista e autore di prestigio, Ornaghi ricopre e ha ricoperto diversi incarichi di prestigio: è direttore dell’Aseri (Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali), della rivista Vita e pensiero, è vicepresidente di Avvenire e della Fondazione Vittorino Colombo di Milano. Non solo. Membro del Cda della Fondazione Policlinico IRCCS di Milano, dal 2001 al 2006 è stato presidente dell’Agenzia per le Onlus. Nel 2006 ha ricevuto l’Ambrogino d’oro dal Comune di Milano.

Corrado Passera – Sviluppo e Trasporti56 anni, di Como, attualmente è amministratore delegato di Intesa Sanpaolo. Laureato alla Bocconi, master in Business Administration alla Wharton School di Philadelphia, dal 2005 è Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana e dal 2006 Cavaliere del Lavoro. Il manager ha un curriculum vitae a dir poco corposo. E’ membro del Consiglio di Amministrazione dell’Università Bocconi e della Fondazione Teatro alla Scala, consigliere e membro del Comitato Esecutivo dell’ABI – Associazione Bancaria Italiana, dell’International Executive Board for Europe, Middle East and Africa alla Wharton School, del Consiglio Generale della Fondazione Cini di Venezia e dell’International Business Council del World Economic Forum di Ginevra. Dopo una lunga collaborazione col gruppo De Benedetti (direttore generale di Cir, dg di Arnoldo Mondadori Editore e del gruppo editoriale L’Espresso), dopo passa a Olivetti, dove è co-amministratore delegato del gruppo Olivetti. Nel 1996 è amministratore delegato e direttore generale del Banco Ambrosiano Veneto e nel 1998 è nominato dal governo ad di Poste Italiane. Dal 2002 è a Banca Intesa e nel 2006 è tra gli artefici dell’integrazione tra Banca Intesa e Sanpaolo Imi, da cui nasce Intesa Sanpaolo.

Paola Severino – GiustiziaStimato avvocato penalista e vicedirettore dell’Università Luiss “Guido Carli” di proprietà di Confindustria, dal 1997 al 2001 è stata vicepresidente del Consiglio della magistratura militare. Nel 2002, invece, è stata per quasi un mese in pole position per diventare presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. La sua candidatura era la sintesi di un accordo tra maggioranza e opposizione, ma alla fine l’intesa saltò e lei, che era un nome in quota Udc, alla fine, rinunciò all’incarico con un fax inviato direttamente a Pierferdinando Casini. Il suo nome era recentemente circolato come sostituta di Angelino Alfano a via Arenula.

Giampaolo Di Paola- Difesa
67 anni, originario di Torre Annunziata (Napoli), l’ammiraglio Di Paola è attuale presidente del comitato militare della Nato e dal 2004 al 2008 è stato capo di stato maggiore della Difesa (quindi sia con Prodi che con Berlusconi). A testimonianza della stima bipartisan nei suoi confronti, è stato capo di gabinetto prima con il ministro della Difesa in quota centrodestra Carlo Scognamiglio e poi col suo successore Sergio Mattarella (centrosinistra).

Elsa Fornero – Lavoro e Welfare63 anni, docente di economia all’università di Torino, è direttore del Cerp (Centre for Research on Pensions and Welfare Policies), prestigioso centro studi sullo stato sociale in Italia e Europa. Elsa Fornero è anche vicepresidente del consiglio di Sorveglianza di Intesa Sanpaolo e e componente del Nucleo di valutazione sulla spesa previdenziale presso il ministero del Lavoro. Le sue aree di ricerca riguardano il risparmio delle famiglie, la previdenza pubblica e privata e le assicurazioni sulla vita, ed è convinta sostenitrice dell’estensione del metodo contributivo a tutti i lavoratori con previdenza complementare.

Corrado Clini – Ambiente
64 anni, chirurgo, specializzato in medicina del lavoro, è direttore generale del ministero dell’Ambiente e funzionario dello stesso dicastero dal 1990. Clini ha collaborato con diverse università italiane, con l’Agenzia Europea dell’Ambiente e l’Onu, ha collaborato alla stesura del “Piano nazionale per la riduzione delle emissioni di gas serra” ed è autore di oltre 40 pubblicazioni scientifiche.

Giulio Maria Terzi di Sant’Agata – Esteri
65 anni, originario di Bergamo, è l’attuale ambasciatore italiano a Washington. Già responsabile al Cerimoniale della Repubblica e per le visite ufficiali delle delegazioni del Governo Italiano all’estero, nel 1975 gli è stato affidato l’incarico di Primo Segretario per gli affari politici all’Ambasciata italiana a Parigi. Successivamente, è stato consigliere economico e commerciale in Canada per quasi cinque anni e console generale a Vancouver durante l’Expo ’86. Nel 1987 è tornato in Italia per lavorare con compiti di grande responsabilità prima presso la Direzione Generale degli Affari Economici e in seguito alla Direzione Generale del Personale. Successivamente è stato a Bruxelles, dove ha ricoperto la carica di Consigliere Politico della Rappresentanza d’Italia presso la Nato. Dal 1993 al 1998 è stato a New York presso la Rappresentanza d’Italia alle Nazioni Unite, prima come primo consigliere per gli affari politici, e successivamente come ministro e vice rappresentante permanente. Terzi di Sant’Agata ha già lavorato alla Farnesina come vice segretario generale, direttore generale per la cooperazione politica multilaterale e diritti umani e direttore politico. Non solo, negli anni scorsi è stato ambasciatore d’Italia in Israele e, dall’estate del 2008, è stato rappresentante permanente d’Italia alle Nazioni Unite a New York.

