
Al-mifr, capire l’Egitto – di Vanna Pisa.
Al-mifr significa “il mondo” ed è il nome dell’ Egitto nell’universo arabo. La valenza simbolica di tale nome è più che evidente. L’Egitto
non è nei paesi arabo – islamici un paese come gli altri poichè molti sono gli attori impegnati nel gioco della conquista del potere: i principali sono l’ esercito e i movimenti dell’ ISLAM politico: Fratelli musulmani e Salafiti, le tribù beduine del Sinai, i movimenti giovanili democratici . Dietro e accanto a questi protagonisti ci sono, inoltre, a complicare la partita, paesi e movimenti non egiziani. SI potrebbe procedere, come di solito viene fatto ed è indispensabile fare, ad esaminare le alleanze e le forze in campo.
Per ricordare le incongruenze nei vari schieramenti, si prenda ad esempio l’islam politico.
Detto che in un paese musulmano come l’ Egitto – tenuta in debito conto la numerosa minoranza cristiana dei Copti – non esiste , neanche come termine, quel campo che in Occidente viene definito laico (sono in linea di massima tutti credenti), è certamente utile adottare la definizione sopra richiamata.
Non va dimenticato che la nascita e lo sviluppo dei movimenti islamici attivi in ambito sociale e politico è legata, tra l’altro, al dissolversi dell’ impero ottomano e all’ espansione coloniale europea.
Questo campo è però, limitandosi anche al solo Egitto, diviso, i Salafiti e il loro braccio politico Al-Nour hanno appoggiato il golpe militare contro i Fratelli Musulmani e il loro braccio politico Partito Libertà e Giustizia. I due gruppi sono poi appoggiati da Stati arabi sunniti diversi: solo per rimanere tra le petromonarchie, il Qatar sostiene i Fratelli Musulmani, l’ Arabia Saudita, i Salafiti.
Non ci si può però dimenticare dei movimenti jihadisti, più o meno collegati alla galassia di Al-Qaeda e dei loro legami con le tribù beduine del Sinai, regione nella quale, con interventi militari più o meno mascherati da parte di un ampiamente preoccupato Israele, è in corso una feroce guerriglia che vede contrapposti Jihadisti e alcune tribù beduine e l’esercito egiziano. A livello anedottico ha un certo interesse che colui che viene indicato come il numero uno di Al-Qaeda, Al-Zahawiri, a seguito della morte di Osama bin Laden. sia di origini egiziane e abbia militato in gioventù nei Fratelli Musulmani.
Il Sinai è anche la regione che confina con la Striscia di Gaza, dove governa Hamas, costola palestinese del movimento dei Fratelli; Hamas sostenuta, quando si dice il caso, dal Qatar e dalla Turchia, paese quest’ ultimo che è uno dei più fieri oppositori nel regime militare egiziano ed è governato da uno dei partiti di maggior successo dell’ Islam politico, non arabo però, e che coltiva sogni neo-ottomani.
Questo senza aver ancora tirato in ballo U.S.A, Europa, Russia e altri Stati, non perché tutto ciò non abbia una sua indubbia rilevanza in sede di analisi, ma perché qui si vuole richiamare l’attenzione su una questione troppe volte e troppo spesso ignorata quando si interpretano gli avvenimenti egiziani: la questione economico sociale.
Il momento fusionale, unitario che porta ad abbattere i regimi dispotici e tirannici è ben noto in sede di studi storico-politici, da ultimo si rimanda allo stimolante articolo di S. Zizek ” Morte sul Nilo” (n. 1014 Internazionale). Nello stesso articolo, Zizek aggiunge che, una volta abbattuto il tiranno, inevitabilmente ci si divide e una delle linee di faglia della divisione è quella economico-sociale. Tutti gli attori coinvolti sul tragico palcoscenico egiziano sono portatori di interessi economici, rappresentano sezioni, parti, settori della società egiziana, hanno programmi, progetti, visioni di politica economica e di modelli sociali.