Venti di crisi: su Caliendo la fine del governo Berlusconi IV?

La Nuova Camera dei Deputati - XVI Leg. - In nero i deputati finiani di Futuro e Libertà

I numeri, almeno alla Camera ci sono. Trentatre deputati di Futuro e Libertà, il nuovo gruppo parlamentare dei fuoriusciti del PdL. Un numero sufficiente per far venir meno la fiducia al governo. Questo è chiaro a tutti, oggi. E spiega l’escalation della crisi di governo, che solo per ora resta fuori del parlamento ma che potrebbe irrompere, deflagrare in pieno ferragosto. A ben pensarci, un classico della politica della Prima Repubblica, la crisi estiva e il cosiddetto “governo balneare” che solitamente ne scaturisce.

Questa la composizione dei gruppi parlamentari alla Camera, aggiornata con il gruppo di Futuro e Libertà:

I finiani sono addirittura più consistenti di IdV. Questo la dice lunga sull’adesione all’interno del PdL della ‘corrente’ del presidente della Camera. Molti deputati sulla stessa lunghezza d’onda dei ribelli potrebbero manifestarsi nei prossimi giorni. Il potere di scacco al Re (Cesare) è evidente. Resta da vedere se Fini muoverà le torri già con il voto di sfiducia individuale al sottosegretario Caliendo, il rappresentante del governo sul ddl Intercettazioni, coinvolto nell’inchiesta P3. Sembra non sia ancora stata presa una decisione. Fini deciderà nei prossimi giorni, anche se la tirata per la giacca di Di Pietro di stamane dalle colonne de Il Fatto Quotidiano – Di Pietro ha invitato i finiani a votare insieme a IdV e PD per la rimozione del sottosegretario – ha già prodotto i suoi effetti. Così l’ANSA circa un’ora fa:

Fini ha le idee chiarissime su Caliendo. E’ un chiaro avvertimento: Caliendo verrà disarcionato. Non ci possono essere ombre nel governo. E quindi, in conseguenza della sfiducia individuale, si arriverà a Settembre – per Bossi è certo – alla verifica di governo alla Camera. La fibrillazione di queste ore è il segnale che il momento si avvicina. Alla Rai vogliono far iniziare i talk anzitempo, affidando l’approfondimento ai telegiornali (potete bene comprendere con quali risultati e con che taglio argomentativo).

“Trame inquinanti che turbano e allarmano”. Il progetto del Quirinale.

Alla base di qanto successo sinora vi sarebbe un progetto del Quirinale per una transizione morbida al post-berlusconismo e all’isolamento della Lega Nord. Fini ha appoggiato in pieno il disegno di Napolitano. Ha atteso l’approvazione della manovra finanziaria, tralasciando di approfondire la discussione su norme così stringenti in fatto di tagli agli enti locali; ha accelerato sulle nomine dei componenti del Csm. L’idea è che Napolitano, dopo l’emersione dei verbali dello scandalo P3, abbia percepito come insostenibile il livello di penetrazione delle organizzazioni criminali all’interno delle istituzioni. La ‘loggia’ Carboni-Dell’Utri-Verdini, con l’ambasciata di Nicola Cosentino, pare essere costruita come una sorta di parlamentino della malavita, un vero vertice dell’Antistato: associati esterni alla mafia, collusi con la camorra, vertici di banche, giudici corrotti, esperti riciclatori di denaro sembrano troppo anche per uno come Napolitano, che è passato per i momenti più bui della storia repubblicana, dallo stragismo alle BR, dalla P2 a Tangentopoli. Gli strali del Quirinale, ripetuti ancora ieri dinanzi alla vicepresidenza del Csm (Mancino) contro i giudici collusi, suonano come irrituali e dettati dall’urgenza di “salvaguardare la continuità istituzionale”: quasi che siano le istituzioni medesime ad essere minacciate, più che altro. Fini sarà il detonatore alla crisi di governo che si cercherà di risolvere con un governo di ‘salvezza nazionale’ o un governo tecnico, sostenuto – anche senza parteciparvi – da PD, UDC e Futuro e Libertà, forse con l’astensione o l’appoggio estrerno di IdV, senza di cui non si può inventare niente.

Con ciò non significa che B. sia morto e sepolto, anzi. La risposta sarà eguale e contraria alla strategia del Quirinale e presto ne avremo conferma. Se verrà sfiduciato, Berlusoni rovescerà il tavolo delle trattative e chiederà a gran voce elezioni. Ha uno squadrone di telegiornali e trasmissioni televisive e conduttori di talk show e dirigenti Rai pronto a seguirlo.