” Il colpo di Stato è guidato dal ministro della Difesa e capo dell’esercito, Generale Abdel Fattah al-Sisi. Significativamente, al-Sisi è stato definito da Morsi il generale più giovane e devoto musulmano, lo scorso anno. Si è anche addestrato ed è ben considerato a Washington, dalla leadership del Pentagono. Gli autori del colpo di Stato indicano la profondità del rifiuto verso la confraternita in Egitto. Al-Sisi aveva annunciato, la sera del 3 luglio, che il capo della Corte Costituzionale agirà da presidente provvisorio e formerà un governo ad interim di tecnocrati per governare il Paese fino alle prossime elezioni presidenziali e parlamentari. È’ stato affiancato dai leader dell’opposizione laica, cristiana e musulmana. Al-Sisi ha detto che l’esercito avrebbe fatto ogni sforzo per avviare il dialogo e la riconciliazione nazionale, accolti da tutte le fazioni ma respinti dal presidente Morsi e dalla sua Fratellanza musulmana.” (Rete-Voltaire 2013).
L’Egitto è un paese sprofondato in una terribile crisi economica che vede sempre più vaste masse di disoccupati e poveri. Accanto alla lotta per le libertà civili e politiche quella contro la povertà all’insegna del motto “pane e lavoro”, è stata ed è uno dei motivi e dei motori della rivoluzione, termine da usare con cautela, che ha portato alla caduta di Mubarak.
La tematica economico-sociale rimane centrale anche per spiegare il fallimento e la caduta di Morsi e dei Fratelli Musulmani. Non dimentichiamo che essi hanno costruito negli 80 anni della loro storia una sorta di Welfare State parallelo rivolto ai ceti più poveri e disagiati, con particolare attenzione a quelli delle periferie e delle campagne. L’ esercito egiziano è d’altronde la più importante holding del paese: dai panifici ai resort sul Mar Rosso non c’ è settore economico di peso che non lo veda coinvolto.
Entrambi i soggetti, di fondo, condividono l’ approccio neo-liberista. Quello che è in corso è dunque anche uno scontro per conquistare il potere tra chi ha e chi non ha, all’interno delle regole capitalistiche.
In Turchia gli Islamisti hanno avuto successo: Erdoğan, fondatore del partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP), e i suoi sono riusciti, per ora, a relegare l’esercito nelle caserme, anche attraverso clamorosi processi, montati o meno che siano (si veda il caso Ergenekon, gruppo terroristico autore di numerosi golpe dal dopo guerra oggi).
Analogia interessante tra i due eserciti, quello turco e quello egiziano: in modi e forme diverse sono comunque gli alleati delle forze che non vogliono l’islamizzazione dello Stato e della società.
In Egitto l’ esercito ha potuto godere del fallimento del governo Morsi, che economicamente non ha fatto pressoché nulla per alleviare le condizioni delle classi popolari più esposte alla crisi, e politicamente ha intrapreso in maniera molto goffa e rozza un percorso di accentramento autoritario del potere e di applicazione della Sharia. I giovani, le donne, larghe sette delle classi medie cittadine non hanno per ora la forza e la capacità organizzativa per costituire una reale alternativa. D’altronde queste forze manifestano i bisogni e le esigenze di una società civile che vuole dire la sua e non ha intenzione di farsi togliere la parola dalle Istituzioni.
Il Retroterra dello scontro: primi anni 90, Algeria.
Il Fronte Islamico della Salvezza, vincitore di regolari elezioni democratiche, va al potere. L’esercito algerino, uno degli eredi del Fronte di Liberazione Nazionale, che costrinse i francesi a far fagotto, non accetta il risultato; l’esercito, dalla fine della guerra di liberazione, è diventato il vero dominus del paese, anche in campo economico .
Sradicare il terrorismo islamico è stata la sua parola d’ordine. Una delle più terribili, brutali e atroci guerre civili che proseguirà per oltre dieci anni con centinaia di migliaia di morti, è stata la conseguenza.
La scelta militare ha radicalizzato sempre di più i movimenti islamici, sempre che si possa usare tale termine, forse anche attraverso accordi tra i servizi segreti algerini e i movimenti armati jihadisti. Questi ultimi, in cambio di una sorta di mano libera nel Sahel, si impegnano a non agire in Algeria.
Quello che sta accadendo in Mali è uno dei frutti avvelenati di questa storia, storia che forse non si ripete ma ama molto le variazioni sul tema. L’Egitto, per sua sfortuna, fa parte del tema.
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